Calcio e caldarroste

settembre 15, 2019

C’era un tempo in cui le memorie avevano un sapore, un retrogusto. Diverso da quello che ha il presente e la faticosa avanzata delle nostre ore, degli umili e granitici minuti. Un sapore più stabile e meno effimero. E sono quei ricordi che ti rimangono, sottili e trasparenti, a levigare il cervello e le striature dell’iride. Quasi indistruttibili, scritti nella roccia. Eravamo giovani e quasi immortali, ci raccontavamo. Il sudore imperlava le nostre fronti, mentre inseguivamo un pallone per le pendenze dei prati. La nostra “Coverciano”. Quando ci davamo appuntamento a “Coverciano” voleva dire vedersela in un pomeriggio di un sabato fresco, quando non si aveva nulla da fare, un pintone di vino rosso, magari Barbera, un pallone duro come il cemento e un pugno di amici. Era uno di quei pomeriggi dove non si avevano grosse aspettative, tranne quella di sudare e insultarsi. Il prato era in mezzo ad un bosco, al confine tra i due paesi, rivali tra loro. Avevamo stipulato una pace, in nome dell’allegria spensierata. Una leggera pendenza, a causa della quale il pallone, o il giocatore, finiva direttamente nella “bialera”, il fosso della raccolta delle acque. Forse il campo era a maggese, forse non era giusto giocare a pallone e rivoltare le zolle con i tacchetti. Forse il proprietario del campo se la rideva, guardandoci rincorrere un pallone.

Quel pallone aveva un nome, di preciso non ricordo quale. Ma il nome suggeriva una certa durezza maschile. Ogni volta che lo colpivamo il dolore ci ricordava quanto la Vita potesse essere stronza. Qualcuno non evitava di colpirlo con la testa. In quel caso o era un individuo di rispetto, o un semplice cretino. In entrambi i casi aveva esagerato con il Barbera.

Se penso a quelle giornate sento ancora l’aria fresca della sera di tarda estate che ci seccava le fronti, il crepitio delle foglie quando si andava a recuperare il pallone nel bosco, vedo i colori del cielo e le ampie falcate di un nostro amico, un gigante di 215 cm. Il proprietario del pallone. Le rapide sorsate di vino come se fosse acqua fresca, le risate, gli interventi poderosi. Poi le pause, e i segreti adolescenziali. Fino a quando si è adolescenti? Quando i sogni finiscono e cominciano i progetti?

In quei giorni un appuntamento nei boschi per cuocere le caldarroste aveva il gusto dell’avventura, del nuovo. Se poi si riusciva a convincere qualche ragazza a presenziare all’evento per innalzare la competitività e il livello di testosterone, beh, era la famosa ciliegina sulla torta. Qualcuno osava indossare la camicia buona. E sfoggiare un buon metodo per cuocere le caldarroste sul fuoco.

Ancora, quell’aria fresca e i colori autunnali, la tendenza a vedere della foschia tra le cime degli alberi anche quando l’aria era tersa e limpida. I sorrisi delle ragazze, eccitate all’idea di essere contemplate e adorate da un nugolo di maschi nel pieno delle loro energie. Il profumo delle caldarroste, quello che un giorno ti ricorderà quanto quella libertà avesse un prezzo, somma misteriosa, una complessa addizione delle tue doti e della tua fortuna. Un vino in bicchieri di plastica, alla giusta temperatura. Quella sera, pensai, aveva già il sapore di un ricordo, talmente era dolce.

Oggi sarebbe un ritrovo allegro, dedito al racconto di aneddoti, di storie. Storie “difficili da credere”. Storie vissute da un altro. Storie assurde e incredibili. In quelle storie si era protagonisti inconcludenti, sgrammaticati nelle emozioni, tristi, afflitti dalla noia e dal mancato coraggio. Ma vitali, a suo modo penetranti, in un tessuto morbido e senza che avesse la pretesa di essere una stoffa pregiata. Abbiamo tessuto il nostro vestito e poi stracciato per rifarlo, doveva infine piacerci. Ora, se ci ritrovassimo a cuocere caldarroste e a bere vino nei boschi, a raccontarci storie incredibili, ci ritroveremo a pensare a quel sapore che aveva una partita a “Coverciano”, a rincorrere un pallone duro e implacabile, paragonando quella tenacia alla nostra voglia di proseguire e sopravvivere nella Vita. Ora che Ella è fatta di appuntamenti, di nodi da sciogliere, di decisioni da prendere, di responsabilità e di figli da sfamare. E di ricordi dal sapore agrodolce. Ad osservare i primi passi di tuo figlio, ad amarlo ogni giorno di più e a rendersi conto della Paura di perdere qualcosa ad ogni passo fatto. Qualcosa di importante. Una lezione da impartire. Una storia da tacere. Forse l’idea, quel pensiero dolente e insieme morbido, che in te è sopravvissuto il calciatore dei boschi, il pellegrino delle montagne, l’anima turbata e raffazzonata che cercava la fuga quando la Vita ti piegava e ti modellava, e resistevi ad ogni tentativo di rivoluzione. L’anarchico che ero, il pragmatico in divenire, un narratore di storie assurde oggi.

 

La guerra degli idioti

agosto 9, 2018

“Ma io mi vergogno… mi vergogno di essere italiano. […] Io non come Papa, ma come italiano mi vergogno! Il popolo italiano è diventato un branco di pecore stupide. Io parlerò, non avrò paura. Mi preme il Concordato, ma più mi preme la coscienza.”.

Furono le parole di un tale Achille Ratti rivolte al gesuita Padre Tacchi Venturi, il primo meglio conosciuto come Papa Pio XI, durante un’udienza del 28.10.1938. In quell’anno furono emanate le prime Leggi Razziali antisemite e la Chiesa, incatenata dal Concordato firmato con Mussolini nel 29, si ritrovò a combattere una guerra in sordina contro Hitler e Mussolini.

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Sam decise di divorarsi il suo bel sandwich al burro d’arachide e marmellata al bordo piscina dell’Hotel. I suoi stavano facendosi un pisolino nella camera 223 al 4° piano del Palacito. Mettevano sempre una certa canzone quando decidevano di fare la pennichella. Sam non capiva come riuscissero ogni volta a prendere sonno con quella musica. Di sicuro non dormivano bene, a giudicare dai versi che facevano ogni volta. Non volevano essere disturbati, cosi il loro unico figlio, un tipetto dall’aria svogliata, decise di ordinare giù al bar dell’androne un bel sandwich al burro d’arachide come piaceva a lui, con i gherigli di noce in mezzo e la marmellata al lampone. Consegnò la sua moneta all’inserviente, un afro di 23 anni dalla risata contagiosa, e si affrettò verso la piscina del Palacito, sito a duecento metri dalla riva del mare dei Caraibi. A Sam non piaceva quel mare. Sembrava finto. L’inserviente ritornò intanto al suo mozzicone di erba e riprese a leggersi i fumetti per adulti.

L’aria era calda e profumava di crema solare al cocco e grigliata di pesce. Sam si tolse i sandali e infilò i piedi nell’acqua tiepida, godendosi quell’attimo di solitudine.

Un movimento, percepito con la coda dell’occhio, lo distrasse. Una banda di ragazzini si stava avviando verso la piccola sala-museo dell’Hotel, un edificio che contava al suo interno delle vasche e qualche scheletro di squalo. Ma l’attrazione era viva e vegeta. E i ragazzini avevano sicuramente genitori come quelli di Sam che li lasciavano scorazzare in giro in cambio di un quarto d’ora di sesso veloce e nervoso. Tempo da ammazzare e scherzi da tirare. Ma non quella volta. I ragazzini avevano intenzioni serie.

Il piccolo maschio di 10 anni, quello con il sandwich mezzo smangiucchiato, si accodò al gruppetto, parzialmente eccitato. Sentì parlare di “angeli del ghiaccio”. Allora è vero, pensò, infilando il resto del sandwich nella tasca e strofinandosi i palmi delle mani sulle bermuda. Erano arrivati fino a qui. Doveva vederli. Il gruppetto si assiepò davanti ad una delle vasche del “museo”. Sam saltellò qui e là, per ottenere una migliore visuale, quando senti caldo in mezzo alle gambe. Registrò con noncuranza il fatto di aver rilasciato la vescica. Anche gli altri non ci avevano fatto caso. Il gruppetto, che per tutto il tempo aveva fatto parecchio chiasso per strada, si ammutolì. All’interno della sala il silenzio fu più rispettoso di quello che si sarebbe potuto  creare in una chiesa durante un funerale. Piccole mani coprirono una sezione della vasca di vetro, mentre un paio di occhi neri come l’universo scrutarono a fondo il pubblico di cuccioli umani.

C’era un vecchio con un cappello di paglia, seduto al bar, che registrò la scena. Il signore aveva una cinquantina di anni ed era ormai deciso a trasferirsi in Florida e insegnare all’università del posto. Beveva un cocktail analcolico al succo d’ananas e Mate. Il gruppetto ordinato di bambini (c’era anche qualche quindicenne tra di loro) stava facendo ritorno verso la reception dell’Hotel. Questo non avrebbe colpito l’attenzione del vecchio distratto biologo, se non per il fatto che era il gruppo più educato e silenzioso di minorenni che avesse mai visto. Avevano tutti un’espressione molto serena. Un bambino sui 10 anni li seguiva a passo strascicato, le bermuda con una chiazza più scura all’altezza del cavallo. Se l’è fatta addosso, penso il biologo Jonathan. Ma non dalla paura. Il bambino si fermò a bordo piscina, mentre il gruppetto proseguì verso l’androne dove si trovava Jonathan, sorpassandolo. Il vecchio si lisciò la barba e finì il suo cocktail, alzandosi in tutti i suoi 198 centimetri. Lo chiamarono “il gigante buono dell’uni” fino ad una ventina d’anni fa. Era ancora in forma nonostante l’età, giocava a Football con i suoi vecchi compagni di facoltà e frequentava corsi di tango con sua moglie. L’espressione del bambino aveva aperto una breccia enorme all’altezza della bocca dello stomaco, e non era fame. Ricordi d’infanzia si fecero per un attimo sentire, come a ricordargli quanto a volte sia difficile essere un bambino. “Sii prudente” si disse. In fondo gli “angeli del ghiaccio” sono esseri misteriosi. Gli venne in mente quando vide per la prima volta un esemplare, il cucciolo di una coppia trovato in un punto all’equatore della luna Europa. La famiglia era arrivata con la quinta missione su quell’immenso iceberg galleggiante nel vuoto dell’orbita di Giove. Lo stupore fu enorme, l’attenzione della Terra fu tutta rivolta all’extra-terrestre. Si diceva che l’essere poteva dimorare in vasche apposite in acqua dolce, nutrendosi di catene di minerali e proteine, lontano dai raggi solari. Dopo neanche 5 anni il rispettoso timore nei confronti dell’essere si trasformò in totale affetto, complice la somiglianza dell’essere con una comune lontra, se non fosse per le ali natatorie che partivano dal centro del suo corpo liscio e un muso dotato di occhi grandi, enormi e neri come la notte. La totale assenza di naso e bocca li rendeva inespressivi, se non per la profondità di quegli occhi. La gente ricca cominciò a importare quegli esseri per metterli in comuni acquari, da mostrare agli ospiti delle feste. Così, tra un boccone di datteri rivestiti di pancetta e una manciata di salatini, ti ritrovavi ad osservare la grazia e la voluttuosità dei movimenti degli “angeli del ghiaccio” nel loro elemento, raffreddato a 3 gradi sopra lo zero. Prima di poter mettere le mani sul fondoschiena di una bella e accogliente escort di 25 anni, si capisce.

Jonathan non aveva mai messo le mani sul fondoschiena di una escort venticinquenne (un atto troppo poco accademico, si diceva sempre), ma capì a fondo la questione, quando vide Sam a bordo piscina, lo sguardo assente posato sull’acqua immobile.

Causa assenza di qualsiasi forma di brezza, si percepivano quasi 41 gradi in quell’assolato giorno di ottobre, ma il bambino sembrava non curarsene. Aveva ancora la pelle d’oca. Con studiata lentezza il biologo marino, a cui rimanevano trent’anni d’insegnamento per andare finalmente in pensione (Dio, avrò più di ottant’anni, doveva ogni volta constatare), si avvicinò ad una sdraio e la trascinò fino al bordo piscina, poi spostò anche l’ombrellone insieme alla pesante base in cemento. Infine si sdraiò, con un cigolio preoccupante. “Beh, era quello che ti aspettavi?” chiese Jonathan. Il bambino continuò ad osservare il luccichio dell’acqua della piscina. Zaffate di cloro si univano all’odore di olio di cocco e al tanfo di frittura delle cucine dell’Hotel Palacito. “Si. E no.” Rispose Sam, dopo una lunga pausa. La sua voce sembrava provenire dal fondo di una tomba. “È un bell’esemplare, quello che hanno qui. Ha un paio d’anni ma è già lungo due metri, quasi quanto uno squalo. Con il tempo si è adattato ad una temperatura dell’acqua più mite…ehm…” Jonathan decise di terminare quell’improvvisata lezione di esobiologia e concentrarsi di più sull’espressione lontana del bambino. Dalla tasca delle bermuda fuoriusciva uno strano impasto di mollica smangiucchiata e gelatina giallastra. “Beh, vedi, ci sono tante scuole di pensiero, per così dire. Alcuni studiosi dedicano poca attenzione alle facoltà cognit…ehm…di pensiero di questi animali. Io personalmente appartengo ad una scuola scettica, ma di recente ho dovuto rivedere alcune delle mie ipotesi, mi segui? Come ti chiami tra l’altro, accidenti, mi sono scordato di presentarmi. MI chiamo Jonathan, ma se è troppo lungo John va  anche bene!”. Allungò la mano, Sam gliela strinse automaticamente, poi vennero fuori come imparati a memoria i suoi dati anagrafici, completi di indirizzo e numero di telefono. “Ah-ehm, ok, grazie, mi bastava solo il nome, Sam…” Il biologo ci pensò un attimo, poi decise di alzarsi e andare a prendere un succo di mela per il ragazzino. Non ne poteva più di quel caldo. Per lui ordinò una birretta gelata. Il bambino, Sam, sembrava essere scivolato in una fase catatonica. Si chiese se dovesse chiamare qualcuno, magari i genitori. Decise di aspettare qualche minuto, magari con il succo di mela si sarebbe ripreso. Si diceva che lo zucchero di mela riattivasse velocemente le sinapsi. Sciabattò di nuovo verso il bordo piscina, vide che Sam nel frattempo si era alzato e aveva preso una piccola sedia di plastica e posta accanto alla sedia a sdraio di Jonathan. Bene, pensò lui. Facciamo progressi. Offrì il bicchiere al ragazzino, che sembrava aver riacquistato calore in viso. “Ecco, pensavo che un po’ di succo di mela, con questo caldo…”. Sam lo interruppe, girandosi e cominciando a parlare, prima sommessamente, poi acquistando via via vigore. Jonathan lo ascoltò inizialmente con diplomatica attenzione, poi in lui si accese un vivace interesse, che diventò, con il passare dei minuti in quell’afoso pomeriggio, stupore accademico. Curiosamente, non si accorse che i genitori di Sam si erano uniti all’ascolto, sedendosi a poca distanza, le facce sconvolte a causa del sesso pomeridiano senza aria condizionata.

2051 – 31 anni dopo

Dopo aver sfruttato la fionda gravitazionale di Giove, la navicella Fortune si mise in rotta verso la zona interna del sistema solare. Il carico di diverse tonnellate (peso terrestre) di materiale prelevato dalla luna Europa (perlopiù silicati in diverse forme) fu stivato in una navicella a parte, collegata alla Fortune con cavi sottili di materiale flessibile. L’elemento propulsore della Fortune lavorava a regime, un semplice reattore ad idrogeno. Per quei viaggi all’interno del sistema solare bastava qualcosa di stabile e facilmente recuperabile nello spazio. Ogni tanto, quando la rotta lo permetteva, attivavano un acceleratore di particelle. Il comandante della missione chiamava i flussi di particelle “peti spaziali”, suscitando ogni volta risatine di etichetta. Dando per assodato che il meccanismo che li produceva permetteva alla navicella una velocità di 370 km/sec nel vuoto. Non male per una scoreggia. Ad una simile velocità si poteva coprire la distanza Terra Sole in soli 112 ore, Terra Giove in circa 23 giorni. Ma c’erano zone del sistema solare in cui tale energia era sprecata e parecchie volte poteva risultare pericolosa, a causa di collisioni con corpi vaganti.

La Fortune era divisa per equipaggio: una parte era militare, l’altra (più consistente), era composta da ricercatori, per lo più esobiologi. Un matematico era sempre nei dintorni, anche se passava il tempo a rimorchiare le ricercatrici più carine. La cosa più divertente che accadde ad un equipaggio fu che, per una volta, imbarcarono dalla Terra una matematica. La quale passò il tempo a rimorchiare le ricercatrici carine, ottenendo più successo. Solitamente gli esobiologi, per natura, amavano tessere trame amorose con i loro oggetti di ricerca. Gli angeli del ghiaccio occupavano gran parte del loro lavoro. La sospensione delle importazioni da parte dell’ONU Spaziale era stato provocato da intense proteste di attivisti eso-ambientali e ricercatori, nonché persone di spicco nel mondo della moda e della politica (molti di questi in passato erano stati a loro volta intensi collezionisti di specie extraterrestri).

Oltre ad esobiologi rinomati, lavoravano nella stazione di Europa molti geologi ed esperti di maree gravitazionali. Il loro compito era di osservare e prevedere le famose maree di ghiaccio, acqua e detriti che sconvolgevano la cintura “equatoriale” di Europa. Giove era visibile sono da un lato della luna ricoperta di ghiaccio, ma la sua influenza sul satellite era prorompente. Per non parlare delle radiazioni. Per fare ricerca su Europa si indossavano tute speciali e ogni capsula, come la stazione stessa, era schermata.

La stazione, chiamata anche “La Bolla”, era incastonata nelle profondità dello strato di ghiaccio che ricopriva una zona poco al di sopra del cosiddetto “equatore gioviano Nord”. La coltre di ghiaccio e silicati era spessa in quella zona qualche centinaio di metri. Stabile abbastanza da permettere la ricerca dell’oceano sottostante. Se qualcuno doveva avere un carico di responsabilità enorme, quella l’avevano i geologi e gli ingegneri gravitazionali della Bolla. Prevedere con esattezza la prossima ondata di marea provocata dal gigante gassoso era di vitale importanza per i ricercatori. La Bolla andava evacuata in caso d’instabilità. Costruita nel 2045 dai robot dell’Alleanza Atlantico-Pacifica, spediti con un solo cargo nel lontano 2032 dalla base di Città del Capo, la Bolla aveva fin li fatto fronte a maree imponenti, ma venivano imposte esercitazioni di evacuazione fino alla nausea. Scialuppe di salvataggio erano posizionate ai quattro angoli della Bolla. Le chiamavano “bare di ghiaccio”. Per tenerle libere dal ghiaccio erano in funzione 24 ore su 24 (si fa per dire) dei grossi Phon a fusione. Battute a sfondo sessista sull’uso dei Phon non si erano purtroppo estinte. La breve corsa fino alla stazione orbitante era allietata da musica classica, cosicché i ricercatori speravano con tutte le loro forze di dover fare a meno di una evacuazione vera e propria durante il loro soggiorno di sei mesi terrestri nella Bolla. Piccole maree erano sostenibili. Maree forza 7 o 10 della Scala Galileo-Frending erano al contrario piuttosto pericolose.

I ricercatori parlavano raramente di politica. Fortunatamente gli statunitensi erano impiegqati in altri settori del Sistema Solare. Quei talentuosi rompiballe guidavano le basi marziane con rigore da marines. Purtroppo quella vena attaccabrighe non l’avevano persa. Nella Bolla ricercavano invece molti kenyoti e indiani, i primi riconoscibili dalle loro divise sberluccicanti, i secondi per l’alone di aglio che li circondava. Quasi tutti i russi erano matematici e ingegneri. Ogni tanto qualche europeo portava un po’ di frivolezza nella Bolla, altrimenti si aveva a che fare con veri e propri colossi accademici: intelligenti, freddi e odiosamente politically-correct.

Qualcuno diceva che, a causa della schermatura anti-radiazione della Bolla, il livello di testosterone si abbassava di molto, sia negli uomini che nelle donne. Il flirt era rigorosamente evitato (non vietato) durante la ricerca. E poi, dopo il turno, c’era il pacchetto Fitness-Entertainment che ti aspettava in camera: una serie di esercizi fisici su svariati macchinari diabolici e un programma vario di film, colonne sonore e deliziosi soft-porns per ambo i sessi, per chi voleva. Ovviamente grazie all’innesto acustico-corneale che ognuno possedeva fin dal 18° anno di età. Volendo, c’era la possibilità di farsi iniettare del testosterone ramificato (insieme alla dose giornaliera di vitamina D), ma molti preferivano del sano Fitness.

E poi c’era il lungo viaggio di andata. E ritorno. In quel paio di mesi (che talvolta diventavano tre o quattro) l’equipaggio era tentato di riprendere i contatti con la Terra per comunicarne l’imminente ritorno, ma la lentezza delle comunicazioni era qualcosa di snervante. E le partite di scacchi tra i russi si trasformavano spesso in liti galattiche. Così si passavano giorni e settimane a catalogare foto o a guardare vecchi episodi di Friends. Relazioni amorose erano quasi inesistenti, più che altro ci si entusiasmava poco a causa della poca varietà all’interno dell’equipaggio e, statisticamente, del tasso di promiscuità piuttosto scadente (a parte per la fortunata matematica bisessuale del 2049).

Sam apparteneva alla cricca degli esobiologi. Tra i giganti gassosi e i pianeti rocciosi esisteva una larga zona buia e disabitata, un braccio di spazio desolato. Sdraiato sulla sua cuccetta, Sam si pettinava la barba con fare assente, perso nelle sue riflessioni. Quei sei mesi passati nella Bolla avevano rinforzato il suo amore per le creature degli abissi. Un rispetto sconfinato per gli angeli del ghiaccio, esseri risultati da milioni di anni di evoluzione nelle fredde acque oceaniche di Europa. Gli altri esobiologi avevano elaborato i dati in maniera asettica, Sam al contrario era completamente affascinato da quelle lontre senza naso e bocca. Quegli occhi neri e profondi irradiavano uno spettrale calore (letteralmente). Un ultravioletto che scaldava l’acqua nelle vicinanze e permetteva una migliore assimilazione delle catene di minerali e proteine. Il silicato presente nell’acqua salina funzionava da elemento refrattario. Così permetteva a quegli esseri di crescere fino a tre metri di lunghezza, persino nelle profondità abissali e con pressioni fino a 4,5 Bar. Ma non erano i nudi aspetti biologici ad impressionare gli studiosi della Bolla. Erano gli effetti sulla psiche degli osservatori, alcuni dei quali reagivano con un picco di empatia nei confronti degli esseri di gran lunga superiore a quella di un normale ricercatore di delfini, ad esempio. Che si limitavano a dire “che carini, e che bella società matriarcale”. Sam era uno di quelli che provavano un distinto senso di unione con gli angeli del ghiaccio. Non si limitava ad osservarne il comportamento, capiva il motivo del loro comportamento. Quello che più lo affliggeva, era la stravagante sensazione che loro gli stavano nascondendo qualcosa. La cosa più divertente era che volevano che Sam capisse che gli stavano nascondendo qualcosa. Sam provò a chiedere delucidazioni ad una ragazza del gruppo di ingegneri, sperando che come donna sapesse dirgli di più rispetto a questo grado di manipolazione, ma parve non ne sapesse molto ( o forse voleva dargli l’impressione di non saperne molto). Rimase un mistero.

Sam si era già prenotato per il viaggio di ritorno su Europa che sarebbe partito nell’agosto del 2053 da Nuova Delhi. Qualcuno, il suo urologo, lo sconsigliò, definendo rischioso un altro periodo passato nella Bolla schermata. Sam, dal canto suo, decise di poter correre il rischio. “Il cancro alla prostata si cura come un raffreddore, oggi giorno.”. L’urologo non poté fare a meno che sospirare.

Il rientro su Terra fu come ogni volta traballante e avventuroso. Il sistema d’allarme partì due volte, fu disattivato ogni volta, ma il computer di bordo segnalava comunque una perdita di pressione dalle cuccette di poppa, occupate per lo più dai russi. Si dovette constatare che non fu un falso allarme, i russi furono costretti a tappare le falle con dello stucco speciale. Uno dei russi prese a male parole il comandante, che fu definito “simpatizzante occidentale”, per cui il tutto rovinò un po’ il buon umore da rientro. Il carico fu abbandonato su una delle stazioni cinesi orbitanti attorno alla Terra, che avrebbero trasformato il silicio di Europa in una lega molto resistente, grazie al processo a gravità zero. Ci lavoravano dei giapponesi con la paga sindacale.

L’equipaggio fu accolto dalla solita fanfara con le trombe e i tamburi, poi fu scortato da robot militari all’interno dell’edificio di quarantena. Dopo una settimana sarebbero stati rilasciati. Sam prese l’aereo per Ginevra e raggiunse i suoi genitori per il pranzo dominicale.

Una notte si svegliò madido di sudore. Il suo impianto corneale visualizzò automaticamente l’orario. Le 6:15 del mattino. Alcuni impianti potevano riprodurre le immagini del sogno più recente, basandosi sulle informazioni del cervello, ma i suoi genitori avevano potuto pagargli solo la versione base. Si ricordava comunque molto bene il suo sogno. Aveva incontrato un angelo del ghiaccio in una delle sue esplorazioni abissali. All’interno dell’oblò si affacciò un esemplare bellissimo, sinuoso nei movimenti e dallo sguardo ammaliante, attirato dalle luci di posizioni del mezzo subacqueo. Dalla sua cabina di pilotaggio Sam prese nota delle pinne natatorie laterali, fulgide e leggiadre. Il corpo era lungo più di due metri, gli occhi neri e scrutatori. Sam fu improvvisamente vittima di un attacco violento di malinconica tristezza, il suo cuore si ruppe e pianse sangue. Si portò una mano sul viso e sentì un liquido caldo e vischioso fuoriuscire dalle narici. Un’emorragia. Si perse lentamente nel nero degli occhi della creatura davanti a sé, catturato mentalmente da quel senso di rassegnata angoscia. Provò un immenso amore per quella creatura, paralizzante. Sul punto di piangere di dolore, Sam avvicinò una mano per posarla sul vetro dell’oblò, la creatura segnalò ancora una volta, fece per avvicinarsi, per poi fare velocemente dietrofront e scomparire nell’oscurità. Sam pianse a dirotto, come un bambino che vede i suoi genitori sparire all’improvviso in un parco di divertimento. Preso dal panico, fu lì che emerse dall’abisso e balzò a sedere sul letto, la luce sul comò ancora accesa. Spense la lampada e scostò la coperta, posando i piedi sulla moquette della camera degli ospiti dell’appartamento dei suoi vecchi. Si avvicinò alla finestra e modulò l’opacità del vetro per poter guardare fuori. Il cielo era parzialmente sereno. I suoi vecchi abitavano in un vecchio borgo di montagna, per cui l’aria era pulita e poco colpita dall’inquinamento luminoso. Individuò Giove poco sopra l’orizzonte, visibile insieme a Marte e Venere. In quel momento si ricordò di quel giorno in cui, sul bordo di una piscina a pochi passi dal mare dei Caraibi, incontrò quel vecchio biologo marino di nome Jonathan. Si ricordò l’espressione dei suoi genitori, il loro aspetto travagliato (a quell’epoca erano degli amanti attivi e rumorosi), e soprattutto lo sguardo indecifrabile del vecchio. Jonathan avrebbe di li a poco gettato la sua carriera di docente universitario per imbarcarsi su una delle prime navicelle in rotta verso Europa, tornando più vecchio e magro di prima. Qualche mese prima di tirare le cuoia a causa di un raffreddore malcurato, Sam gli fece visita. Era al suo secondo anno di esobiologia all’Università di Stoccarda. In quegli anni aveva ancora interesse per l’altro sesso. Si era portata dietro la sua fidanzata d’allora, Jennifer, un’ingegnera che amava il gelato alla pesca spalmato su alcune parti del corpo depilate. Jonathan gli raccontò degli incontri con gli angeli del ghiaccio, delle sue missive di protesta spedite all’ONU spaziale che in quell’epoca non prese pubblicamente posizione contro l’importazione delle creature da Europa. Qualche capo di stato cominciò a muoversi in quella direzione, ma la gran parte dell’opinione pubblica non era ancora mossa da impeti antispecisti. Avere un angelo del ghiaccio in casa propria, dentro una vasca pressurizzata, attirava tanta giovane gnocca. Il presidente degli Stati Uniti aveva una stanza “speciale” con pareti costituite da vasche contenenti varie specie provenienti dagli abissi di Europa: alghe, stalagmiti viventi e ovviamente angeli del ghiaccio. Si scoprì che la costruzione della stanza fu sovvenzionata dal governo cinese. Si pensava, negli ambienti più estremi, che gli occhi neri delle creature suscitassero fantasie voyeur negli umani più sconsiderati. In realtà, gli esperti consideravano queste fantasie per lo più infondate. Gli angeli del ghiaccio, affermarono, troverebbero il nostro accoppiamento perlopiù insensato e poco interessante, stando ai risultati di alcune ricerche. Contrariamente alle stalagmiti, che reagivano divertite, producendo bolle di anidride solforosa.

Ciò rinforzò in Sam la volontà di proseguire i suoi studi e di dedicare la sua vita alle creature di Europa. Sentiva di aver stabilito una connessione importante con gli esseri, ma non capiva in realtà dove lo stesse portando. Immaginava che fosse d’importanza planetaria, ma non poteva immaginarne il contenuto. Era a livello puramente emotivo, ma così forte da escludere ogni ragionamento. Sapeva solo che doveva andare avanti per la sua strada. Quando tornò a letto si addormentò nel giro di pochi minuti, saltando la colazione che i suoi avevano preparato con tanto amore.

Europa è in rotazione sincrona con Giove, per cui dalla Base del governo Europeo (Europeo della Terra eh!), posto ai confini ovest del lato non esposto alle maree provocate del pianeta gassoso, si vedeva una buona parte del cosmo dalle vetrate spesse 23 centimetri. L’amalgama del vetro non permetteva alle radiazioni di contaminare gli esseri viventi presenti all’interno, ma un senso d’angoscia veniva quasi sempre a tutti, di fronte alla freddezza di quello spettacolo celeste. Il tempo si misurava semplicemente su quello terrestre. La gente della Base aveva i suoi ritmi sonno-veglia basato su quella misurazione. La puntualità di certe abitudini corporali di alcuni non era stata intaccata.

La Base era distribuita su diversi piani, la maggior parte dei quali era sotto il livello del ghiaccio. Il ghiaccio in certe latitudini raggiungeva il chilometro di spessore, ma il luogo scelto per la costruzione della Base aveva uno strato di ghiaccio piuttosto sottile e morbido da scavare. Il calore generato dalle maree gioviane, per effetto della termoconvenzione, avevano creato delle regioni costituite da diverse stratificazioni ghiaccio-acqua.

Il livello più basso della Base era costituito da un laboratorio e da un osservatorio marino, il quale aveva diretto accesso all’oceano sottostante, di un nero quasi impenetrabile. Subito sotto la crosta ghiacciata crescevano delle minuscole alghe gialle che formavano quasi una corona attorno all’osservatorio.

In certi punti di Europa queste alghe riescono a formare delle colonie molto numerose. Queste alghe sintetizzano il perossido d’idrogeno contenuto nel ghiaccio semisciolto trasformandolo in molecole di zucchero. Morendo, queste alghe si staccano dal ghiaccio e scendono mooolto lentamente (per effetto della leggera forza di gravità di Europa) verso il fondo dell’oceano. Questo materiale organico è alla base della sopravvivenza degli organismi viventi che popolano gli abissi di Europa. Il fatto che l’ingestione di questo materiale morto provochi emissione di gas metano in quasi tutti gli organismi viventi pluricellulari di Europa è un fatto non dettagliatamente eviscerato dalla popolazione scentifica. Ma sono felici di questo mangime gratis, per cui nessuno si è mai lamentato. Se un umano avesse avuto l’occasione di assaggiare un cucchiaino di quelle alghe morte, vi avrebbe detto che il sapore ricordava quello di un cavolfiore con una sottile nota di vaniglia. Cosa che qualcuno vi avrebbe potuto confermare, prima che il suo intestino scoppiasse come un petardo. Pet Ronninberg, così si chiamava lo sfortunato ricercatore di orgini scozzesi. Una lapide ricordava le sue gesta a pochi passi dalla Base europea di Europa.

Dall’osservatorio marino poteva partire un veicolo subacqueo, capace di arrivare a profondità interessanti senza danneggiarsi per le gigantesche pressioni abissali. Uno dei pochi ad aver il brevetto di pilota di quei mezzi era Sam, e si faceva accompagnare spesso da una polacca venticinquenne. Questa polacca venticinquenne aveva qualche anno fa inventato un metodo per annullare selettivamente i valori spettrali degli scocciatori professionisti alle feste. Invitata spesso alle feste di produttori Hollywoodiani grazie alle sue doti fisiche, aveva negli anni subito parecchie molestie verbali da parte di equivocabili “registi e appassionati di moda”. Così, oltremodo infastidita da questo ignobile stalking, decise di inventare un pratico rivelatore di scocciatori. Questo si basava sul contenuto di un articolo di Cosmopolitan, “Come riconoscere lo Stalker.”. Quando poi l’impianto corneale riceveva la conferma del rivelatore, attuava un filtraggio della figura stessa. Lo scocciatore veniva istantaneamente cammuffato da ballerina del carnevale di Rio, ad esempio, oppure da orso ubriaco. In questo modo la vittima cominciava a ridere dello Stalker che, sentendosi offeso fino al midollo, si ritirava, rosso in faccia. Questa polacca, diventata oltremodo ricca alla sola età di diciotto anni grazie all’invenzione, pareva mortalmente annoiata dalle ricerche della Base, ma si rifiutava di tornare sulla Terra e dover nuovamente subire lo stalking dei media. Il suo nome era Frida Molawski Caribra, per gli amici Fri. Partecipò ad una puntata del Grande Fratello, prima dell’esilio su Europa.

Quel giorno Fri e Sam calarono il veicolo a duemila metri di profondità. Sam, come al solito taciturno, non aveva la benché minima intenzione di provarci con Fri, anche se quest’ultima, diversamente da quel che pensava Sam, provava un vago risentimento per le poche attenzioni che Sam le rivolgeva. Questo risentimento Fri lo esprimeva con lunghi sospiri bitonali, che lentamente innervosivano Sam.

“Puoi smetterla per favore? Mi da i nervi!”. Fri la smise per un paio di minuti, poi ricominciò, a profondità 1548 slm. A quella profondità l’attenzione di Sam si rivolse completamente al nero abisso circostante, deciso a incontrare un Angelo del Ghiaccio. Diede a Fri l’inutile compito di controllare i misuratori di pressione interna, per potersi concentrare sul compito in santa pace.

Dopo tre lunghi minuti comparve una famigliola di Angeli, due adulti e una coppia di cuccioli. I cuccioli erano talmente belli, paffuttoni e teneri che a Sam venne l’insano impulso di mangiarli. Gli adulti veleggiarono attorno al veicolo e poi lanciarono quello che sembrò un richiamo, e i cuccioli sparirono in uno sfarfallio spettrale. Il richiamo sembrava simile a quello di un delfino, solo più acuto e modulato. Quella che doveva essere la femmina  (stando alla forma delle ali natatorie e dalla vistosa apertura a x sulla pancia) lanciò uno sguardo nell’abitacolo. Sam, che era dentro il veicolo, per un momento strano si sentì proiettato all’esterno del veicolo, e guardò gli umani dentro il DPV di fabbricazione tedesca. Le luci gli/le davano fastidio, ma la curiosità era più forte. Quel maschio con la barba, che era lui, sembrava bloccato, sospeso. Dietro di lui la polacca annoiata annotava i valori dei misuratori di pressione su un tablet. Quando si sollevava sui talloni i glutei guizzavano quasi fuori dalla tuta.

A Sam venne all’improvviso voglia di toccare quei glutei. La femmina era scomparsa. Erano nuovamente immersi in un abisso desolato e freddo. Si alzò e si girò verso Fri, che in quel momento sospirava forte sui manometri. La prese per un braccio, la fece girare e la baciò. Quando sentì arrivare lo schiaffo non si sorprese. Fri ricambiò poi la passione e si buttò nelle sue forti braccia, sospirando di piacere.

 

Il tempo quel giorno era piacevole. Brezza leggera, sole, e una lieve nota marina nell’aria. Avevano pasteggiato in un’osteria a Saluzzo, bevuto grandi quantità di vino e mangiato un buon tiramisù. Braunbaer e la Torpedine andarono a procurarsi le ultime provviste in un bazar in centro, il Capo decise di apportare delle modifiche alla centralina del 4×4, aiutandosi con uno speciale computer portatile.

Asso decise di farsi due passi per la città, diretto verso la collina a ovest. Dopo mezz’oretta si ritrovò in mezzo ad un bosco di querce e i suoi pensieri vorticavano intorno alle sue ultime vicende; il suo esilio in Sudamerica, il ritorno, la riunione con i suoi fedelissimi amici. E prima ancora le sue vicissitudini ad Amburgo, la separazione dalla sua ultima compagna, la solitudine, brevi tratti di felicità e, infine, il sapore della libertà assoluta, quando con i suoi ultimi risparmi decise di prenotare un viaggio per Bogotà. La Zeta Press Group non accettò le sue dimissioni, anzi, gli mise a disposizione un buon avvocato, che lo aiutò nelle pratiche in Sudamerica. Con un tozzo di pane comprò un mulo e una sera di Marzo lasciò la città di Bogotà e prese la via delle montagne, per poi scendere di quota gradualmente, fino a raggiungere le prime strisce di foresta amazzonica. Sulle montagne si cibò di quello che trovava, assunse i funghi magici che crescevano sui prati, alle luci del fuoco di campo vide il suo futuro e sognò il suo passato. La relazione con quella donna lo aveva depauperato di ogni dignità, autostima, coraggio.

Una mattina si svegliò nel suo accampamento completamente rilassato e riposato, la mente fresca, gli occhi finalmente scorgevano la bellezza del mondo, gli arcobaleni del cielo, la rugiada cristallina sulle piante, la purezza dei torrenti. L’ambiente che lo circondava aveva cambiato vestito, o forse lui aveva semplicemente gli occhi di qualcun altro. Decise di seppellire per sempre i fantasmi del suo passato e di resettare la sua conoscenza, reinventandosi. Divenne Lo Straniero. Deh-nna. L’occhio del Fiume. Liberò il mulo e si caricò lo zaino sulla schiena, mise un passo dopo l’altro, in direzione sud. E niente fu come prima.

Asso arrivò in cima alla collina. La piccola cappella di Saluzzo costruita negli anni Settanta sul cocuzzolo del rilievo, a 700 metri d’altezza, la cui porta era chiusa a chiave, era circondata da filari di abeti rossi ben curati. Asso si sedette su una panchina, in pieno sole, per poter ammirare il paesaggio intorno e sottostante. La città sembrava avvolta da una lieve foschia. Probabilmente farà caldo, stasera, pensò Asso. Sapeva a cosa andava incontro. L’aveva visto. Voleva gustarsi il momento, la pace, finché c’era.

Proprio nel momento in cui Mimmo fu lentamente assimilato da Lassie, in un abbraccio parossistico, la Jeep dei quattro varcò il confine tra Piemonte e Liguria, attraverso la statale che strisciava sinuosa come un serpente tra le Alpi Liguri. Erano tutti molto tesi, particolarmente Asso. A parte Braunbaer. “Ho una casetta a Chiavari. Dopo aver svolto il lavoretto possiamo fermarci lì una settimana e fare un po’ di baldoria!” Il Capo ne approfittò per sollevare nuovamente la polemica attorno ai ditalini non mangiati da Asso anni orsono, quando erano giovani. “Li devi ancora pagare, quei ditalini” disse. “Credevo avessimo chiuso da tempo questa storia dei ditalini!” replicò Asso “Mi ero sdebitato con una cassa di pompelmi freschi e una di birra Tennent’s.” La Torpedine accennò un sorriso amaro, “Guarda che la birra ce la siamo dovuta bere tutta noi, e i pompelmi li abbiamo usati per colpirti a morte quando andavi in giro per strada a declamare la tua poesia sul Qual Pesce!”

Qual Pesce

Che la diretta via intraprese

Si erse nella sua ignobile statura

Pronto a colpire

Come un cobra nella notte

Ella morì

Trafitta da Qual Pesce

Tiranno biforcuto

“Quella poesia aveva davvero qualcosa di orribile e grottesco.” Disse quasi fra sé il Braunbaer. “Ma mi aiutò a scoprire il mio potere annichilente, quando cercai di zittirti.”

Asso ne scrisse il testo dopo aver visto il Braunbaer in mutande. Quel giorno l’uomo brunazzeo era eccitato perché presto avrebbero mangiato l’apple pie genovese, la più buona del paese. La Torpedine, che a quei tempi non si chiamava così, ci fece una canzone:

Apple Pie genovese

La più buona del paese

Tutti quanti

I furfanti

Sanno bene

Chi la tiene

Quali donne

“Carcassonne!”

Benestanti

Danno pene.

A quei tempi erano giovani artisti.

Nel frattempo la Zeta Press Group riempì quattro tir di armi e li spedì alla volta di Bruxelles, insieme ad un convoglio di mercenari e cyborg programmati. La guerra ebbe inizio.

All’interno della Villa Smaila fervevano i preparativi per l’attacco alla città sede del Parlamento Europeo. La notte stessa furono messi a punto gli attacchi hacker che avrebbero messo fuori uso la difesa automatizzata del palazzo, precisamente all’ora x, sincronizzandoli con l’intervento delle forze di terra. Una detonazione avrebbe fatto saltare il portone che dava alla sala del Parlamento e i suoi soldati avrebbero occupato la sede. Probabilmente senza resistenza alcuna da parte delle forze dell’ordine. In tutti le stazioni di polizia e nelle auto di pattuglia c’era un calendario di Sabrina Salerno o girava 24 ore su 24 un disco di musica rap. Di fatto, tutti comprati, fedeli alla causa. Smaila sorrise soddisfatto. Ora, finalmente, aveva lo stimolo di defecare. Si chiuse in bagno.

La Cosa che aveva preso le sembianze di Mimmo – chiamiamolo Mimmo per comodità – si trovò in un vicolo cieco all’interno delle fogne di Villa Smaila. Sopra di lui c’erano diverse botole ma nessuna scaletta. Per cui era difficile portarsi all’esterno. Era perso nei suoi calcoli quando sentì una piccola scorreggia provenire da un punto imprecisato al di sopra della sua testa. Una delle botole in alto vibrò leggermente. Solo in quel momento Mimmo notò un leggero rigonfiamento del muro davanti a lui che correva perpendicolare alla pavimentazione fino al soffitto. Un tubo di scarico, od un insieme di tubi di scarico il cui sbocco si trovava al disotto del livello dei liquami, quasi all’altezza dei suoi piedi. Avvertì ora un leggero flusso, un movimento di fluidi, intorno alle sue caviglie. L’essere sorrise. Poteva assumere qualsiasi consistenza, frantumarsi le ossa in piccoli pezzetti e trasformarsi in un ammasso gelatinoso, per poi risalire lungo quel tubo prima che qualcuno tirasse l’acqua. E, se il suo fiuto in quel momento non sbagliava, sentiva odore di ricottella. Il suo sorriso divenne più ampio, mentre un rumore di ossa ridotte in poltiglia riempì l’ambiente cavernoso.

Smaila aveva preso l’abitudine di masturbarsi mentre defecava. Era convinto che gli faceva risparmiare tempo. Nel momento culminante gettò in un angolo la copertina del CD di Sabrina Salerno e Jerry Calà, nel suo volto una espressione di godimento puro. “Aaaaahhh”. Lo stronzo si depositò sulla ceramica. Qualcosa nel volto di Smaila cambiò repentinamente, come quando la Luna oscura il Sole, una specie di eclissi Smailiana. La goduria divenne stupore, poi dolore, poi di nuovo goduria, quindi infine i suoi tratti si modificarono completamente, come se fosse scosso da conati di vomito. Poi, da principio molto lentamente, quindi sempre più in maniera decisa, un sorriso ampio si fece largo sul suo bel viso curato. “Oh!”, disse solo. L’idea di avere tendenze omosessuali non lo sfiorò mai e poi mai nei sui settant’anni di vita, fino a quel glorioso momento. Poi l’eclissi lo cancellò completamente.

Il Capo ricevette un solo pensiero. Un impeto di gioia lo sopraffece, proprio nel momento in cui cominciarono la discesa verso la costa ligure. “Abbiamo schiacciato la testa del serpente!” urlò felice. Gli altri chiesero precisazioni. “Smaila è stato posseduto da Lassie, il mio fido compare. Ora non può più nuocere!”. “Davvero?” esclamarono gli altri. Il Braunbaer, alla guida della Jeep, batté un pugno sul cruscotto, mandandolo in frantumi. BASTARDO ROTTO IN CULO, CREPA!

“No, non è morto. Ma ora risponde ai nostri comandi o, per essere più precisi, ai miei.”. Asso parve riflettere un attimo. La Torpedine colse l’espressione del suo compagno di avventure ma non disse niente. Strane cose cominciò a vedere, con l’occhio della Torpedine. La sua capacità di cavalcare le onde dello spazio-tempo gli offriva la possibilità di scrutare, se non quasi prevedere, alcuni scorci di futuro. Un giorno avrebbe dovuto liberarsi completamente del demone, consapevole poi di diventare un essere umano normale, come gli altri. Quasi invidiò i suoi amici, la loro normalità. Certo, avevano caratteristiche singolari, ma dovute al loro ingegno e il loro stile di vita. Il Braunbaer, che in quel preciso istante annichiliva l’autista di una BMW che non lo faceva passare con frasi ingiuriose, aveva il suo perché. Uomo di stazza enorme, potente e forte come un grizzly, grazie a Dio non proprio peloso come l’animale ma quasi, era il braccio muscoloso del gruppo. Asso, abile pilota e osservatore, aveva i migliori contatti con l’agenzia, una fabbrica di idee, rappresentava la Wild Card del gruppo; la sua imprevedibilità non permetteva all’avversario di imporsi. Tenace ma anche flessibile. Il Capo, con decenni di pratica alle spalle, aveva perfezionato il suo organo nell’assimilazione di ogni elemento, un fegato capace di prendere vita e diventare organismo a sé, una potenza confinata dentro una cornice che aveva la sua sede nell’appartamento abitato da lui e dal suo fido compagno, Lassie. L’essere era una gelatinosa appendice di quel gagliardo, flatulente demone buono che abitava la tela del Capo, un quadro magico che lo preservava dal degrado. Buono solo con gli amici, s’intende. Ma pur sempre pericoloso.

E lui? Chi rappresentava? Quali caratteristiche aveva, se non quelle dell’ambizioso borghese integrato nella buona società, fedele ai valori e seguace del pensiero scientifico e spirituale di Pierangela? Tempo fa questi gli rivelò che un giorno avrebbe preso in mano le redini della civiltà umana e condotto l’umanità, con l’aiuto dei suoi amici, verso un nuovo Illuminismo, un Rinascimento all’avanguardia della tecnologia odierna, capace di restituire l’armonia e l’equilibrio tra la razza umana e la natura. Con il suo progetto nel settore della robotica stava effettuando un passo verso la liberazione dal giogo del lavoro fisico, di pari passo ad una rivoluzione sociale-politica che iniziava nelle scuole e nelle università di tutto il mondo, un modello, un manifesto scientifico rivolto alla risoluzione apartitica dei problemi del mondo. Qualcuno gli stava mettendo i bastoni fra le ruote. Che ruolo aveva la Torpedine? Avrebbe giocato a loro favore nel momento culminante? Era diventato un demone buono? “Non sempre il male giunge per nuocere” gli disse a Saluzzo Asso “Nel gioco della dama bisogna a volte sacrificare una o più pedine per vincere la partita.” Cosa aveva voluto dire? E come poteva affrontare Sabrina Salerno, o meglio il suo artefatto, se non sapeva dove si trovava? Un giorno, pensò preoccupato, queste domande troveranno risposte.

Smaila uscì dal bagno con una espressione serafica dipinta sul volto. Intorno a lui ferveva l’attività più frenetica, i suoi uomini si preparavano all’attacco. Le mura esterne furono armate con artiglieria pesante. L’uomo, vestito solo di calzini di seta nera, si recò verso il deposito delle armi nel seminterrato. Il fido Cavaliere Nero osservò la cadenza dei passi del suo padrone. Riconobbe un cambiamento nella sua camminata. Preoccupato, lo seguì ad una certa distanza. La sua coda scodinzolò nervosa.

La Jeep si portò sul fianco della collina sulla cui cima vegliava Villa Smaila. Era una deliziosa mattinata, ventisette gradi ed una leggera brezza fresca che arrivava dal mare. Ciononostante, i quattro amici sudavano copiosamente. “Siamo in quattro e la Villa è sorvegliata da un esercito di duecento unità armate fino ai denti” disse Braunbaer. È vero, pensò la Torpedine, ma Davide sconfisse Golia. Il loro cavallo di Troia, secondo le informazioni che trasmetteva secondo per secondo al Capo, stava per attuare la parte più importante del piano. Questo avrebbe portato Lassie a sacrificare la propria vita, ma era il prezzo che il Capo era pronto a pagare pur di fare breccia nel castello. “Mi fa male il fegato…” fece il Capo. Si stappò una bottiglia di birra. “Ahhh, molto meglio” ruttò felice. L’attesa era snervante. Asso si sistemò sul pianale e caricò la mitragliatrice.

Il Cavaliere Nero cambiò sembianze, grazie ad un algoritmo speciale che si attivava in condizioni ambientali particolari, come quando un elemento metteva a rischio la Missione. Il programma aveva calcolato un 92,7% di probabilità che questo elemento estraneo avrebbe generato una reazione a sequenza che significava la fine di tutti loro. Purtroppo per lui questa abilità era classificabile come ansia generalizzata e un certo grado di depressione. Guardandosi allo specchio sorrise compiaciuto: aveva il corpo attraente di una quarantenne dal sorriso ammaliante. Sabrina Salerno.

La Torpedine capì che era venuto il momento di agire da solo, con i suoi poteri. Non capiva come, ma ne era sicuro. Si immerse ancora una volta nell’altra dimensione spaziotemporale e parte di lui si mosse verso Villa Smaila, allungandosi come una stringa cosmica. Si materializzò nel deposito delle armi. Subito riconobbe il suo nemico, il cyborg dalle sembianze di Sabrina. Questi avvertì un cambiamento nell’aria e si voltò, ghignando di feroce ira. “Fai quello che devi fare, Lassie. Io mi occupo di lei, ora.”, fece la Torpedine. Seduto esanime sulla Jeep, il capo reclinato da una parte, Fede lottò per non cadere nel Nulla. “Ora! All’attacco!” gridò il Capo. Il Braunbaer innestò la prima e fece arrampicare il mezzo sulla collina terrazzata, diretto verso il cancello principale di Villa Smaila. Il crepitio dell’artiglieria fu avvertito persino dai bagnanti sulla costa, che si dispersero per le strade in cerca di protezione. Come sincronizzati da un immenso orologio, le truppe di Smaila fecero la loro apparizione sul terrapieno delle mura esterne, aumentando il fuoco di difesa. Quando la Jeep sfondò il cancello partirono le prime raffiche. Non poterono vedere Smaila correre attraverso il cortile con ordigno a fusione nucleare tra le braccia, diretto verso le mura. La Jeep svoltò bruscamente a destra e si barricò dietro un edificio di forma cubica. Poi la luce inghiottì tutto, seguita da un enorme boato.

Le fondamenta tremarono, calcinacci e pezzi di cemento armato grossi come termosifoni caddero tutt’attorno ai due esseri, che si fronteggiarono per l’ultima battaglia tra Bene e Male. Il cyborg emanò un fascio di particelle dalle tette che quasi colpirono la Torpedine, abile nel scansare l’attacco. Doveva concentrare tutte le sue energie per creare l’antimateria intorno a lui, ma non bastavano. Un elemento mancava, quell’elemento che aveva garantito il successo l’ultima volta su quel Doblò, in Francia. Frustrato, l’essere non poteva far altro che distrarre il cyborg dai suoi propositi, il tempo sufficiente che serviva alle truppe dell’Agenzia e ai suoi amici per sferrare l’attacco in sincrono all’esercito di Smaila. Non gli restava altro che rimanere il più possibile vivo. Il gioco astuto tra la Pedina e la Dama.

Un vento incandescente si abbatté sull’edificio dietro il quale la Jeep si riparava. Quel blocco di cemento armato al piombo crollò come un castello di carte. Il Braunbaer accelerò ed evitò che una parete crollasse su di loro. Asso si voltò e vide il suo amico svenuto. Ancora una volta gli ritornarono in mente i pezzi della sua visione. Devo andare, ora, pensò. Disse al Capo di prendere il suo posto sul pianale e di coprirlo con la mitragliatrice, mentre si sarebbe fatto largo tra le macerie, diretto verso il bunker delle armi. “Perché?” urlò Kasta, il Capo, reso sordo come tutti dall’esplosione nucleare. Asso non rispose. Afferrò un fucile M16 e un secondo caricatore, si mise in spalla lo zaino con le bombe a mano e uscì allo scoperto. “Cazzo! Dani, metti la retromarcia e seguilo!”. Il Braunbaer innestò la marcia e seguì a velocità sostenuta l’avanzata solitaria di Cla, l’Asso del gruppo, che saltellò sicuro tra un blocco di cemento e l’altro. Le truppe a difesa delle mura si erano vaporizzate. Quasi non incontrò resistenza, se non quella dal suo istinto di sopravvivenza, che gli diceva di tornare indietro.

L’esplosione aveva formato un enorme cratere al centro del cortile. Cla si sdraiò sul suo suolo vetrificato, reso viscido dalla rottura di un canale fognario, e scivolò verso il centro. Dall’altra parte dovette aiutarsi con una picozza da alpinista leggera. Finalmente arrivò dall’altra parte, ed individuò subito l’ingresso del bunker, la porta armata divelta dall’esplosione. Come animato dal fuoco della vittoria, varcò la soglia con lunghe falcate, imbracciando l’M16. La Jeep dovette fermarsi a pochi metri dal cratere. Kasta e Dani scesero dal mezzo, finalmente a conoscenza del progetto del loro amico. Le pupille di Fede si mossero frenetiche dietro le palpebre. Intravedeva uno spiraglio di vittoria.

La Torpedine era ferita. Un fascio di particelle l’aveva colto mentre cercava riparo dietro un glomerulo di materia densa. Sabrina Salerno sorrise smagliante. Ora la percentuale di vittoria saliva al 45%. “Abbraccia la Fine! Lasciati colpire, lasciati annichilire!”. La Torpedine s’insinuò affannata in un’increspatura spazio-temporale, saltando in un futuro non meno roseo. Per due secondi la Torpedine non era visibile, poi ricomparve in un altro punto. Sabrina Salerno si girò tempestivamente e caricò un altro fascio di particelle, quando alle sue spalle risuonò il crepitare di un’arma automatica. Un proiettile gli staccò quasi un braccio dalla spalla. Si voltò verso quella nuova minaccia. Il raggio di particelle colpì il centro di quell’organismo, trafiggendolo da parte a parte. Asso si piegò sulle ginocchia, colpito ad un polmone. Sul suo viso un’espressione serena. Il futuro era presente.

La Torpedine cambiò colore. Un sentimento antico come il Sole gli dette nuova energia. I suoi occhi diventarono due supernove, l’aria intorno a lui si depolarizzò, l’antimateria si fece largo tra le maglie della quarta dimensione e divenne una palla di luce terribile. Poi successe.

>M(log.no exit)

>>atk.V-(q*⅍)

>>> t=log

>>>>mission – deleted.

Fede riprese conoscenza. Il mondo dei suoni era sparito. Mentre scendeva dalla Jeep, posando cautamente un piede dopo l’altro sul suolo devastato, il suo sguardo si posava sul paesaggio apocalittico che lo circondava. Si massaggiò il collo pensosamente. Doveva essere rimasto incosciente per almeno un’ora. Il sole era a picco su di lui, un elicottero sorvolava le macerie senza produrre alcun rumore. Dall’elicottero fu calata una scaletta a fune, un soldato scese la scaletta. Vide la bocca muoversi ma non sentì niente. Il soldato lo prese per un braccio e gli indicò l’elicottero, che non osava atterrare, per timore di un attacco a sorpresa. Lo aiutò a salire la scaletta, poi tornò di sotto, imbracciando un fucile d’assalto. Il personale di bordo gli prestò le prime cure.

Dani e Kasta affiorarono dal bunker. Braunbaer, l’enorme colosso di carne, piangeva a dirotto. Sosteneva il peso di un corpo inerte, Asso. Il Capo lo seguì con uno sguardo vuoto, scioccato. Il soldato cercò di comunicare con loro, tenendoli sotto tiro. “Il nostro amico! È ferito a morte!” urlò Dani. Il soldato fece cenno all’elicottero di avvicinarsi, che finalmente si posò sul suolo cosparso di macerie e corpi disintegrati. Asso fu caricato sull’elicottero, il medico di bordo studiò la sua ferita e lo collegò ad una macchina. L’elicottero virò e si portò a 500 metri di quota, per poi dirigersi verso l’ospedale militare di Genova. Il soldato ricevette l’ordine di rimanere con i due sopravvissuti, per proteggerli da eventuali attacchi. “Cosa è successo qui?”. “Un miracolo” disse Dani.

Accanto al cortile della Villa Smaila in Liguria c’era un bosco di pini marittimi che copriva il fianco della collina. La macchia scendeva fino alla costa come un mantello ed era per la popolazione ligure un intricato rebus della natura, un oscuro labirinto di sentieri non battuti e arbusti di rovo. Certe notti, notti in cui Smaila errava solitario tra i tronchi ricurvi della macchia mediterranea, quelle notti insonni, nervose, agitate, le fronde di questa foresta parevano muoversi in assenza di vento. Da millenni tale bosco era stato bollato dalla popolazione locale come stregato. Quindi non deve stupire se un tale di Ferrara, Mimmo Semeraro, decise di comprare un pezzo di terreno dentro la macchia maledetta e di costruirsi una capanna, approfittando dei prezzi al metro quadrato molto convenienti. La sua tesi era molto semplice: nulla può essere peggio di Ferrara. Dopo cinquant’anni di triste esistenza in pianura, tra zanzare, bar desolati, estati torride e inverni grigi, per sfuggire alla depressione e angoscia crescente decise di emigrare. Dove, non aveva importanza. Importante, via da Ferrara. E dato che non possedeva molto al di fuori dei risparmi di una vita passata dietro il bancone di un bar, l’esperto barista fece una ricerca su internet. Mentre la pagina caricava – a causa della connessione lenta di Ferrara che portava la sua popolazione all’ansia generica, sua madre gli portò una rivista, Donna Moderna. “Mamma, quante volte ti ho detto, questa rivista non fa per me!”. La madre, una donna taciturna e piccolina, gli indicò un  articolo a pagina 34. Il volto accattivante di Umberto Smaila faceva l’occhiolino dal centro pagina, come a voler circuire la mente di una semplice ragazzina di Ferrara. Mimmo ne fu subito stregato. Da piccolo aveva sempre avuto un debole per Smaila. Non provava un’attrazione sessuale nei suoi confronti, benché lo ritenesse davvero interessante come uomo, piuttosto una profonda ammirazione. Un suo amico, Lillo, un pensionato quarantenne indebitato con il Sistema Sanitario Nazionale, gli rivelò che sarebbe presto andato ad un colloquio di lavoro presso l’agenzia di Smaila. “Offrono un posto di lavoro sicuro, ben pagato. E sapessi la figa che c’è lì! Fanno una selezione terribile però.” si affrettò a dire, per smorzare l’entusiasmo. Inoltre sapeva che Mimmo si sarebbe precipitato a presentare domanda e Lillo odiava la concorrenza. Mimmo bruciò d’invidia, ma continuò a lucidare la sua Vespa sotto il sole cocente di Agosto, cercando di nascondere ogni emozione dal suo viso e dalla sua voce, che rimase ferma: “Quando hai il colloquio finale?”. Lillo capì la strategia dell’amico. Gli avrebbe ficcato una pallottola in testa e si sarebbe presentato all’intervista al suo posto. “Mi vengono a prendere loro. La data non me l’hanno detta!”. Mimmo desiderò la morte del suo amico e concentrò tutte le sue energie per mandargli un malocchio, sperando che funzionasse come quella volta alle medie, quando Pippo gli raccontò che aveva palpato selvaggiamente Pina nello spogliatoio della palestra e qualche giorno dopo lui si soffocò con un boccone di polpette al forno. Aveva avuto sempre un debole per Pina, una ragazzina chiatta e tarda. Ma che tette.

Lillo sparì qualche settimana dopo. E non tornò più a Ferrara. Questo accrebbe il desiderio di Mimmo di emigrare. La pagina finalmente caricò ma ormai Mimmo aveva perso ogni interesse alla ricerca. L’articolo parlava di Villa Smaila tra le colline liguri. Colline, pensò Mimmo. Villa. Smaila. Dopo mezz’ora di connessione prenotò un biglietto del treno per Loano. La mamma lo chiamò per la cena. Polpette. Mimmo decise di mangiarsi un vasetto di yoghurt. Così tante delusioni non poté la madre sopportare – il figlio che emigrava, che si mangiava un vasetto di yoghurt al posto delle polpette così amorevolmente preparate in un pomeriggio torrido e afoso. Il forno acceso e 42 gradi all’ombra. La madre quella sera si suicidò in bagno ficcando la testa nel cesso e tirando l’acqua. La lettera d’addio era piena di errori grammaticali e scritta in una ortografia illeggibile. Una zanzara ne approfittò per succhiare del sangue dalla nuca della donna. Morì dopo una ventina di minuti tra atroci tormenti zanzareschi.

Insomma, Mimmo viveva all’ombra della foresta ai piedi di Villa Smaila. Viveva nella trepidante attesa di poter scorgere Dr. Cav. Smaila passeggiare sotto le fronde dei pini marittimi, magari nudo!, pensò ogni giorno. Sapeva che le probabilità di vederlo aumentavano sensibilmente nel lungo periodo se manteneva la posizione nello stesso punto di osservazione. Una volta era stato lupetto nella setta della Gente con il Fazzoletto Colorato Intorno al Collo. Per quello non si spostava dalla sua veranda. I bisogni li espletava subito fuori, dietro un cespuglio di ortiche. Mangiava un impasto di farina di mais e fagioli, beveva birra. La notte dormiva solo un paio d’ore, tra le 3 e le 5. L’amore per Smaila lo divorava.

Quella notte non fu diversa dalle altre, se non per un lampo che scorse a qualche centinaio di metri dalla sua postazione. Decise di alzarsi dalla sua sedia a sdraio sudicia e recarsi verso la fonte di quell’abbaglio. I rovi e le ortiche gli martoriavano le gambe nude. Devo comprarmi un paio di stivali, pensò il barista in pensione. Del fumo si levava dal suolo, dove aveva avuto origine il lampo di luce. Mimmo si guardò intorno, quindi scorse una massa gelatinosa che si muoveva circospetta dietro il tronco di un albero. “Ehi!” esclamò Mimmo pieno di sorpresa. “Io ti conosco.” Mimmo fu felice di rivedere il suo fegato.

Il Braunbär innestò la quinta e premette sull’acceleratore. Il furgone superò i 160 Km/h. Distanziò cosicché il Doblò e l’elicottero. Il Capo e la Torpedine si agitarono sui sedili, poco abituati a fuggire dal nemico. Che la Zeta Press Group avesse mandato una squadra a salvare loro il culo era meritevole, ma non riuscivano a spiegarsi come li avessero trovati. In quel momento l’agente della ZPG fece partire una raffica che squarciò un fianco dell’elicottero. CHE BESTIA CAZZO!, pensò l’uomo di Ratisbona.

La Torpedine ebbe una visione, improvvisa e violenta: si distaccò dal suo corpo e, strisciando tra le maglie spazio-temporali del Mondo, s’incuneò tra le molecole della materia intorno. Percorse lo spazio che lo separava dalla cabina del furgone alla parte posteriore del Doblò come in un mare di ovatta intinta di miele. Un proiettile avvolto dal fuoco si trovava a metà strada tra l’elicottero in picchiata verso l’asfalto e l’agente della Zeta Press Group, che si parava gli occhi con una mano. La Torpedine sentì che il proiettile si stava avvicinando millimetro per millimetro in quella realtà condensata. Il sangue scorreva lentissimamente nelle vene dello Straniero, ritto dietro la mitragliatrice, consapevole della propria fine. Nei suoi occhi la Torpedine lesse fierezza e spirito combattivo, nessuna traccia di rimpianto. La Torpedine rivide il suo amico, dopo anni. Capì che era cambiato, si era indurito nel tempo, aveva nel volto un’espressione che lasciava presagire una lunga lotta contro i fantasmi del passato. Tracce di commozione scossero le fondamenta della sua psiche. Dietro la tuta mimetica e l’imbracatura da soldato lo spirito dell’uomo aveva lunghe e profonde cicatrici, ferite che durante l’esilio erano state curate con la Medicina della Terra, l’acqua dei suoi fiumi e le fibre delle sue piante, la saggezza dei funghi e l’ossigeno delle alture. La Torpedine mosse l’impeto della sua rabbia contro l’inesorabile destino. Un velo di fuoco verde lo avvolse, voltandosi verso il proiettile sparato dal bazooka. I suoi occhi divennero buchi neri, poi supernove, soli di terribile bellezza, la materia intorno a lui collassò, le particelle liberarono l’energia disgregandosi. Milioni di gradi Celsius furono lanciati verso l’ignobile  elicottero e l’avanzata dell’oggetto portatore di morte. Poi la Torpedine scomparve, risucchiata dal Tempo, verso il suo corpo di carne, ossa e sangue.

Asso si portò una mano agli occhi, pronto a morire, un pensiero veloce come la luce lo riportò per un momento ai verdi prati della sua giovinezza, ai boschi, alla collina morenica, ai falò con gli amici, al calore di un corpo femminile, stupendosi di quanto uno potesse rivivere in quel breve momento, tra la vita e l’immediata morte. Si chiese cosa sarebbe successo se fosse rimasto nella foresta amazzonica, nella sua tinozza, perso nelle sue allucinazioni, continuando il suo programma di riabilitazione spirituale. Avrebbe vinto la morte? Avrebbe rivisto i suoi amici? No di certo. Asso si preparò al distacco, a lasciare il suo corpo spappolato, a seguire il percorso tracciato dalla sua preparazione spirituale, trovare la Via e seguirne il Suo sentiero verso le Stelle. Sentì un’ondata di calore. Ci siamo, pensò. Asso si stupì della dilatazione del tempo in quei frangenti. Lottando contro il suo istinto scostò la mano dagli occhi e vide una palla di fuoco allontanarsi dal suo campo visivo, cocente come un minuscolo sole, abbagliante e meraviglioso. D’istinto chiuse gli occhi, le pupille all’improvviso secche, aride. Il violento spostamento d’aria provocò un’onda d’urto che fece sbandare il Doblò. L’autista perse il controllo del veicolo e sbandò verso il guardrail, sfondandolo, finendo in un campo di mais. Asso batté violentemente la testa contro la parete del furgoncino e perse conoscenza.

La Torpedine svenne e si piegò contro la spalla del Capo, che avvertì una vibrazione e un’ondata improvvisa di calore. “Fermati appena puoi. Ho visto qualcosa di strano dallo specchietto.” disse al Braunbär. Questi rallentò bruscamente e si portò sulla corsia di emergenza. I due scesero dal mezzo, inconsapevoli del gesto generoso dell’amico svenuto. Ciò che videro li riempì di meraviglia. Una sfera di fuoco e aria fusa saettò per un momento lungo l’autostrada ad un paio di metri di altezza, poi si allontanò dalla Terra a velocità siderale. L’asfalto si vaporizzò in una nuvola grigia, lasciando una grossa cicatrice per centinaia di metri. Il Doblò giaceva come un insetto morto a zampe all’aria ai margini di un campo di mais, fumante. Dalla cabina di guida provenivano le urla di dolore dell’autista, le sue gambe incastrate tra il piantone dello sterzo e il sedile. I due corsero in quella direzione per prestare un primo soccorso ai due agenti della ZPG. Il Capo tirò a sé la portiera, che si staccò dopo un paio di strattoni violenti e un rutto ben assestato. “AAAhhhggh. Ammazzami, ti prego, ammazzami. Sto morendo di dolore.” urlò l’autista. “Prima un paio di domande.” fece il Capo, imperturbabile. “Chi sei? Come hai fatto a trovarci? Chi è l’agente che sparava col mitragliatore?”. “Le domande sono tre…aghhhh…” rantolò l’uomo. E spirò. “Deve essersi lacerato l’arteria femorale nell’urto e…mmm…dev’essersi cagato sotto dal dolore. Lo senti?”. L’uomo di Ratisbona storse la bocca. CHE PUZZA DI MERDA! Il Capo batté un pugno sul pneumatico, frustrato. Dalla parte posteriore del veicolo ribaltato non proveniva alcun rumore. Probabilmente anche l’altro agente era morto. Si mosse verso l’apertura posteriore e diede un’occhiata. Quel che vide gli tolse la forza dalle gambe. Barcollò. “Grande Giove!”. Il Braunbär si avvicinò. Il Capo era sbiancato. Lo spostò di peso ed entrò nel vano contorto del veicolo. Afferrò la mitragliatrice imbullonata con il suo supporto al pianale del Doblò e la strappò dal basamento, gettandola fuori dall’abitacolo. Poi raccolse il corpo insanguinato dell’amico, con delicatezza, e lo portò fuori alla luce del sole. L’aria odorava di fumo e pannocchie. Lo depositarono sul terreno fangoso, tra le stoppie dei fusti spezzati. CAZZONE STA RESPIRANDO, disse l’uomo enorme. Il Capo riprese colore. Le palpebre di Asso sbatterono quasi impercettibilmente. Era ancora vivo.

Quando lo caricarono sul furgone, insieme alla mitragliatrice e alla cesta delle munizioni, la Torpedine si sentiva come appena risvegliata da un lungo sonno senza sogni. Si passò ancora una volta la mano fra i capelli unti di sudore e desiderò una tazza di caffè fumante e un torcetto al burro piemontese. Accese il suo smartphone. Nessun messaggio. Nessuna e-mail. Non aveva alcun accesso ai dati bancari e al sito della sua organizzazione. Internet funzionava, ma gli era impossibile entrare nella sua attività. Sospettava un attacco hacker, probabilmente attraverso il cellulare stesso. Maledetto Smaila. I suoi amici, rientrando nella cabina di guida, gli riferirono le sconcertanti novità. La Torpedine reagì tiepidamente, ma videro che nei suoi occhi c’era il sollievo e una profonda saggezza.

“Bene, ora cerchiamo un dottore. E quando Asso si rimetterà, avremo il nostro contatto con l’armeria della ZPG”. Il furgone sgommò.

Nella principale sala di Villa Smaila le luci si accesero. Era pomeriggio inoltrato, fuori scoppiò un temporale. L’afa si dissolse con le prime folate di vento, l’aria odorava già di pioggia. Umberto Smaila si carezzò la pappagorgia. Sul grande schermo posizionato sulla parete in salotto passavano le immagini di un’autostrada della Francia meridionale semidistrutta. Il telecronista parlò di una “inspiegabile serie di eventi che aveva portato caos e violenza sullo snodo autostradale Nord.”. Un’Audi crivellata di colpi e una striscia di asfalto letteralmente portata via da una sconosciuta fonte di energia facevano da contorno ad una serie di congetture, teorie e ipotesi che lasciavano intuire ad un regolamento di conti tra organizzazioni mafiose. “Probabilmente un regolamento di conti tra la mafia russa e le ditte che rifecero la pavimentazione stradale nel lontano 1998” fu l’opinione di un esperto di faide mafiose. Smaila strinse più forte la coppa di champagne, fino a infrangerla. Le ferite sulla mano si rimarginarono poco dopo. “I corpi ritrovati nell’Audi sono stati identificati. Le autorità russe negano qualsiasi complicità del loro governo con l’accaduto, riservandosi di mettere a disposizione la documentazione inerente all’ex-soldato e agente del KGB Dimitri Porowski, il quale fu…”. Umberto Smaila spense il televisore a parete. Si alzò. Si diresse in bagno e si preparò una striscia di ricottella essiccata. “Mfffffff…aaahhhhhh”. Corroborato dalla dose giornaliera di ricottella, si prese la libertà di uccidere cosi a caso uno dei suoi servitori, per sfogare la frustrazione. Scelse un tipetto sui trent’anni, un impiegato di Equitalia. Gli strappò la lingua e le orecchie, poi lo condusse nella stalla dei maiali e lo fece divorare vivo. Mentre udiva le urla strazianti dell’impiegatuccio e il grufolare dei suoi animali, ebbe un’erezione. Potere. POTERE. Decise di passare al contrattacco. Il suo fido Cavaliere Nero scodinzolò al suo fianco, leccandogli la mano. “Un giorno non sarai più quadrupede”, gli promise.

Mimmo aveva portato la bestia nella sua capanna. Gli preparò un pasto a base di fagioli e vodka, Lassie scodinzolò e cominciò a lappare la brodaglia riconoscente. L’uomo si gratto lo scroto. Non poteva perdere troppo tempo dietro la bestia, si disse. Aveva robe importanti da fare, pensò nervoso. Continuando a massaggiarsi le palle decise di provare a comunicare con il suo fegato. “Eh, senti, ti sono davvero riconoscente per quello che facesti alla festa del mio ventitreesimo compleanno, davvero. Non so come hai fatto a reggere tutta quella roba, ma se non fosse per te sarei ancora lì in coma alcolico. Davvero, non so come ringraziarti. Ma, ehm, ecco, ho da fare, ho un sacco di cose da fare, sai…”

SI LO SO

“Beh ecco, non per metterti alla porta, sono contento di vederti, ma…”

ANCH’IO, MIMMO

“…ho davvero tanto da fare, per cui, se vorresti scusarmi, devo andare sulla veranda…”. Lassie gli sbarrò il cammino. “Eh, bello, guarda, sono io il cervello, tu sei solo il mio fegato, sai, potrei donarti ad un’altra persona, farti venire la cirrosi epatica, o un bel tumorino di quelli fulminanti, ma, ecco, ho davvero un sacco da fare…”

RIMANI CON ME, UN ALTRO PO’

“Bah, non so proprio come dirtelo, ecco…”. Mimmo cercò di scavalcare la cosa gelatinosa, che arretrò di un paso, come per farlo passare. “Ah ecco, ci siamo capiti, si, ci siamo…”. Lassie allungò una protuberanza e si attaccò alla caviglia di Mimmo. “Ehi ma che cazz…”

SONO CONTENTO DI VEDERTI MIMMO

SKIOKKK   BLUUUUURRRPP    OOOHHRCCC   FLUUUU-P!

“Ce l’hai ancora quel dipinto a casa?” chiese l’uomo di Ratisbona al Capo. Questi si limitò a fare un cenno col capo. “Non sarei qui, non credi?”. La Torpedine si grattò la barba. Fuori pioveva nuovamente. Il passo delle Alpi si avvicinava lentamente. Presto sarebbero arrivati al confine. Avrebbero dovuto passare il controllo con un mitragliatore d’assalto. Il Braunbär aveva le idee chiare su come procedere. Avrebbero dovuto smontare il pezzo e nascondere alcune parti e la scatola delle munizioni. Con un carico di ferraglia inutile avrebbero avuto poco da dire. “E Asso?”, volle sapere il Capo, “Come spiegheremo alla polizia le sue ferite? Saranno sul chi va là dopo quel casino sull’autostrada!”. ME NE OCCUPO IO, STAI SERENO!

Prima del confine si fermarono nei pressi di una clinica veterinaria. Il direttore della struttura era un caro amico della Torpedine. Nonostante l’ora piccola, li fece accomodare in salotto e offrì loro del the e delle cialde croccanti. Jerome visitò accuratamente Asso, fece delle lastre al capo e al torace. “Il vostro amico ha un trauma cranico di livello serio e contusioni su tutto il corpo. In questo momento ha un’emorragia cerebrale estesa sul lobo parietale sinistro che si sta lentamente assorbendo, pare che sia scivolato in una sorta di coma. Generalmente non è un buon segno, nel suo caso vorrei mantenere una prognosi riservata. Purtroppo…” e indicò gli attrezzi che possedeva in sala “non sono attrezzato per una delicata operazione al cervello, ma lo terremo in osservazione.”. Quanto tempo, volle sapere la Torpedine. “Tre, cinque giorni. Va nutrito per flebo e vanno studiati i suoi parametri vitali. Il corpo va mantenuto in vita, l’emorragia va monitorata, bisogna somministrargli medicamenti. Durante questo tempo potrà stare nella sala qui accanto, aiutatemi a organizzare il suo capezzale.”

Durante questo tempo i tre amici smontarono il mitragliatore e nascosero le munizioni in un bosco. Alla fine avrebbero corso meno rischi durante l’espatrio e avrebbero comprato il resto una volta arrivati nell’armeria. Asso si svegliò dal coma la sera del terzo giorno. L’ematoma cerebrale era stato assorbito completamente, ma rimaneva piuttosto debole e confuso. “Te la senti di fare un viaggio?” gli chiese il Capo. Asso si guardò attorno. I suoi amici lo guardarono con un misto di commozione e rispetto. “Che cosa aspettiamo?”

Mentre caricarono la lettiga nel furgone e cominciarono a imbullonarla al basamento, la Torpedine portò Asso nel cortile antistante la clinica, servendosi di una carrozzella. “Abbiamo del tempo, prima ce finiscano il loro lavoro. Facciamoci un giro.” La Torpedine prese un sentiero a fianco della clinica e si lasciarono dietro il cortile. Braunbaer stava usando una saldatrice.

“Volevo ringraziarti per avermi salvato la vita.” fece dopo un momento Asso. La sua voce risuonò forte, senza esitazioni. “Durante il coma ho avuto delle visioni, ho rivisto la scena come al rallentatore, e ho sentito una presenza accanto a me.”. La Torpedine non commentò. “Si vedono raramente cose del genere, F. Poteri simili non appartengono alla razza umana. Se qualcosa della Torpedine è rimasta in te, allora si manifestò in quella enorme energia che liberasti. Motivo per cui ti fai ancora chiamare La Torpedine. Ma mi riesce difficile formare con la bocca questo nome. Perché la Torpedine non è un mio amico. La Torpedine ti possedette, ti fece marcire dentro, ti usò come involucro. Ti usò, amico mio. E una traccia di questo antico essere continua a perdurare in te.”. La Torpedine sospirò. Asso aveva ragione. “E continuerà a possederti finché non elimineremo Smaila. Lui è la chiave di tutto questo. La Torpedine e Smaila sono uniti con un cordone ombelicale alla stessa madre. Questa madre, amico mio, sta contaminando il mondo intero. L’ho visto, nei miei sogni con l’ayahuasca. Per cui un giorno dovrai usare questo potere per distruggere la madre definitivamente. Un giorno in cui ti troverai solo con lei. La conosci. È lei. Sabrina Salerno.”

La Torpedine si bloccò. A sentire il suo nome una serie di ricordi gli affiorarono alla mente. Si conobbero parecchi anni fa, in un locale a Dublino. Da allora perse le sue tracce. Ma il desiderio rimaneva. Non poteva fare a meno di pensar a lei, alle sue forme, al suo seno, al suo sorriso. Asso diceva il vero? Sabrina Salerno era l’Angelo del Male? Una volta arrivato a Lione fu posseduto dalla Torpedine, e fu salvato per un pelo dai suoi amici. Sabrina. Aveva davvero scatenato lei questo inferno?

“Torniamo indietro. Avranno sicuramente finito.”

Arrivati in Italia cambiarono mezzo e comprarono una jeep a quattro posti. Il rivenditore fece loro un buon prezzo, dopo che il buon Braunbaer si chiuse con lui in un ufficio per “trattare”. I sedili erano comodi e l’abitacolo fornito di tutti i confort. Dal vecchio furgone smontarono il pianale che avevano costruito per la mitragliatrice e lo rimontarono sul vano posteriore della jeep. Dopodiché ci stesero sopra un telone. Il Capo ci spruzzò sopra una “Z”. Avevano un mezzo da combattimento.

“Ora dobbiamo recarci a Pieve Ponte Morone, alla sede principale.” li informò Asso. Il Capo si chiese perché a Pieve Ponte Morone. “Credevo ci fosse solo la sede legale e la tipografia. Non credevo avessero un’armeria”. “Sempre stata lì. Nei sotterranei. Hanno addirittura una speciale macchina per fare gli stampi dei proiettili. Stanno cominciando a diventare autonomi. L’idea che mi sono fatto nel tempo è che stiano piano piano creando le condizioni per la creazione futura di un esercito di droni. Se falliremo la missione, beh, daranno il via alla produzione.”

Il Capo chiamò la Torpedine a sé con un cenno. “Asso è cambiato. Non è più lo stesso. Guarda quella grossa cicatrice sulla schiena. È più sicuro, forte, deciso. Mi chiedo cosa abbia fatto tutto questo tempo in Sudamerica. Sei riuscito a parlare con lui?” gli chiese. “La sua permanenza nella foresta amazzonica” disse la Torpedine “non ebbe nulla a che fare con la ZPG. La sua era una missione solitaria, una specie di depurazione spirituale dalle scorie che aveva accumulato in tutti questi anni. Aveva bisogno di trovare il suo Io, di liberare sé stesso dalla gabbia della vita moderna, di rompere il velo della realtà e gettare uno scorcio aldilà delle proprie conoscenze e pregiudizi. L’ultima relazione con una donna lo lasciò vuoto e privo di contatti di lavoro, per cui decise di autoesiliarsi nella foresta, insieme agli indios del posto. Conobbe i segreti delle piante, gli stenti, la fame, la fatica, il veleno dei serpenti. Si lasciò aggredire dagli eventi atmosferici, s’indurì, acquisì nuovo potere. Lo iniziarono alla pratica sciamanica. Divenne un punto di riferimento all’interno della sua tribù, lo chiamarono Lo Straniero, Deh-nna. Rimase per giorni chiuso nella sua tenda, con i suoi bagni di vapore, protetto e distaccato da tutti come un embrione nell’utero della madre. Fino a che una sera gli portarono un messaggio da parte dello stregone del villaggio accanto. Il mattino dopo era già in aeroporto con le sue poche cose, in partenza per Milano Malpensa. Una volta lì raggiunse l’Agenzia e si preparò per salvarci.”. Il Capo si appoggiò le manone ai fianchi. Una settimana dopo dall’incidente Asso era già in piedi che montava un fucile da cecchino, l’unica traccia che ricordava l’evento era un largo ematoma sulla parte destra del cranio, altrimenti sembrava non avesse arrecato alcun danno. “Sembra una macchina da guerra.” esclamò il Capo, con tono di profondo rispetto.

“Colpiremo Smaila su due fianchi: la Villa e il suo esercito. Le nostre potenze convergeranno poi su un unico obiettivo, la Villa. Se tutto si svolge secondo i piani” il Capo fece una pausa significativa “avremo estratto questo cancro una volta per tutte!”

Secondo alcune fonti, l’esercito di Smaila stava da tempo preparando un colpo di Stato, un golpe, in modo da destituire il potere con la violenza. La prima mossa era l’occupazione di Bruxelles. La tipografia del Movimento avrebbe quindi distribuito calendari di Sabrina Salerno a tutta la popolazione, insieme ad una compilation dei suoi lavori e un feat con Jerry Calà. “La vera Sabrina Salerno è morta da anni, fatta sparire. Quella che hai conosciuto a Dublino era quella vera. Ora circola una copia, un manufatto, un clone con intelligenza artificiale collegato alla Rete.” spiegò Asso “Un essere in grado di infettare con un virus l’Internet che conosciamo e diffondere notizie-fake per rimbecillire la gente. Questi vedranno il totalitarismo che Smaila instaurerà in Europa come manna dal cielo e ci sarà assenso totale. I dissidenti verranno chiusi in case di cura e terapizzati. È già cominciata la rivoluzione. Negli Stati Uniti.”

“Trump?”

“No. È solo un fantoccio politico. Si sta eliminando mediaticamente con le proprie mani. Il suo posto verrà insidiato da Jerry Calà.” Specificò il Capo. La Torpedine soffocò una risata. “Che hai da ridere?” chiese stupito Asso. “Mah…Jerry Calà?” fece scettico l’altro. “Si, Jerry Calà, o un clone di Johnny Dorelli, non hanno ancora deciso. Fecero anche il nome di Jerry Scotti. Comunque: o un Johnny o un Jerry. Calà è in cima alle preferenze all’interno del Movimento Rivoluzionario.” La Torpedine pensò, ma quale cazzo di mente malata può concepire robe del genere! “Possiamo contare sull’aiuto di Albertangelo?” chiese Braunbaer. “No” rispose secco Asso “Albertangelo ha lasciato il pianeta anni fa. Suo padre ha fondato una colonia su uno dei satelliti di Giove, trasformando il pianeta gassoso in un sole.” “Merda” fecero gli altri in coro.

“Abbiamo probabilmente qualcuno che ci potrebbe aiutare nella presa della Villa, in Liguria. Il mio fido Lassie ci sta lavorando sopra. Probabilmente ha già compiuto buona parte della sua missione!”

L’essere che aveva le sembianze del cinquantenne barista di Ferrara Mimmo scivolò tra le ombre del bosco e si portò a poche decine di metri dal cancello principale della villa. Quello era il caratteristico specchietto per le allodole: due sole guardie, turni troppo regolari e prevedibili, equipaggiati con poche armi e dai modi di fare da dilettanti. Era una trappola. Se qualcuno avesse voluto irrompere nella villa attraverso quell’entrata male sorvegliata, si sarebbe trovato nel cortile della villa sbagliata. La Vera Villa Smaila era più a monte, nel secondo anello, per così dire. Attraverso quell’apertura si scremavano gli assalitori veri e propri dai cretini. Il grosso delle truppe di guardia circondavano le mura del secondo anello come un sol uomo, ben equipaggiati, addestrati e dediti ciecamente alla causa. Mimmo si guardò intorno, seguì l’odore delle fogne. Da ovest proveniva l’olezzo dei liquami prodotti dal reggimento di Smaila e dei suoi maiali, che si riversavano nel Mar Ligure in grosse quantità. Decise di seguire la traccia. Sorrise. Il cunicolo l’avrebbe portato direttamente nella pancia del gigante. Come un verme solitario strisciò dentro l’apertura del cunicolo e si fece largo nella melma maleodorante. Aveva fame. Ed era completamente nudo.

Fine seconda parte

Se qualcuno l’avesse visto gironzolare a quell’ora, con quel vestito nero, una valigia grigia di plastica ammanettata alla mano sinistra e un viso che lasciava intuire notti insonni e whisky di pessima marca, quel qualcuno avrebbe cambiato lato della strada. Come minimo. E quell’uomo avrebbe notato il movimento, lo scarto, l’espressione di “quel qualcuno”, un misto di ribrezzo e insicurezza. Perché, soffermandosi sul vestito nero, di buona marca e ben tagliato, il signor Qualcuno avrebbe forse dovuto mostrare più rispetto per l’uomo con la valigia con la “zeta” scritta su un lato, pensò disperato quest’ultimo. Perché di sicuro rappresentava un pezzo grosso della società, uno di cui fidarsi e su cui contare in certi momenti. Un leader, forse. Ma lo sguardo qualcunesco non avrebbe potuto fare a meno di soffermarsi sulle chiazze di vomito e sangue che imbrattavano il completo Tommy Hilfinger da milleeduecento euro , scarpe non comprese. E questo, proprio questo, si disse l’uomo con la valigia senza un’ombra di rimpianto, fa di me una persona da evitare assolutamente. Ma, pensò, e non poté fare a meno di celare l’accenno di sorriso che affiorava sul suo volto stanco, proprio questo è quello che voglio. Si lisciò la cravatta con un gesto distratto, croste di vomito volarono intorno alla sua figura nera.

I lampioni si spensero al suo passaggio, per riattivarsi poco dopo. Quel qualcuno avrebbe notato anche questo, a differenza dell’uomo con la valigia. Il Capo.

Quando rientrò nel suo appartamento Lassie gli corse incontro per fargli le feste. Il Capo gli accarezzò quello che identificò essere il cranio dell’animale da compagnia. Sperava con tutte le forze di non aver accarezzato altra appendice corporea. Lassie, per la felicità, rilasciò una chiazza marroncina sulla moquette, spruzzata da un’altra appendice. Il Capo sospirò di sollievo. Lassie non emetteva versi se non un leggero squittio. Quando scorazzava per l’appartamento si poteva sentire solo un orribile sciacquio, come se il suo corpo gelatinoso contenesse un liquido che sciabordava contro le sue membrana.

Una volta era un cane, pensò il Capo malinconico. Ma in questa forma non avrebbe creato problemi con i vicini. Con questo pensiero si aprì una birra aiutandosi con l’apribottiglia a muro e si piazzò sul divano, seguito da Lassie, che trasudava liquami vari per l’emozione. La valigia di plastica grigia – o il suo contenuto – esercitava una forte attrazione su Lassie, che con un’appendice laterale sondò l’apertura. Trasmise al suo padrone un solo cocente comando: APRILA! Il Capo, trasognato, si ficcò una mano in tasca e prese la chiave. STAVO PENSANDO DI DOVERTI MOZZARE LA MANO, emanò Lassie, un pensiero che prese la forma di una nuvoletta marroncina proveniente da una appendice somigliante ad una coda. Puzzava leggermente di escrementi suini. Un pensiero potente e terribile. I lineamenti del Capo si indurirono, come per mostrare disapprovazione. Lassie voleva solo essere gentile. Si scusò e leccò la mano del Capo. Striscia di lumaca e olezzo. Grazie, formulò mentalmente il Capo.

Come in sogno, aprì la valigetta. Un chiarore ultraterreno si diffuse nel piccolo soggiorno. Il Capo  e Lassie si scambiarono qualche impressione telepaticamente, il Mistero si fece largo nelle loro menti spossate. Il chiarore divenne più potente, penetrante, il televisore esplose, le piante d’appartamento crebbero e si rinvigorirono. Un lampo, poi il buio completo. La valigia si chiuse, con un rumore di risucchio. Le manette, fumanti, giacquero immobili sul divano.

Se adesso quel qualcuno si fosse ritrovato lì, in quell’appartamento vuoto e silenzioso, e avesse seguito le tracce viscose di Lassie sul pavimento, si sarebbe trovato davanti ad una porta. Mosso dalla curiosità l’avrebbe aperta e fatto il suo ingresso in una camera ancora più buia, umida e gocciolante, fredda come una grotta. Avrebbe cercato l’interruttore della luce e non avendolo trovato sarebbe avanzato a tentoni, spinto dalla curiosità. Con mani insicure e ora tremanti avrebbe tastato la superficie dell’altra parete, tappezzata con un tessuto simile ad una membrana umana, calda e pulsante. Viva. Avrebbe percorso tutta la lunghezza della parete imbattendosi poi nella cornice di un quadro. Avrebbe sentito la vita scorrergli via dalle vene, come soffiata via da un vento freddo, nell’aria immobile della stanza. Avrebbe sentito attraverso i polpastrelli un tessuto che ricopriva il quadro e avvertito una presenza, subito sotto il velo. E a quel punto un raggio di sole avrebbe trovato un varco attraverso le spesse tende nere che coprivano interamente la finestra, illuminando la sezione di parete a cui era appeso il quadro. A quel punto Qualcuno avrebbe deciso di gettare un’occhiata a ciò che gli sussurrava suadente sotto il velo di esporlo finalmente alla luce, di rivelare il suo Volto. NON ESSERE TIMIDO, gli avrebbe detto, con una parvenza di malizia femminile (posto che quel Qualcuno avesse un debole per il sesso femminile). Il velo sarebbe stato strappato via dalla tela. E…La stanza si sarebbe contratta una volta sola, come un enorme muscolo cardiaco, la porta chiusa, e quel Qualcuno, con un urlo subito soffocato dalla Cosa, sarebbe stato preso e assimilato, con uno schiocco di bacio umido.

A Lione c’era odore di festa. Nell’appartamento del Caccetta, a pochi minuti d’auto dallo stadio Parc Olympique Lyonnais, era stata invitata la “crème de la crème” della società bene di Parigi e dintorni. Caccetta stappò la terza bottiglia di Champagne de Chateau ’78 e decise di tenere un discorso per i suoi invitati. Si piazzò in piedi sul tavolo, scoreggiando impercettibilmente per lo sforzo, bilanciandosi con un bicchiere a stelo pieno di Chateau in mano. Sorrise radioso alla “crème de la crème” parigina e si schiarì una volta la gola. La sua compagna, Sabrine, gli sorrise incoraggiandolo.

“Amici miei, cari invitati” formulò in francese “vi ringrazio per aver accettato il mio invito, sono davvero felice di avervi al  mio fianco in un momento come questo. La celebrazione del nostro anniversario di matrimonio” e con questo levò il calice verso Sabrine “coincide con la cessione del 30% della Caccetta Found InvestiCap alla General Robotic di Dublino, registrando un sensibile rialzo in Borza del 2,4% già nel primo e secondo quartale. Sono sicuro che conoscete bene la mia storia, ma ho deciso, nonostante la ritrosia di Sabrine, mia moglie, di rifilarvela lo stesso!”. Un muro di risate si alzò dalla folla sottostante. Caccetta sentì un leggero brivido alle parti basse, come una vibrazione di piacere. Sorrise nuovamente con la sua nuova dentatura perfetta. Cimini, il suo vecchio compagno di bevute, alzò il calice e sbottò qualcosa di perverso. Generò una valanga di risate. Qualcuno distolse lo sguardo imbarazzato. “Ebbene,” riprese Caccetta “qualche anno orsono, dopo varie esperienze in Nordeuropa, decisi di spostarmi un po’ più a sud, in terra francese, a centinaia di chilometri dal mio paese d’origine dell’Italia nord-occidentale, Torino. Sappiamo che queste due città, fin dai tempi antichi, sono legate da un intenso filo commerciale che si rintraccia fin ai tempi medievali. Decisi, all’età di trentatré anni, di rinsaldare questo livello di comunicazione e dopo vari sacrifici riuscì nell’intento. Mi specializzai nella robotica e nella programmazione di sistemi adeguati in un linguaggio informatico di mia invenzione, denominato poi Log Uno. Qualche mese dopo aver brevettato il linguaggio ricevetti la prima cattedra a Boston presso la Facoltà e fondai con alcuni studenti una società, quotata in borsa. Da un momento all’altro diventai milionario e, come ben sapete, pieno di appuntamenti. La mia agenda divenne improvvisamente piena, tanto che dovetti assumere delle persone che registrassero le camere di albergo nei vari luoghi della terra.” La folla applaudì. “Mi resi subito conto che la mia vita stava prendendo un ritmo troppo veloce, che non si adattava alla mia natura, così arrivai alla decisione di cedere il 30% alla GR di Dublino, come gran parte dei miei progetti, a entità esterne, per potermi godere le cene di gala e conoscere meglio la società francese. Sabrine, mia moglie e manager, mi aiutò non poco nel raggiungimento di questo obiettivo, e la ringraziai con il finanziamento della Fondazione Rosa, il gruppo di mutuo-aiuto per giovani madri e donne alcolizzate, e una piccola donazione al reparto di chirurgia di cui Sabrine è Primario.” Sabrine sorrise imbarazzate e una luce di ammirazione e amore gli illuminò il volto. “Per cui ora sono parte della Vostra società, la crème de la crème, come si suol dire, riconoscendomi in questa nuova classe imprenditoriale, emblema di una fase storica, in cui si può essere milionari senza perdere di vista i valori della vecchia e cara borghesia occidentale, valori di solidarietà e correttezza, rigore scientifico e pacatezza. Per cui ora mi ritrovo, in mezzo a voi,ricoperto da questo vestito di Chaullè Le Guent fatto di filamenti di canapa, a bere Chateau del ’78 dalle colline della Provenza, nel pieno delle mie capacità imprenditoriali, all’apice del mio successo finanziario e personale, a brindare alla felicità, alla Vita, alla…” Il suo cellulare squillò all’improvviso “..alla…” Il segnale divenne sempre più potente. Si creò silenzio e imbarazzo. L’espressione di Sabrine divenne dura e fece vari cenni di disapprovazione a suo marito. Caccetta non riuscì a trovare il cellulare, si tastò alla ricerca di una tasca che non trovò, perforato dagli sguardi di tutti, perfino della sua amata Sabrine. Alcuni si voltarono da un’altra parte, per non vedere. Vedeva molti volti rossi d’imbarazzo. Spostò l’attenzione dalla platea sottostante al suo corpo nudo, flaccido, esposto sotto la luce dei suoi lampadari di cristallo di Boemia. Sabrine gli urlò di coprirsi, mentre il suo cellulare squillava e vibrava, ma non riusciva a trovarlo…

Caccetta si svegliò di soprassalto, bagnato di sudore, emergendo dal suo sogno come da una tinozza piena di melassa, faticosamente. Il cellulare sul suo comodino continuava a squillare. Si affrettò a rispondere, la sua voce suonò fiacca e debole alle sue stesse orecchie, ma cercò di darsi un contegno.

“Ingegner Caccetta”

“Davvero pensava di nascondersi con un finto nome?” sibilò la voce all’altro capo del telefono.

Caccetta non rispose. Decise di aspettare il seguito, che non arrivò. Clic.

Umberto Smaila. Maledetto, pensò la Torpedine. Alla fine l’aveva trovato. Si alzò velocemente, senza traccia di torpore. L’adrenalina lo pompava gradualmente, il sangue cominciò a pulsargli alle tempie. Andò alla finestra, sbirciò tra le tende la strada sottostante. Un’auto uscì dal parcheggio proprio in quel momento, il conducente lasciò cadere un foglio di carta, con un gesto che voleva sembrare casuale. La Torpedine ritornò in camera e aprì un cassetto del suo comodino, estrasse il revolver. Controllò il tamburo, era carico. Si ficcò la pistola in tasca, una 6 mm, piccola ma decisamente utile. Un rassicurante peso. Lottando contro il panico crescente si lanciò verso l’armadio e recuperò i suo vecchio trolley, cominciando a riempirlo. Si fermò un momento. È proprio quello che vogliono, pensò la Torpedine. Che lasci il paese. Mi cercheranno, e mi ammazzeranno come un cane in un vicolo abbandonato prima che riesca a raggiungere un taxi. E sanno sicuramente che penserei a questa possibilità e che sarei combattuto nel conflitto tra scappare e barricarmi in casa con poche provviste, aspettando il loro arrivo dopo mesi. Al che sarei denutrito e incapace di opporre la benché minima difesa.

Conscio della verità di questa supposizione si lasciò cadere sul pavimento, impotente. Pianse lacrime amare, pensando alla sua ragazza, il lavoro, i suoi progetti, la sua scalata verso il benessere e l’indipendenza economica, verso il successo. La crème de la crème. Il suo sogno prese le sembianze di una tetra pre-visione del suo futuro. Sconsolato, si pose i palmi delle mani sul volto, il peso della revolver ormai non più rassicurante, più che altro un presagio di una morte autoinflitta. Dopo tutti questi anni Smaila si era auto-generato, risorto dalle antiche ceneri, una rinascita sovrannaturale. Sì, ci fu il florido periodo politico, l’alleanza con il Cavaliere Nero, l’orda di elettori pronti alla Rivoluzione e alla sovversione dell’ordine mondiale, poi però si ubriacarono una notte a Praga e il Cavaliere Nero perse conoscenza e diventò quadrupede. La Rivoluzione non andò più in porto e Smaila sparì dalla circolazione. Qualcuno disse che aveva aperto una etichetta discografica per sponsorizzare i progetti musicali di Jerry Calà.

Smaila. Maledetto, si disse la Torpedine. Si ordinò di reagire, di alzarsi, di intraprendere qualcosa. Per prima cosa si preparò un caffè. Aveva bisogno di pensare in fretta. Aprì l’armadietto posto sopra i fuochi per prendere la macchinetta espresso e il sacchetto del caffè, quando sentì un rumore liquido, un gocciolio. Preoccupato si voltò e seguì quella che sembrava una scia viscida lasciata sul pavimento di cotto. Al centro del soggiorno c’era la Cosa. Gli sorrideva.

In Baviera splendeva il sole. Un uomo annichilente, dalla pelle spessa e la voce roboante, decise di oscurare il sole. Si erse in tutta la sua statura e alzò il pugno in segno di sfida. Il sole si lasciò annichilire.

L’uomo pronunciò solo una frase: CAZZO DI SOLE DIMMERDA HO I POSTUMI DELLA SBRONZA VEDI DI OSCURARTI CAZZO!

Quest’uomo, dalle fattezze di un orso bruno sui trent’anni, sentii che il vento girò e una nuova Era si preparò a fare capolino e portare l’Oblio nella umanità. Levò ancora una volta il pugno, questa volta per arieggiare l’ascella. Uno stormo di uccelli cadde in picchiata sul tetto di un edificio di Ratisbona. L’uomo, in mutande, accennò qualche passo di danza sulle note di Closer, dei Nine Inch Nails, sul balcone del suo appartamento. L’immagine fu così debilitante che una coppia di pensionati che viveva dirimpetto impazzirono e uccisero a morsi il loro cagnolino.

CAZZO DI PISELLI MOSCI!

Quel giorno stesso doveva prendere un aereo per Lione. E aveva un terribile cerchio alla testa. Ed era di malumore.

VI INCULO TUTTI CON LA SABBIA!

Umberto Smaila lasciò l’auto, un Audi velocissima e ricca di comfort, per fare il suo ingresso nella sua nuova tenuta, tra le colline della Liguria occidentale. Il servo lo salutò servilmente e si sdraiò per terra. L’uomo parzialmente nudo, se non per un paio di calzini neri di seta e scarpe Clark, si accinse a pulire le suole sulla schiena del servo, un pensionato di quarant’anni indebitato con il Sistema Sanitario Nazionale. “Grazie padrone!”. “P maiuscola, per favore.” “Scusi Padrone. Grazie Padrone!”, si corresse il pensionato. Smaila estrasse la pistola da una fessura del suo corpo e fece fuoco sul servo. Una pizza di cervella e sangue si sparse sull’acciottolato. “Portatelo via!” ordinò ai suoi scagnozzi. Smaila era il cattivo. Smaila era più bastardo del Cavaliere Nero. E lo pensò come un complimento. Con la sua bastardezza aveva raggiunto tanti obiettivi nella sua vita. Aveva avuto tante donne, perdutamente innamorate di lui, e lui le aveva sfruttate solo per il sesso, essendo incapace di provare amore. E mentre queste ventenni si disperavano nella solitudine del loro appartamento, ingurgitando grosse quantità di barbiturici e cioccolato alla menta, lui se la rideva assatanato, sodomizzando la sua nuova vittima. Perché le donne amano gli stronzi, lui lo sapeva. Soprattutto quelli ricchi. Gli stronzi poveri, di solito disagiati tossici emarginati della società, stavano insieme a brutti cessi dalla pelle butterata con le tette mosce e il culo grasso. Smaila rideva, mentre la pizza di cervella e sangue e pezzetti di cranio si allargava sul viale. Il pensionato fu portato nella stalla dei maiali, per essere divorato e fatto sparire. Rideva, di cuore, allargando le braccia per abbracciare se stesso. Il mondo gli apparteneva. Aveva soldi, aveva potere, aveva un esercito pronto a occupare Parigi in ogni momento. Entrato nella sua magione fu salutato dal Cavaliere Nero, il suo fido quattrozampe. Chiamò la serva, una diciannovenne ecuadoriana con le tette rifatte, piena di coca fino alle punte dei capelli. “Dagli da mangiare! Guarda come è dimagrito!”. Miss Ecuador 2015 si allungò per prendere il guinzaglio dalla cesta, concedendo uno scorcio del suo sesso all’imperturbabile Umberto, agganciò il Cavaliere Nero, che scodinzolò contento, e lo portò nelle cucine. “Striglialo per bene!”. Un giorno doveva far castigare quella ragazza impertinente. “Quando ha finito con Berlu portala nelle galere e legala al palo della tortura.” ordinò al suo scagnozzo “Le faccio passare la voglia di non rispondere.” “Non è quella a cui hai tolto le corde vocali perché starnazzava troppo?” replicò lo scagnozzo. “Chiama il mio chirurgo di fiducia e fagliele rimettere, testa di minchia!”.

Era l’ora dell’esercitazione. Fece partire l’impianto stereo e mise su un pezzo del Rapper U-Calà, FAK IU BIC:

“Ehi tu

Mezzo cazzetto

Yeah

Si parlo con te

Ehi

Fedezzati nel giro

Gira il chiloom

Che sabrina c’ha mmmm

Si l’hai capito ghiro

Alza le zampe e chiatta la tipa

Il grano non ti manca

Ti manca la minchia

Ehi cazzetto

Se t’incontro nei bagni

Ti sfodero il silos

Che manco cicos

Chica

Prendi sto pezzo

Manzo vero

Centopercento milanese

Domina duomo

Madonnina -che fresa!

Meglio la gallina oggi

Che domani la Seredova

Ieri faceva l’ova.”

I bassi fecero tremare le pareti della sala di esercitazione. Prese un Kalashnikov dalla rastrelliera e mirò alla sagoma a 40 metri dal punto di tiro. Fece partire una sventagliata, il ventre molliccio gli tremolò per il rinculo. Poi un’altra. E un’altra ancora. Depositò poi l’arma dalla canna fumante, premette un bottone, la sagoma si avvicinò di una ventina di metri. Un’altra sventagliata. Una nuvola di sangue vaporizzato si alzò dalla sagoma. Il magistrato appeso al gancio cercò di urlare attraverso il nastro isolante sulla bocca. La sagoma fu manovrata di altri dieci metri. La sagoma del magistrato era ridotta ad un cencio insanguinato. Grazie agli antidolorifici non era ancora svenuto dal dolore provocato dalle numerose ferite da sparo alle braccia, ventre e pube. Con una espressione concentrata Smaila imbracciò meglio il fucile mitragliatore e impostò sul singolo sparo, mirando alla testa. Il magistrato, rassegnato, chinò il capo.

“Hei tu bic

Ma sai con chi hai a che fare?

La crew Smaila and company ha con te un contratto

Fine della tua vita

Inizia la nostra vendetta

Piegati e accetta il movimento

Imam – prete pagano

Su e giù dentro il tuo deretano

Baby ti dico: caga sano”

BANG.

La risata che ne seguì risuonò più forte del pezzo rap.

A Lione cambiò il tempo. Fuori dalla finestra dell’appartamento della Torpedine cominciò a scrosciare pioggia a secchiate, trasformò la via in un pantano, gente correva avanti e indietro per trovare riparo dall’acquazzone. La Torpedine, un ingegnere di trenta e passa anni, si passò una mano tra i capelli radi, con l’altra pulì il vetro della finestra dalla condensa. Aveva tanta voglia di trascorrere del tempo con la sua ragazza, all’improvviso provò una fitta di nostalgia, pensando al sorriso di lei. Con il dito disegnò un cuore, per poi cancellarlo prontamente non appena i passi del capo si avvicinarono al soggiorno. Aveva trovato una mezza torta alla crema di cioccolato in frigo e una mezza bottiglia di vodka. “Si trovano solo mezze cose qui!”. Notò l’espressione preoccupata del suo amico. “Ehi, so cosa provi. Un giorno questa follia avrà fine.”

“Me lo dissi altre volte, e ci ritroviamo sempre nello stesso punto di prima. Il Male non dorme mai.”

“Eh lo so. Sembra che questo Smaila sia più tosto di quanto si poteva pensare. È un duro. Ha fame di vendetta. Certo non si è dimenticato di quella volta che gli abbiamo fatto saltare il culo con la bomba a mano.” Il Capo scolò buona parte della vodka e si dedicò alla torta. La Torpedine si portò alle labbra la tazza di caffè, ormai tiepido. Una vettura dei vigili del fuoco sfrecciò sul viale accanto, probabilmente una cantina allagata, ipotizzò la Torpedine. Chissà se stavolta sarò cosi fortunato da rivedere la mia ragazza, pensò malinconico. La revolver, ficcata nella tasca dei jeans, era diventata calda. Tra pochi minuti sarebbe passato un furgone a prelevarli, guidato dall’uomo di Ratisbona.

“Hai avuto notizie da Amburgo?” chiese dopo un momento al Capo. Il Capo si limitò a emettere un rutto gigantesco. Nessuna traccia. “Probabilmente ha sentito puzza di bruciato e se l’è filata, il codardo.”

La Torpedine, durante il suo esilio sotto falso nome, aveva perso il contatto con l’uomo di Amburgo, un tipo nervoso. Aveva tanti collegamenti con l’arsenale della Zeta Press Group, senza di lui erano senza materia prima, non potevano condurre quella guerra contro il Male, potevano solo fuggire e trovare riparo presso il Braunbär, il cui potere annichilente aveva la facoltà di contrastare Smaila e le sue truppe per una decina di minuti. Ma certo non poteva fermare le loro pallottole. Avevano bisogno dell’arsenale della Zeta Press Group. Tutto quel che avevano era un coltello da caccia lungo 26 cm, un revolver e due scatole di cartucce. “Che fine ha fatto Lassie?” chiese la Torpedine. “L’ho mandato in avanscoperta in Liguria.”.

In quel momento un clacson risuonò dalla via di sotto. MUOVETEVI STRONZI, PORTATE IL CULO FUORI CAZZO.

“Scordati l’uomo di Amburgo. È sparito. Secondo alcune fonti ha lasciato il paese e lavora undercover in Sudamerica per conto di un’altra agenzia.”. L’uomo di Ratisbona, il Braunbär, era parzialmente sicuro dell’attendibilità delle sue fonti. “Dobbiamo procurarci da soli le armi. Con i nostri risparmi. È l’unica via.”

La Torpedine guardò fuori dal finestrino. La sua indole tranquilla lottava contro questa sensazione, di essere trascinato nel fondo di un pozzo, con una ridicola torcia e una borraccia d’acqua. Avrebbe voluto continuare a lavorare sui suoi progetti, a crescere e ad ampliare le sue conoscenze ed esperienze. L’immagine di riferimento che aveva in mente era di un agiato borghese, le mani appese ai baveri della sua giacca di cotone, mani precise e abituate alla manipolazione di problemi. Una figura che si ergeva a baluardo di una parte di società corretta e contraria allo scellerato capitalismo-squalo. Con il suo lavoro avrebbe contribuito a portare ordine e giustizia in un sistema che correva ogni giorno il rischio di collassare su sé stesso. Il Capo e il Braubär erano rappresentanti di questa nuova borghesia, componenti di un meccanismo diverso all’interno della Grande Macchina: il Sogno Samoano. Oltreoceano stavano emergendo già segni di cedimento del Vecchio Sistema, sotto i colpi dei Servizi Segreti e di una classe politica senza scrupoli.

L’Audi lasciò la sua posizione e si inserì nel traffico. Il passeggero a fianco dell’autista indicò il furgone con targa tedesca, un paio di vetture lo precedevano. Con un po’ di fortuna si sarebbero trovati a percorrere un tratto dell’autostrada e a mettere fine alla minaccia rappresentata da quei miseri individui. Il passeggero, un ex-soldato russo di mezz’età, si aprì la giacca e estrasse per metà l’Uzi, cominciando a caricarlo e a prepararlo. L’autista pigiò sul gas per evitare un semaforo rosso. La vettura davanti si accinse a superare sulla corsia a fianco. Il russo sorrise bieco. Meno una. Il furgone proseguì sul viale principale e superò una Vespa. Si diresse verso l’autostrada Nord. Dopo una decina di minuti imboccarono l’autostrada in direzione Parigi.

Lo stregone del villaggio emerse improvvisamente dalla trance. Gli assistenti ammutolirono, le donne smisero di suonare il tamburo cerimoniale. “Dah-nna!”. Gli assistenti si guardarono, una espressione timorosa sui loro volti. Le donne furono allontanate. Al vecchio fu offerta una bevanda. Uno di loro raccolse dei semi da una ciotola e li gettò fuori dalla capanna, sul terreno fangoso illuminato dalla luna, pronunciando una frase magica. “DAH-NNA”, ripeté il vecchio sciamano. La vita nella capanna divenne all’improvviso frenetica, un assistente con decine di piercing alle labbra varcò la soglia e cominciò a correre lungo il fianco della collina, nell’oscurità della foresta pluviale. Seguì le istruzioni del vecchio, girò a destra attraversando il torrente giallo e corse a perdifiato tra gli alberi dalle radici affioranti. Il villaggio vicino distava due chilometri, doveva raggiungerlo il prima possibile. Una volta percorso il ponte sul Rio delle Amazzoni doveva solo scavalcare una rupe e formulare le parole di rito per entrare nel villaggio. La guardia l’avrebbe lasciato passare senza scoccare la freccia al curaro. Dopodiché avrebbe dovuto individuare la capanna vicino al torrente rosso e chiedere dello Straniero. Lo Straniero aveva molti nemici. Lo Straniero non aveva nome. Si sapeva solo che aveva una cicatrice sulla schiena, memore di una lotta contro un essere innominabile che aveva posseduto uno dei suoi migliori amici. Lo chiamavano anche l’Occhio del Fiume, per le sue capacità paranormali. Davanti all’entrata della capanna di fango e ramaglie una guardia intagliava un pezzo di legno dell’albero del pane. L’uomo pose il coltello e si alzò aiutandosi con la lancia. Il ragazzo si passò una mano sulla fronte e sventolò la mano in direzione della guardia, che rispose brevemente al saluto. Senza indugio alcuno l’assistente dello sciamano del Villaggio del Torrente Giallo estrasse un rotolo di pergamena fatto con pelle di tapiro e lo svolse davanti agli occhi della guardia, che si dilatarono. Sollevò la tenda che faceva da porta alla capanna e con un gesto brusco introdusse il ragazzo all’interno della capanna. Al centro ardeva della brace dentro un recipiente di bronzo, radici e bacche aromatiche sprigionavano la loro aroma bruciando lentamente, poste sopra una grata sospesa sul braciere. Tra le volute di vapore e fumo il ragazzo distinse una figura, immersa in una tinozza di legno. Il cranio rasato, i muscoli affioranti, l’espressione persa nelle nebbie delle sue visioni. Lo Straniero aveva assunto l’ayahuasca. Il ragazzo si avvicinò cautamente alla figura immersa nella trance e gli offrì una radice di antidoto. Lo Straniero lo guardò una volta, nel suo sguardo l’infinita profondità di un buco nero. Lo Straniero già sapeva.

Un elicottero nero non registrato sorvolò lungo il chilometro 73 dell’Autostrada Nord. Comunicò la posizione del furgone grigio all’uomo armato seduto nell’Audi. “Al chilometro 82 il traffico si assottiglia e gran parte delle vetture hanno segnalato la svolta a destra, in direzione del confine con l’Italia. Il furgone prosegue la corsa in direzione nord.” riportò l’ex-soldato russo David. L’autista, un francese, si portò sulla corsia di sinistra e cominciò lentamente una manovra di sorpasso. Dietro di lui lampeggiò una BMW. “Fallo passare.” disse David. Patrick ubbidì, poi si riportò nuovamente sulla corsia di sorpasso. Dietro di loro la corsia era praticamente libera. A 120 Kilometri orari superarono il chilometro 80. Il furgone grigio lo superarono e Patrick pigiò sull’acceleratore, mentre David tirò fuori l’Uzi dalla giacca. L’autista ammirò il sangue freddo del russo. “Quando quel Doblò rosso ci supera fai recuperare il furgone la distanza che ci separa, quindi portati sulla corsia di destra. Io mi sporgo dal finestrino sul tetto e li elimino. Siedono tutti e tre davanti, sarà un gioco da ragazzi.”

Patrick ubbidì. Il Doblò rosso lo superò ma, anziché mantenere la velocità sui 130, rallentò leggermente. “Non è un problema.” fece David all’autista confuso. “Dopo che ho sparato pigia sul gas e fagli mangiare la polvere”. Nel frattempo Patrick aveva già occupato la corsia di destra e David si stava per sporgere dal finestrino. Il Doblò lasciò la corsia centrale e seguì la manovra dell’Audi.  Il portellone posteriore si aprì. “Ma che caz…” fece in tempo a dire Patrick. Un uomo con il passamontagna sedeva dietro un mitragliatore da assalto montato su piedistallo. Fece fuoco. L’Audi e i suoi occupanti furono crivellati da sventagliate di 6 pallottole anti-carro da 12 mm al secondo. La vettura si incartò sulla parete anteriore e si sollevò piegandosi su se stessa, roteando in aria. Braunbär disse solo “PORCA PUTTANA BAGASCIA”. Superando il Doblò si accorse della scritta al fianco: Zeta Press Group, Pieve Ponte Morone. L’autista del Doblò manovrò l’auto portandosi dietro il furgone grigio, facendo da scorta. Una sezione del tettuccio si aprì. L’uomo si tolse il passamontagna e agì sulla manovella accanto al mitragliatore in modo da poter mirare verso l’elicottero nero che sorvolava il tratto dell’autostrada. Da un lato del velivolo si sporse un tipo con il casco, sulla spalla un Bazooka. Lo Straniero comunicò via radio la prossima manovra del Doblò, che si portò sulla sinistra. Una sventagliata del mitragliatore apri una fessura sull’altro lato del velivolo, dal quale fluì un liquido rossastro. L’elicottero perse quota. L’uomo con il casco perse quasi l’equilibrio, rischiando di cadere di sotto. Imbracciò nuovamente l’arma e mirò al Doblò, che cominciò a zigzagare sull’autostrada. Partì nuovamente una raffica, un proiettile colpì di traverso la gamba del pilota. Questa volta l’elicottero puntò il muso decisamente verso il basso. L’uomo con il casco premette allora il grilletto.

 

Fine prima parte

L’autore dell’articolo è contrario ad ogni generalizzazione e alla riduzione del fenomeno ad una categoria, società o genere sessuale.  Costui è favorevole all’emancipazione di ogni essere umano a priori della sua confessione, professione, genere o orientamento sessuale, politico o della provenienza geografica.

 

Inutile dire che le condizioni in cui viviamo adesso, almeno per quanto riguarda la grossa parte della popolazione terrestre, hanno dell’incredibile. Viviamo nell’Era della Comunicazione, dove le persone di tutto il mondo, se posseggono la tecnologia giusta, possono interagire fra di loro con uno strumento che sta sul palmo di una mano. Basta sfiorare con un dito una superficie e una finestra si apre sull’umanità. Niente di più facile. Chi ha vissuto la sua infanzia in tempi in cui al massimo comunicava con il telefono fisso si è facilmente adeguato al nuovo sistema, traendovi vantaggi di ogni tipo, anche commerciali.

L’effetto che questa tecnologia ha sulle persone più giovani è tuttora oggetto di ricerca. Immaginate di dare ad un/a quindicenne la possibilità di essere buttato/a in un mondo virtuale dove può dire quello che vuole, fare quello che vuole, praticamente in totale libertà, senza correre il rischio di essere giudicato, almeno in un modo diretto. Come se a proteggerlo/a dall’ambiente esterno ci fosse una falsa identità o uno schermo riflettente. In questo gioco virtuale ha la possibilità di esprimere tutta la sua creatività e potenzialità. Ciò che è interessante, è che la sua personalità non è ancora formata. Il suo corpo ha raggiunto un livello di autonomia e prestazione che può solamente crescere e migliorarsi ulteriormente, ma la personalità rimane in uno stadio ancora profondamente legato agli stimoli esterni. Come se non avessero una membrana a proteggerli dagli eventi atmosferici. Quella membrana protettiva si forma nel tempo.

Immaginate allora di lanciare questi corpi senza membrana in un vuoto cosmico pieno di informazioni, freddo, violento, iperstimolante, rapido, selettivo. La membrana si svilupperà di conseguenza in modo diverso rispetto a quella che si è formata nelle generazioni passate. E poi scoprite che il/la vostro/a figlio/a dodicenne ha condiviso un video erotico su Whatsapp.  O peggio.

Fatevi un paio di domande. Spingete la vostra immaginazione al di là della vostra esperienza, cambiate prospettiva, guardatevi attorno. Miliardi di dati, informazioni, che possono essere ricevuti in pochi secondi, creati da figure consapevoli del peso economico che queste informazioni hanno sui consumatori, del guadagno che rappresentano. Consumatori completamente inondati da questo flusso.

Per come siamo fatti noi esseri umani, abbiamo la capacità di “percepire” informazioni e di “elaborarle”. La seconda facoltà richiede un certo sforzo intellettivo, senso critico, una spessa “membrana”, quella di cui parlavo prima, quella capacità di discernere i dati e di darne un personale senso, di confrontarli con le proprie conoscenze e di poter infine restituirli al mondo esterno “personalizzati”. Membrana che si è formata secondo diverse modalità rispetto a quelle attuali. Membrana che ha filtrato una limitata quantità di dati, ha avuto il tempo di selezionarne alcuni, di smistarli, di spedirli al nostro centro di elaborazione.

I dati che ci troviamo a gestire ultimamente sono quantitativamente immensi ma qualitativamente poco raffinati. La membrana non ha effettivamente il tempo di filtrare tutti questi dati e si arriva ad un intasamento del traffico. Ci limitiamo a soffermarci su quelli che stimolano meglio le nostre terminazioni nervose, che accendono particolari aree del nostro cervello, aree che determinano una risposta emotiva più o meno piacevole.

Stiamo “allenando” miliardi di nuove reclute a questo tipo di ricezione. Sono affamate di gloria, vogliono farsi posto, sgomitare per ottenere il loro posto nella piazza del mondo. Sono feroci e voraci come squali, mangiano tutto quello che trovano e si dibattono per eliminare la concorrenza. L’Era della Comunicazione ci sta preparando ad una nuova competizione, dove vince chi mette in campo i dati più adeguati a fissarsi su questa sottile membrana senza correre il rischio di essere smistati verso le zone di elaborazione. Non hai bisogno di pensare, ma di reagire prontamente. Non devi riflettere, devi contrattaccare. Se rifletti sei lento, passi troppo tempo a soppesare l’informazione. Non ne hai bisogno, l’informazione è già pronta per essere inoltrata. È già stata elaborata e preparata per farsi largo sul pianeta. Tu sei il mezzo, la matrice, il medium, l’intermediario, il lanciatore. Noi siamo i grossi Drugdealer, tu il tossico che spaccia le piccole dosi ai novellini.

Questo fenomeno lo si osserva anche in certi ambiti dove una volta la riflessione, la profondità di pensiero, l’empatia e il rispetto verso l’altro erano le colonne portanti, valori, di una pratica primitiva che muoveva le persone a cercarsi e a condividere un pezzo della propria vita con qualcun altro: il corteggiamento. Questa antica forma di conservazione della specie si è evoluta in migliaia di anni, arrivando a forme di elevata intensità e poesia. Basti pensare alla letteratura, alla poesia, la musica, il cinema, l’arte, la filosofia. Discipline che grazie all’Amore hanno conosciuto una risonanza mondiale, trasversale ad ogni cultura, poiché non c’è modo più efficiente per l’espansione di opere nel mondo dell’ “accendere” questa ancestrale biochimica corporea, per mezzo di immagini, sensazioni, immedesimazioni.

Correndo il rischio di apparire a molti amareggiato, deprimente, farisaico o quant’altro, voglio informare tutti che questa Era dell’Amore, o del Romanticismo, o come vogliate chiamarla,  è definitivamente morta e sepolta. Se parlassi del romanticismo nell’uomo, magari non apparirebbe così assurda la mia dichiarazione. Ma il romanticismo è morto in maniera assoluta.

Oh Donne, cari esseri gentili e delicati, fragili ma al tempo stesso forti, di elevata caratura morale ed etica, maturi e compassionevoli, figure maestose e disperatamente poetiche, dove è finito il romanticismo? Il desiderio di trovare il principe azzurro si è trasformato in un tiro a segno, una lotteria, la sagra del maiale. Perché, dai, diciamocelo, siete diventate dei libri aperti per gli uomini. Se prima il vostro mistero era uno scrigno da aprire con delicatezza con la chiave giusta, ora siete la cenerentola che ha perso la scarpa e la cerca a carponi sul pavimento sdrucciolevole di una discoteca. Dove è finito il vostro onore? È vero, per Voi c’è l’imbarazzo della scelta. Ma proprio non capiamo, noi, Esseri non Superficiali e non Sessisti(EnSnS abbreviato) che vi osserviamo da un angolo a perdere la vostra dignità strusciandovi contro un tamarro dal collo taurino e dalle maniere da netturbino. Voi, che eravate il nostro esempio di profondità e rettitudine, un misto di felice pazzia e consapevolezza, Voi, a piangere guardando Bridget Jones o Titanic, ora vi entusiasmate a guardare Cinquanta sfumature di grigio e grugnite soddisfatte ad ogni giro di catena, ad ogni frustrata. Perché a voi piace lo stronzo ricco stronzo potente stronzo e sessista. Non c’è c…o che tenga. E mentre noi ci rifugiamo nella consapevole solitudine, che è meglio di questa lenta curva discendente nell’oblio della superficialità, mentre noi pochi Romantici ancora in vita ci guardiamo Titanic e The Notebook, sognando del Grande Amore, Voi (V maiuscola) scegliete il prossimo guscio vuoto con cui uscire, ridendo delle battute che lui ripete ad ogni incontro, in questa infinita giostra di stronzate ritrite che ha tutta l’aria di un arido colloquio di lavoro, piuttosto che utilizzare la chance per fare capolino in un altro universo e scandagliarne le sue profondità, a saper gioire della varietà che offre la nostra umanità. E se non è proprio il vostro tipo, poco male. Si tratta pure sempre di una persona, e non di una App fastidiosa che puoi disinstallare quando vuoi. Puoi cagarla lo stesso. Non ti manda gli aggiornamenti, non ti invade lo schermo di pubblicità.

Siamo nati nell’epoca sbagliata, noi degli anni Ottanta. O forse in quella giusta. Basta adeguarci, lasciarci andare e abbracciare il vuoto e la superficialità. Ma la nostra membrana è sopravvissuta a Chernobyl. Fate i conti con questa.

 

Paolo si presentò davanti alla porta di casa mia, rasato di fresco. Aveva una valigetta in mano.

– Non sai cosa mi sono dovuto scolare prima di prendere la metro per arrivare da te. Un whiskey senza ghiaccio. La prossima volta mi prendo un taxi dall’aeroporto. –

Mi porse la sua valigetta e senza chiedere permesso varcò la soglia del mio appartamento e si buttò sul divano. – Aaah, questo si che è un muffoso appartamento del cazzo! Quante ragazze hanno avuto il coraggio di entrarci? –

Mi venne in mente Lisa. Non commentai. Posai la valigia sul tavolino con un movimento brusco, cercando di dissimulare la rabbia montante che cresceva in me.

– La tua ragazza al telefono non sembrava molto contenta della tua partenza. – feci io, avviandomi verso la cucina. Ero solo nell’appartamento, il mio coinquilino sarebbe tornato tra un paio di weekend, era in vacanza nel suo paese di origine. Misi su l’acqua per un paio di tazze di the e tirai fuori un pacchetto di biscotti al cioccolato, tipo brownies. Li piazzai su un piattino. Intanto Paolo cercava le parole più adeguate per commentare la mia frase. Si alzò dal divano e mi seguì in cucina.

– Non ti ha detto nulla? –

– Di cosa? – domandai io. Un brownie mi scivolò dal piattino e cadde sul pavimento, lo raccolsi e me lo misi intero in bocca.

– Ci siamo lasciati… –

– Cosa? –

Una parola su Paolo e la sua ragazza. Erano la coppia più strana che conobbi ai tempi in cui vivevo in Italia. Dopo qualche anno lui cominciò a cornificarla a destra e a manca, lei si disse disponibile a dimenticare quelle piccole avventure nel caso in cui Paolo le chiedesse di sposarla. Cosa che Paolo non fece. Lei inscenò un suicidio riempiendosi la bocca di torta alle pere e cioccolata in un disperato tentativo di attirare a sé l’attenzione degli amici. Gli amici parlarono con Paolo. Egli affittò una casa e andarono a vivere insieme per un paio di anni, giocarono a fare la coppietta. Lei prese 10 chili e lui s’iscrisse in palestra. Ebbe altre sette avventurette con alcune frequentatrici della palestra e l’istruttrice di aerobica. Mentre la mia ragazza d’allora per molto meno mi avrebbe tagliato l’organo riproduttivo con un machete, Silvia, la ragazza di Paolo, simulò un paio di suicidi, sempre a sfondo gastronomico diciamo. Non che questo mettesse Paolo di buon umore. Però ne parlò come di un fatto marginale della loro vita di coppia. Una sera, totalmente ubriaco, rientrò a casa e trovò Silvia riversa sul letto, ottanta chili per centosettanta centimetri di donna caucasica, pompata di antidolorifici e una teglia intera di tiramisù fredda di frigo. La pozza di vomito raffermo incorniciava la sua chioma come un’aureola. Chiamò il 118 dopo aver provato a rianimarla ma il fiato rallentato di lei, puzzolente di tiramisù semidigerito, non gli permise di continuare. La ricoverarono per una giornata intera, poi la riportò a casa. Quella sera lei non parlò per tutto il viaggio, si ritirò in camera e dormì per due giorni di seguito. Paolo dovette assentarsi dal lavoro e mettersi in mutua per poterla monitorare. Spinto dalla famiglia di lei e dai suoi amici si decise a prendere in mano la situazione. La mandò in una clinica in mezzo alle foreste del Trentino Alto-Adige, al mese 3000 euro di retta, per seguire un programma psicoterapeutico per potenziali suicidi. Lei resistette per un paio di settimane, dopodiché volle ritornare da lui. Senza dire una parola ai suoi familiari e a Paolo, si congedò dal personale medico. Presentò un documento firmato che liberava l’equipe da ogni responsabilità legale in seguito al suo rilascio. La firma di suo padre era ovviamente falsificata. Arrivata con il primo treno in città fece un giro in un centro commerciale e trovò quello che cercava. Con un misterioso pacchetto fece il suo ingresso nell’appartamento di Paolo, il quale era impegnato a fare la corte alla segretaria del suo capo in ufficio. Alle cinque e mezzo bollò la cartolina, regalò un sorriso alla biondina seduta alla scrivania, uscì dal luogo di lavoro e inforcò la bici per tornare a casa. Durante il tragitto Silvia ebbe modo di preparare il tutto, l’organizzazione di un adeguato party di buon ritorno a casa. Paolo infilò la chiave nella toppa, aprì la porta, sentì un odore insolito di torta appena sfornata e registrò un movimento improvviso con la coda dell’occhio. Silvia gli piombò nuda sul fianco sinistro, gli scaraventò tre chili di torta ribes e mirtilli con strato intermedio di crema alla vaniglia in piena faccia e cascarono insieme sul pavimento. Ansimante di piacere e follia assassina, Silvia gli stantuffò buona parte della torta a manciate dentro la bocca, schiacciandogli il petto con tutti i suoi ottantatré chili. Paolo, esterefatto e sorpreso, nonché terrorizzato, cercò di difendersi come poté, ma le mani scivolarono sul corpo nudo e imbrattato di crema di Silvia, che non mollò neanche per un attimo la forte presa sul suo uomo, dimostrando una notevole resistenza fisica. Per fortuna di Paolo, in quel momento alla completa mercé di Silvia, sul pianerottolo capitò la signora Melinda del terzo piano, con le borse della spesa. Sentendo i deboli tentativi di difesa di Paolo e l’ansimare quasi erotico di Silvia, aprì completamente l’ingresso e sbirciò nel corridoio dell’appartamento. Le ci volle un paio di secondi per accorgersi che stava assistendo ad un tentativo di omicidio piuttosto che ad un atto sessuale anomalo. Urlò. Silvia si voltò un attimo. Paolo tentò di svincolarsi dall’abbraccio potente della sua ragazza e nel farlo urtò il tavolino accanto e gli cadde sulla testa un vaso con i fiori. Perse conoscenza. La donna con le borse della spesa intanto si avventò contro la donna nuda e caddero insieme sul pavimento di marmo, dove Silvia si ruppe una clavicola. Altri vicini, sentendo il tramestio e le urla, accorsero e chiamarono le forze dell’ordine. Fu rivestita e portata in caserma. Paolo finì in ospedale con uno stiramento del muscolo della mandibola e una commozione cerebrale. Si rimise nel giro di una settimana. Non sporse denuncia contro Silvia. Qualche settimana dopo lei finì in terapia e Paolo venne inserito in un programma per mariti vittime di violenza domestica. Nel giro di un mese ritornarono insieme. Lei aveva nel frattempo cominciato a dimagrire. Lui, beh, diciamola tutta: nessuno si stupì quando ci confessò di essersi per un attimo eccitato durante l’aggressione. Ci disse che non aveva mai provato una eccitazione così potente per una donna. In quei pochi secondi, mentre Silvia sopra di lui gli bloccava ogni tentativo di liberarsi e gli schiacciava sul suo petto il suo sesso nudo e bollente, Paolo provò la più potente sensazione erotica della sua vita. Dopodiché subentrò la paura di morire, in quanto si vide notevolmente ridotto l’apporto di ossigeno al cervello. Le sua mani caddero prive di vita dal suo seno abbondante e scivoloso e Silvia gli bloccò le braccia con le ginocchia. Le gambe di lui cominciarono una danza vana per cercare di scrollarsi di dosso ottanta chili di rabbia repressa, quando ricaddero vinte sul pavimento, rabbrividendo, nel momento in cui il vaso gli cadde sul lobo frontale.

Ci raccontò che gli bastava vedere una fetta di torta al ribes e mirtilli per sentirsi palpitare il membro nei pantaloni. Nel male, la coppia si riscoprì più unita di prima. La casa di Paolo cominciò a sembrare il laboratorio di una pasticceria, tracce di crema si ritrovarono pure sul divano, sui davanzali, sul tavolo della cucina. Ciotole di ribes e frutti di bosco riempivano il frigo e nei weekend il profumo di dolce che stagnava era particolarmente nauseante. Quando lasciai il paese, un paio di anni fa, le voci parlarono di un inevitabile matrimonio.

Paolo stava lì, con la sua tazza di the in mano e un brownie in bocca, a raccontarmi delle sue ultime vicissitudini con Silvia. Codesta l’aveva da poco tradito con un insigne terapeuta specializzato nella cura dell’ansia. Lo scoprì per caso, dando una fugace occhiata allo schermo dello smartphone di Silvia, illuminatosi per l’arrivo di un messaggio su whatsapp. Lei era a farsi una doccia. L’anteprima del messaggio era piuttosto informativa:

“Hai voglia di una bella sbattuta stasera?”

Paolo pensò di non essere mai stato geloso. Fino a quando lesse questa frase. Con aria assente posò la frusta che aveva in mano, con cui stava preparando l’ennesima creme brulé con sciroppo di ribes, e si ritrovò a fissare lo schermo con un senso di nausea crescente.

– Per la prima volta in vita mia mi venne da piangere per la delusione. –

Lo guardai stupito. – Non ti è mai successo da piccolo? –

– No. Mai. Voglio dire, i miei genitori mi comprarono ogni cosa che chiedevo. –

Quando dopo mezz’ora Silvia fece capolino dalla doccia, nuda e gocciolante, un fisico asciutto da ventenne, Paolo aveva già preparato metà valigia e acquistato on-line un biglietto per Amburgo. Mentre lei cominciò ad asciugarsi i capelli e a pensare alla vitalità impetuosa del terapeuta quarantenne con un mezzo sorriso perverso, Paolo aveva già infilato l’uscita, lasciando un foglietto di carta sul tavolino dell’ingresso. Lo firmò con la sua calligrafia di sempre, ferma e professionale.

Ti lascio! Stronza!

Paolo T.

Silvia dovette mangiarsi la creme brulè da sola, piangendo sommessamente. Almeno, questo volle immaginarsi Paolo. Al telefono la voce della sua ex suonò razionale e vagamente sorpresa. Cosa che stridette fortemente con l’immagine che negli anni mi ero fatta di quella donna impetuosa e assillante.

Così, senza un minimo di preavviso, il mio amico se ne stava lì in piedi al centro della mia cucina, con un biscotto in bocca e la tazza del the bollente in mano. Questo voleva ben dire un arco di tempo non determinato in cui me lo sarei visto girare in casa con il suo portatile da lavoro, a organizzare videoconferenze con i suoi clienti e a informarsi dell’andamento della borsa mondiale.

– Posso lavorare comodamente da casa per un tempo forse illimitato.-

Yeppie, pensai. Ordinai del cibo cinese e lo mangiammo guardando una puntata di Friends dei vecchi tempi.

– Mi arrapa un casino Jennifer Aniston! –

– Mmm-mm.-

– Guarda che culo perfetto che ha! E con i suoi quaranta e più anni sulle spalle ha sexappeal da vendere! –

– Si, immagino! –

– Glielo metterei nel culo, a quella lì…-

Qualcosa in me fece clic. Lasciai a metà la mia porzione di riso e pollo al curry e mi recai in cucina. Ne avevo abbastanza di tutto questo parlare da macho.

Buttai il resto del cibo nella pattumiera e mi misi a lavare un paio di stoviglie. Il sole tramontava e gettava una luce rossastra nel salotto. Silenzio.

Cosa mi sta capitando, pensai. Mi ritrovo disperso qui, in questo angolo di mondo, e provo nausea a sentire parlare in modo così grottesco di sesso da uno dei miei migliori amici, a sua volta oggetto di violenza da parte della sua ex. La Silvia che con un tono cosi freddo volle informarsi se per caso Paolo era capitato a casa mia con una valigetta.

– La valigetta è mia. Ti prego di ricordarglielo. – mi disse lei al telefono.

Sei anni di rapporto travagliato, con alti e bassi, voci di corridoio che annunciavano un matrimonio già programmato, tradimenti, lei che se la faceva con un terapeuta dell’ansia. Al telefono mi chiede di preoccuparmi di farle riavere la sua valigetta. Sono io che non riesco ad adeguarmi ai tempi che corrono? O è il resto del mondo che sta dando cenni preoccupanti di decadenza? Troppo prosaico? Troppo severo nel dare giudizi? E cosa dire di questa violenza gratuita contro le donne? Dei brutali assassini? Di Lisa?

Queste domande si schiantavano come onde sugli scogli e con un rumore di risucchio si portavano dietro le risposte trascinandole in mare aperto. Ho deciso di far finta di niente, e ho fallito. Non potevo negare l’evidenza. La marea mi stava portando troppo al largo.

Posai le stoviglie sul ripiano e feci bollire dell’altra acqua.

– Va bene se dormi qui in salotto? Ho un materasso che mi avanza…- lo informai, tornando con il the.

Paolo distolse per un attimo lo sguardo dalle chiappe di Jennifer Aniston e notò la mia espressione accigliata. – Ehi, c’è qualcosa che non va? –

-Eh? Ma no, dai, sono solo un po’…ehm…stanco. –

-Ah-uhm. –

– Ehm, Paolo, senti…ho ricevuto una chiamata, prima che tu arrivassi…-

Paolo tolse il tono alla TV. – Chi? –

– Silvia. –

– E allora? –

– No, niente, parlava della tua…ehm… la valigetta. –

Paolo mi squadrò interdetto. – Se la può scordare. La valigetta è mia. Come d’altronde l’appartamento. –

– L’appartamento in affitto? –

– Sì. L’appartamento in affitto. –

– Eh, io però non capisco il motivo del tuo arrivo qui, allora. –

– Sei l’unico amico single! –

– Ah… –

– Ho bisogno di sostegno! –

– Ehm, no, certo! Ma…la valigetta? –

– Fanculo la valigetta! –

Detto questo si voltò e tolse il muto al televisore. Jennifer Aniston faceva ginnastica in una puntata. Andai a prendere l’occorrente per il suo letto e piazzai il materasso contro la parete.

– Devi lavorare domani? – volle sapere dopo che gli diedi la buonanotte.

– Si, al mattino e al pomeriggio, ho una piccola pausa a mezzogiorno. –

– Quando mi porti nel quartiere a luci rosse di Amburgo? –

– Venerdi sera? –

– Grande! –

Infilandomi a letto spensi lo smartphone, ignorando i messaggi da parte di alcune donne probabilmente annoiate. Avevo il cuore a pezzi. Mi addormentai dopo un’eternità, mi parve di sentire dei gemiti provenienti dal soggiorno. Non seppi dire se stesse piangendo o avendo un incubo. I tempi in cui gli uomini reagivano con durezza e virilità alle sfide dei tempi parevano essere passati da un pezzo. Rimanevano solo le spoglie di un vaga dignità e un consunto senso di abbandono.

In un giorno di marzo prendemmo la metro per andare alla Reeperbahn. C’erano gradevoli 14 gradi la sera e nel pomeriggio avevamo fatto una passeggiata in centro e al parco, godendoci il sole. Paolo mi raccontò delle ultime vicende con Silvia e mi stupì particolarmente il suo tono dimesso e rassegnato. Negli ultimi tempi doveva aver riscoperto notevoli sentimenti per lei. Nonostante il suo aspetto svagato e la sua filosofia menefreghista, doveva aver incassato la delusione con profondo rammarico.

Il quartiere a luci rosse era particolarmente pieno di vita quella sera, complice la temperatura piacevole dopo un inverno lungo e particolarmente grigio. Piano piano mi rallegrai di quella imprevista visita e ci ritrovammo ubriachi e ridenti per le strade di Amburgo. Persi ogni mia segreta inibizione e il mio sguardo si posò  varie volte sulla gioventù procace che spandeva ferormoni invitanti in ogni angolo della città. Quasi con un senso di colpa – che non diminuiva, anzi, aumentava l’attrazione – assistevo a quella profusione di carne e voluttuosa giovinezza. Sulla pista da ballo alcune ragazze dimenavano i loro fianchi direttamente davanti ai nostri occhi, lanciandoci occhiate promettenti. Paolo cascò nella loro rete, come un pesciolino con la coda natatoria paralizzata. Io andai a ordinarmi della birra, colto nell’imbarazzo. Segnali così forti mi mettono a disagio, persino dopo quattro birre e un cocktail.

L’attesa tra l’ordine e l’arrivo della mia birra al banco fu estenuante. Il barista, completamente da solo e alle prime armi, faticava a stare al passo con gli avventori assetati. Quando ritornai al nostro angolo, Paolo era sparito. Pure le ragazze. Mi rassegnai ad un viaggio solitario con la metro, data l’impossibilità di rintracciare una persona non in possesso di un telefonino. Uscii dal locale, del mio amico nessuna traccia. Lo cercai nei dintorni, era letteralmente sparito. Con in mano la mia birra Astra mi misi in viaggio verso la prossima stazione della metro, distante cinquecento metri dal locale. La via più breve mi faceva passare attraverso un vicolo dove la presenza dei locali era notevolmente minore. Un tratto poco illuminato e sicuramente pericoloso. Svoltai una via e vidi con la coda dell’occhio un movimento consulto. Scrutai nel buio e dopo un po’ sentii uno strano rumore soffocato provenire da dietro un bidone della spazzatura. Nelle vicinanze c’era una macchina scura con le portiere aperte. Tre porte aperte. E un movimento consulto dietro il contenitore dell’immondizia. Un piede di donna fece capolino. La scarpa con il tacco giaceva poco lontano. Sul momento pensai ad una ragazza che vomitava – come se ne vedevano a centinaia in quella parte di città ogni notte – ma il mio sguardo si soffermò ancora una volta sulla BMW nera parcheggiata e con le portiere aperte. Strada isolata. BMW nera. Avevo un brutto presentimento. Con gambe che si erano trasformate in gomma mi avvicinai al luogo e fui sopraffatto da un’ondata di cieca rabbia. Lo squallore della scena mi cancellò del tutto il torpore dell’alcool dal corpo e dal cervello e sentii un sapore strano arrivarmi in bocca, come se avessi masticato una manciata di chiodi arrugginiti.  Due ragazzi stavano spogliando la ragazza e un terzo stava filmando tutto con lo smartphone. La tipa, a cui avrei dato diciannove anni, massimo ventidue, era visibilmente terrorizzata e debilitata dall’alcool, la faccia giaceva in una pozza di vomito e sulla schiena nuda aveva visibili segni di violenza, come se qualcuno le avesse strappato i vestiti con le unghie. Cercava di coprirsi con mani tremanti le zone intime e singhiozzava attraverso il palmo della mano di uno dei malviventi.

Il mio arrivo non era stato notato. Quando cammino non faccio praticamente rumore. Per questo potei contare sull’effetto sorpresa. Non mi passò neanche per un secondo di chiamare la polizia. Se avessi saputo della coltellata che avrei rimediato al ventre dopo il mio intervento, lo avrei fatto. Ma in quel momento reagii ad un livello completamente primitivo, in cui non pensai a nulla. A parte a Lisa e al suo viso terrorizzato. E a tutte le altre donne assassinate.

Per primo colpii con un calcio l’uomo che stava bloccando le gambe della ragazza, quello che mi dava le spalle. L’uomo che filmava, dall’aspetto trasandato, lasciò cadere nel trambusto il cellulare e si avventò su di me. Con i mie buoni centosessantacinque centimetri di statura tenni testa al suo contrattacco, 180 centimetri per 80 chili buoni di peso gettati in avanti. Dovetti ringraziare i cinque anni di Judo della mia adolescenza. Lo presi per le braccia e con un movimento circolare su me stesso lo scaraventai sul marciapiede, facendolo  atterrare su un palo della luce. La luce tremolò, come assurdamente registrai. L’altro mollò la presa sulla ragazza, che cominciò debolmente a chiamare aiuto. Vidi che pescò qualcosa da una tasca, qualcosa che lanciò un bagliore improvviso. Nel frattempo l’altro, quello che aveva preso un calcio sul lato della faccia si stava alzando in piedi per scaraventarsi su di me. Mi afferrò per la giacca da dietro e mi immobilizzò un braccio. L’altro slittò dalla sua presa fiacca e riuscii a ficcargli un pugno sul naso. Con un grugnito lasciò in parte la presa. La ragazza non era riuscita ancora ad alzarsi, si trascinava sui gomiti per coprirsi con le mani le parti denudate. Volevo dirle di lasciar perdere e scappare, ma poi sentii un violento bruciore ad un fianco, come una scudisciata, un fulmine di dolore che mi attraversava il corpo. Un altro bagliore. Il secondo fendente colpì di striscio il mio braccio. Quell’uomo aveva una faccia ributtante. Naso affilato, denti gialli, pelato e simile ad un avvoltoio. Con tutta la forza di cui disponevo, cieco di disperazione, feci partire il gomito e gli spaccai il naso. Il rumore che fece rompendosi mi esaltò, nonostante la pugnalata. L’adrenalina mi cancellò il dolore e fece emergere una nuova parte di me stesso di cui ignoravo l’esistenza. Quella dell’assassino. Una nuova energia mi rifluì nelle vene. Quell’altro aveva di nuovo rinnovato la presa sulle mie braccia e mi immobilizzava da dietro. Sfilai le braccia dalla giacca (wow, chi ci sarebbe arrivato) e mi girai, colpendolo con il taglio della mano sul pomo d’Adamo.  Seguii una gragnuola di colpi dati a caso sulla sua faccia di merda. Incespicando si voltò e scappò verso la zona dei locali, con un piede mancai per un pelo di fargli uno sgambetto. Il dolore tornò proprio in quel momento, all’inizio timidamente, poi sempre più spavaldo, con fitte lancinanti. Faccia da avvoltoio si teneva la mano sul naso, a cercare di fermare l’emorragia.

– Sei un uomo morto, stronzo. – fece minaccioso. La mano corse al coltello a pochi metri da lui. Feci partire un calcio che lo prese in piena faccia, mentre la ferita al ventre si aprì e mi si annebbiò la vista.  Gli si girarono gli occhi e perse conoscenza.

Mi accasciai lì, sul marciapiede. Piangevo, e mi faceva male respirare. La mia mano era piena di sangue e mi venne da vomitare. La ragazza era svenuta. Poi diventò tutto nero.

Qualcuno doveva aver sentito il tumulto e accorso lì aveva trovato quattro persone riverse sull’asfalto. Chiamarono l’ambulanza e la polizia, che accorse nel giro di 5-6 minuti. Ad un certo punto rinvenni e sentii la gente parlare in modo concitata intorno ame. Non potevo parlare, il mio corpo non ubbidiva, percepii tutto come in un sogno. C’era una luce che veniva puntata sulle mie pupille. Avrei voluto dire: sono vivo, vi sento, capisco la vostra lingua. Ho paura. Voglio andare a casa. Qualcuno mi tastò le tasche. Non riuscii a difendermi. Perché mi vogliono derubare? Mi sentii sollevare, rumori strani, odori strani. Mi misero qualcosa sopra la bocca. Disinfettante, freddo sulla pelle. Mi tagliarono la camicia. Provarono a chiedermi delle cose. Io avevo solo voglia di riaddormentarmi. Faceva freddo. Dall’altra parte era caldo e tranquillo.

Sto morendo, pensai. Questo dato di fatto non mi sconvolgeva più di tanto, ma mi veniva lo stesso da piangere.

Il tempo in quei casi trascorre in modo strano. Ad esempio credevo il viaggio fosse durato ore, mentre invece mi trasportarono nell’ospedale più vicino, ad Altona, ed il viaggio non doveva essere durato più di 10 minuti. Cercavano di tenermi in vita, e questo mi irritava non poco. Faceva male. Tanto male. Avevo strani pensieri. Quello che si dicevano i medici non si capiva bene, ma sembravano preoccupati in realtà per faccende burocratiche. Erano tranquilli. Uno di loro parlava di una nuova macchina che si era comprato, l’altro rispondeva a monosillabi. Ogni tanto questi si chinava su di me per studiare il mio volto e controllare dei parametri. Tra poche ore finiva il turno, disse. Era biondo e con gli occhi verdi. Emanava sicurezza e salute. Il veicolo si fermò. Porte si aprirono. Freddo. Luci. Venni sballottato sul lettino e le fitte si fecero più lancinanti. Qualcuno borbottò una formula di scuse. Ricaddi nel buio.

L’operazione durò ore. Dissero che avevo avuto parecchia fortuna. La lama aveva perforato per lo più i muscoli dell’addome e sfiorato il peritoneo. Pochi millimetri e avrebbe potuto lacerare l’intestino e provocare una pericolosa emorragia. Dovettero ricucire i vari strati e mettermi in osservazione. Si rese necessaria una trasfusione. Dormii parecchio dopo l’operazione.

Quando fui in grado di parlare fui interrogato dalla polizia per conoscere le dinamiche dell’incidente. Non spesero parole per lodare il mio gesto. Il loro atteggiamento sembrava per lo più accusatorio e sospettoso. Chiesi come stava la ragazza e che ne era dei criminali. Non poterono esprimersi su questi argomenti. S’indagava ancora. Mi augurarono pronta guarigione e lasciarono la sala.

Mi chiesi che fine avesse fatto Paolo. Il mio cellulare era sparito, lui non aveva le chiavi di casa. Prese un taxi? Dormì in albergo?

Dopo qualche giorno venni informato dalla polizia che potevo lasciare l’ospedale una volta ottenuto il permesso dall’ospedale ma che sarebbe stato utile rendermi disponibile per l’indagine.

Dopo una settimana lasciai con le mie gambe la clinica e presi un taxi. Arrivato a casa la prima cosa che feci fu di prendere la guida turistica di Amburgo e contattare tutti gli alberghi della zona. Nessuno aveva registrato Paolo come ospite la settimana scorsa. La sua valigetta era lì, sul materasso al centro del soggiorno, aperta, poche cose sparse al suo interno. Una strana sensazione mi strinse il cuore. Ingollai un antidolorifico e mi sdraiai cautamente sul divano, cercando di riflettere.

Mi addormentai. Verso le sei del pomeriggio mi svegliarono gli squilli insistenti del telefono fisso, strappandomi dalle maglie di un incubo. Cercando di evitare i movimenti bruschi mi alzai dal divano e afferrai la cornetta.

– Pronto? –

– Ehi, ma dove cazzo eri finito? – Il tono sinceramente sollevato nella voce di Paolo mi scaldò il cuore e per un attimo mi sentii bene.

Sospirai. -Una lunga storia. E tu? Che ti è successo quella sera? –

Ridacchiò. La risata di un adolescente. – Ti dico solo questo: studentesse svedesi. E ti ho detto tutto. –

– Sono felice per te. – E lo ero davvero.

– Ma dove eri sparito? – volle sapere.

– Te lo racconto quando torni a casa. Hai voglia di una pizza e di un film? –

– Ehm…adesso è un po’ un casino…-

Sentii delle voci in sottofondo, voci giovani. – Ho capito…Beh, fammi sapere quando torni, ok?-

Riattaccai. Mi venne da sorridere. Il vecchio Paolo.

Forse era tutto lì il segreto. Lasciarsi andare. Sperimentare. Partire con una valigetta non tua e dimenticare il dolore tra vecchie e nuove conoscenze.

In quell’appartamento c’era stata polvere, paura e insicurezza. A tratti un raggio di sole che entrava nel soggiorno, che illuminava il tavolino e che inspirava le tue storie. A volte, dietro a quelle volute di pulviscolo, mosse da invisibili aliti di vento, intravedevi nuove possibilità, nuove strade, modi di reinventarti. Quel teatro che era la tua vita, comparse che entravano e uscivano dalla scena, e non ti accorgevi di loro finché ti abbandonavano alla tua parte di copione. Quell’appartamento era la tua nuova vita, la polvere che si posava sulle cose e rendeva opachi gli oggetti, finché non ci passavi lo straccio sopra. E di questo gesto eroico cosa ti rimaneva? L’impressione di non aver fatto il necessario per evitare che accadesse, cancellare il Male, cacciarlo a suon di fendenti nel buco fetido da cui era emerso. Perché sarebbe tornato quel Male, ancora più forte, mentre tu ti saresti leccato le ferite nel tuo appartamento polveroso. Quelle Lisa che camminano da sole in un vicolo buio, quelle che non torneranno più a casa e non spegneranno le candeline, che non scatteranno foto al loro nuovo ragazzo, che non si lamenteranno dello stress al lavoro e che non andranno a ballare con le loro colleghe. Spiate dal Male nel buio di un locale, seguite fino in bagno, terrorizzate.

A queste donne dedico questo scritto. Alle loro delicate espressioni, ai segreti che celano, ai loro sorrisi. Al loro potere, alla loro fragilità. Questo mondo non vi merita. Ma rischierei la vita per difendere questa delicatezza.

  1. Januar 2017. Offizielle Übergabe im Weißen Haus. Trump wird der 45° Präsident der Vereinigten Staaten von Amerika.

 

Nachdem der amerikanische Präsident Donald Trump das neue Gesetz über die verbotenen Einreisen in die USA aus muslimischen Staaten der Welt bekanntmachte, haben sich viele Stimme gegen das Verbot erhoben. Denn es ist klar, dass das Gesetz den Terrorismus gar nicht verhindern kann, sondern es könnte die internationale Lage wohl nur erhitzen und die diplomatischen Beziehungen zwischen den USA und den betroffenen Staaten noch verschlimmern.

Donald Trump zeigt noch einmal sein wahres Gesicht, wobei vor einigen Tagen manche davon überzeugt waren, dass der Präsident sein Verhalten ein bisschen lindern würde. Leider haben sie sich getäuscht. Der neue Präsident, einer der einflussreichsten Personen der Welt, will seine Versprechen, die er während der Wahlkampagne bekanntgab, einhalten. Was seine Wähler sich selbstverständlich wünschten. Seine aggressive Außenpolitik neigt bedauerlicherweise zu einer Anspannung der internationalen Lage, zuungunsten der europäischen Union, zum Beispiel.

Die meisten UE Politiker fürchten um die Zukunft der diplomatischen und wirtschaftlichen Beziehungen zwischen den Ländern und den USA. Der Krieg in Syrien, der Dritte Weltkrieg unserer Zeit, wütet immer noch und bewegt Massen von Asylbewerbern und Flüchtlingen wie ein Fluss durch Europa und Ländern, die mit Syrien die Grenze teilen.

 

Zurück zu der Wahl. Wie konnte ein Mann wie Donald Trump, Unternehmer, angeblicher Millionär, berühmter Narzisst und Sexist, die Wahl gewinnen? Mit dieser Frage beschäftigen sich viele Leute in Europa und in den Vereinigten Staaten von Amerika selbst: Soziologen, Forscher, Künstler, Experte und Journalisten. Das Phänomen ereignet sich leider in anderen Ländern auch: berühmter Fall ist der Wahlsieg von Silvio Berlusconi in den ‘90er in Italien.

Donald Trump versprach den Wählern was die sich längst gewünscht haben: Mehr Sicherheit, Wirtschaftliche Unterstützung von dem Staat, kräftige Umstellung der Beziehung zwischen den USA und den anderen Staaten (nach dem Motto: make America great again), besonders was die EU betrifft, die bisher als starken Partner vorgesehen wurde.

Wozu könnte diese aggressive Politik führen?

Meiner Meinung nach könnte Donald Trump potenziell gefährlich sein, vorausgesetzt, dass er seinen Politikkurs einhält und dagegen kein Widerstand von dem Kongress geleistet werden wird.

Zu dem Einreise-Verbot-Gesetz haben sich einige geäußert, wie die New Yorker Richterin Donnelly, die das Einreiseverbot einschränkte. Außerdem gab es Demonstrationen und Proteste gegen die scharfe muslimfeindliche Politik Trumps.

Wirtschaftliche Verhältnisse zwischen Staaten, wie vorher schon beschrieben, könnten, aufgrund dieser autarken Maßnahmen des Donald Trump – Kreises, leicht in Gefahr geraten, woraufhin wichtige Vereinbarungen vermasseln. Das könnte zur Instabilität führen. Die Börse ist dabei verunsichert worden. Die mächtigen Personen in Europa schauen besorgt nach USA.

 

Die weißen Wähler, die Trump als Vertreter ausgewählt haben, sehen in dem Millionär eine Stimme des Volkes, die Sicherheit, Macht, maskuline Power und frischen Wind ins Land bringen soll. Das politisch inkorrekt Sein wird langsam ein attraktives Motto und findet einen guten, fruchtbaren Boden bei der verzweifelten Bevölkerung. Wie auch in Europa. AFD und Co. haben den Geruch der Angst  bei der Deutschen schon längst gespürt. Jetzt braucht das Volk ein klares Motto, ein deutliches Programm, wen interessiert wenn das politisch Inkorrekt ist.

Armut, Angst, Hass, muslimfeindliche Einstellung, Arbeitslosigkeit und hoffnungslose Erwartungen an die Zukunft: sind das nur Teile eines Denkens, das heutzutage die Welt prägen und zu einer wiederkehrenden Mentalität bringen, die in der Vergangenheit den Aufstieg einiger totalitären Regierungen ermöglichte.

Wie lange könnte es dauern, bis im Herzen Europas die Politiker der populistischen Parteien denselben guten Boden finden werden und die Pflanze des Hasses widerstandlos wachsen lassen? Was nun dann?

 

Ein Artikel von Claudio Stella.

Ich bedanke mich bei Sarah für die Korrektur des Textes.

 

Hamburg, 3-2-2017

Il telefono squillò. Uno, due, tre squilli. Mise giù.

Mi chiesi per quanto tempo sarebbe andato avanti. Cioè, non che non fosse il suo stile. Lo approvavo, il suo stile. Era quello stile che ti fa pensare… ecco,  questa persona, questo individuo… sì che ha stile. E l’altra persona dall’altro capo, ecco, quello ero io, rannicchiato sul parquet.

Quella sera il telefono squillò a più riprese. Doveva essere martedì. Quel martedì non dovevo andare al lavoro. Quel martedì avevo deciso di passarlo nel mio appartamento,  a…boh, non ricordo cosa feci in particolare. Tutto e niente. Ricordo che mi aprii una birra, dopodiché avevo perso il conto delle birre e avevo finito per sdraiarmi sul pavimento a riordinare i miei pensieri e a rollarmi una canna. Pessima idea. Finì che persi il conto delle cartine. D’altra parte l’affitto l’avevo già pagato. Questo voleva dire che era martedì.  Un martedì di metà mese. Sorrisi all’idea dell’affitto già pagato. Quei maledetti soldi. Che diavolo avranno di così importante questi soldi. Era l’argomento principale delle nostre discussioni. “Devi portare a casa più soldi! Più soldi!”. Certo amore. Per poi vedere quei soldi tramutarsi in scarpe di marca e giacche di pelle per riuscire a far colpo sui suoi colleghi.

In certi rapporti il confine tra mutualismo e parassitismo è davvero infinitamente sottile, tendente al nulla. Come feci a trascinarmi in quel rapporto umiliante me lo chiesi tempo dopo. Troppo tempo dopo. Sarà che amo umiliarmi, il sapore amaro della condiscendenza. Chi tra noi due fosse quello che soffriva di più non saprei dirmelo. A volte la sofferenza è come quel continuo gocciolio in bagno. All’inizio ti stufa, dopo un po’ di tempo ti fa impazzire. Poi, prima che ti alzi per dare di testa e spaccare a martellate il bagno, ti rassegni, ti rigiri un paio di volte e ti addormenti, fino a che quel gocciolio diventa, nella sua monotonia, un suono amico, ipnotizzante. Ecco, cosi si diventa schiavo di quel gocciolio, ti invade come l’effetto neve del televisore, diventi parte di esso. Finché passa un tuo amico e ti dice che per far cessare il gocciolio devi far riparare il rubinetto. “20 Euro e te lo cambio io!”, fa il tuo amico, ma per orgoglio ti rimbocchi le maniche e sistemi il tubo a costo di bagnarti.

Il telefono squillò ancora una volta, a lungo, poi cessò di importunarmi, e la notte proseguì silenziosa.

Come riparare un rubinetto che gocciola? Semplice, intraprendi l’azione e munisciti di coraggio. Se volete sapere se ho usato il martello, direi che siete fuori strada. Non è il mio stile. D’altra parte non ho dovuto assistere a scene nevrotiche. La sua sola preoccupazione erano i soldi. E il cane. Come avrebbe potuto andare avanti da sola? In quel momento capì che avevo preso la decisione giusta. Come sempre. Solo, mi serve tempo, e durante quel tempo, beh, evito di parlarne con qualcuno e mi allevo un tumore.

Mi finì l’erba. A quell’ ora doveva esserci di sicuro uno spacciatore dietro l’angolo, al chiosco turco. M’infilai la giacca. Doveva essere una lunga, seppur breve, passeggiata. Quella sera mi ero preparato il pesce panato e un po’ di aria fresca, libera dall’ olezzo del merluzzo fritto, mi avrebbe sicuramente fatto bene.

 

L’umanità, mi dissi, strascicando i piedi sull’ asfalto del marciapiede, l’umanità che gioca a nascondino dietro il display luminoso di uno smartphone. Dietro quel display c’è il mondo vero e il resto è solo realtà virtuale. Quanti amici conosco? Molti. Quanti ne vedo? Non molti. Su quanti posso contare? Tre, quattro? Compreso lo spacciatore?

Gli amici.

L’ultima volta che li vidi fu a Praga. Da quel momento in poi cose si mossero, cose successero. La sensazione di venire fuori da un guaio per affacciarsi in un mondo che nel frattempo ti è diventato estraneo e molte cose hanno perso importanza. Di essere lavato da un bus di passaggio in un mattino piovoso, boh, frega niente, ti viene fuori solo un “ma vaffanculo”, stiracchiato, quasi amichevole.

I rapporti tra persone sono difficili da comprendere. A confronto la fisica quantistica è un pallottoliere per bambini. Paragonabile a quella legge che governa il moto gravitazionale dei corpi celesti è la mia tendenza a far evolvere i rapporti in un collasso di massa verso il centro fino all’ implosione finale, verso quell’ unico punto centrale, il nucleo IO, denso e carico di energia oscura, dove la materia si comprime e diventa un buco nero. Quel buco nero sono io. Che poi nella realtà non ho molta massa. È sempre stato il mio problema, la massa. Un piccolo punticino che attira a sé i corpi che gravitano nelle sue vicinanze, li faccio danzare intorno a me, ma non li tengo a distanza, li attiro sempre di più fino a che oltrepassano l’orizzonte degli eventi e si fondono al mio nucleo. Chi distingue poi la materia mia da quella dei corpi celesti attirati?

Non amo le cose complicate. E non amo le implosioni. Non ci sono state battaglie. È stato relativamente facile.

 

L’erba che mi volle vendere il turco aveva un odore molto forte. La comprai per 20 Euro e me ne ritornai a casa, un appartamento al secondo piano. L’unico che puzzava di pesce fritto.

 

Dove eravamo rimasti?, feci al mio divano. Questi mi offrì i suoi morbidi fianchi e mi ci adagiai sopra, intento a rollarmene un’altra. A quanto ero arrivato?

 

Il campanello suonò. La porta. Mi svegliai intontito, la bocca impastata. “Si arrivo.”. Mi misi una specie di coperta sulle spalle. Doveva essere piuttosto tardi, i termosifoni erano freddi. Quando aprii mi trovai davanti una ragazza con i capelli lunghi e la faccia lunga da cerbiatto. “Eh, salve… eh”. La ragazza entrò senza dire una parola e chiuse la porta immediatamente, come se fosse inseguita da qualcuno. I suoi occhi da cerbiatto sulla sua faccia lunga da cerbiatto avevano visto un paio di fari pericolosi nella notte. Era bianca di spavento. Mi fece cenno di non parlare e seguii il suo ordine, mansueto. Dalla sorpresa mi andò su tutto in una volta l’effetto degli ultimi joints e mi sentii mancare. Decisi di fregarmene – avevo ben altri problemi – e mi recai in soggiorno dove mi lasciai cadere nuovamente, a peso morto, sul mio caro divano. Una porzione del mio cervello , piuttosto ridotta – l’altra parte era presa a gestire il trip – registrò dei movimenti sulle scale dell’appartamento e sul pianerottolo. Sentii delle voci, lingue sconosciute, dopodiché quelle voci se ne andarono a fanculo da un’altra parte e sparirono dal mio universo, come una infima scorreggia in un mattino invernale. Mi ripresi piano piano, e fu solo in quel momento che vidi la ragazza seduta sulla stuoia davanti al divano. Da quanto tempo era seduta lì?

“Eh scusa, dovevo un attimo sdraiarmi, mi fa male alzarmi di colpo, sai, ho la pressione un po’ bassa…”

La ragazza mi guardò per un attimo, senza aprire bocca.

“Cioè, non che abbia capito il motivo della tua intromissione, diciamo, però sono un tipo, beh, tranquillo, ‘nsomma…”. Mi mancarono le parole, così feci un cenno di pace e accoglienza che poteva facilmente essere interpretabile come un gesto di stizza o di uno che fa per alzarsi a seguito di una scarica di diarrea improvvisa.

“Ah beh, ecco, sei una di quelle che, beh, non parla molto, eh…beh, benvenuta nel club. Non ho niente di interessante da dire, perciò…ehm…vuoi che te ne rolli una?”

Fece un cenno di assenso con la testa, che ciondolò come quella di un cerbiatto che abbia appena scampato una fucilata dritta al cuore. Mi chiesi quanti anni poteva avere. Dai 19 ai 28. Io approssimo molto per eccesso, quindi poteva essere sui 23 anni. Pelle bianca, piuttosto bianca, forse terrorizzata. Feci caso solo in quel momento al suo aspetto. Aggraziato, ma anche molto deprivato. Forse affamata.

“Ehi, ho ancora del pesce fritto, magari hai fame, te lo vado a prendere.”

Per sicurezza mi portai la brocca dell’acqua, avevo letto da qualche parte che le persone in stato di shock hanno mota sete. E poi anche io ero in botta, palato secco come il deserto del Gobi e fame in rialzo. Il pesce non l’avevo scaldato, se aveva fame l’avrebbe mangiato anche freddo. Persino io ne avrei mangiato un po’.

La ragazza, sempre senza dire un granché, si fece fuori quasi tutto il pesce e mezza brocca d’acqua di rubinetto, come fosse il nettare degli dei. Intanto ne rollai un paio, una per me e una per lei. Viste le circostanze, non c’era abbastanza confidenza per dividerci uno spinello. Passammo parte della notte senza dirci niente, rinunciai ad ogni tentativo di comunicazione, ad un certo punto mi presi un Topolino dalla libreria e mi sdraiai sul divano a leggerlo. Tempo due minuti e mi cedettero le mani, addormentandomi con il Topolino sulla faccia. L’ultima volta che la vidi stava dormendo a faccia in giù sulla stuoia.

 

Inutile dire che quando mi svegliai la ragazza era sparita. Aveva lasciato il mio appartamento mentre sonnecchiavo con il Topolino sulla faccia, alla pagina dove Pluto e Pippo correvano su una Ferrari per andare ad una festa di Nonna Papera. Un mucchio di torte e la campagna. Dovevo aver sognato di aver partecipato al banchetto mentre Pippo si fumava il narghilè e il resto del parentame metteva alla prova l’arguzia di Topolino con un quiz a sorpresa.

 

Quel mercoledì ero andato al lavoro. E il giovedì anche. Poi arrivò venerdì. E il weekend. Poi lunedì. I giorni passarono senza essere degni di nota, non successe quasi niente, se non cose di ordinaria d’amministrazione. Una borsa della spesa che si rompeva a poche centinaia di metri da casa e un faro perso della bici. Un tostapane nuovo. Un film. Cibo cinese mal cotto e serata passata al cesso. Erba dal turco.

Dimenticai persino la faccia della ragazza, finché un giorno non presi il giornale locale dalla buca delle lettere e vidi una sua foto. Doveva essere una foto presa da Facebook. Una di quelle foto che ti commuovono già prima di leggere il titolo di cronaca nera. Lei aveva i capelli neri nella foto, un paio d’anni più giovane, forse anche meno preoccupata, un piercing sul labbro e un’amica accanto che sorrideva, i tratti pixelati per motivi di privacy. Trovata morta in un cortile, a pochi chilometri da dove vivo io, probabilmente assiderata. Qualcuno doveva averla ubriacata, violentata e poi scaricata quasi nuda in quel cortile grigio in una notte fredda di novembre. Aveva da poco compiuto 19 anni, diceva l’articolista. Lisa, il suo nome era Lisa. Un velo nero mi cadde sugli occhi e sull’anima. Mi venne da vomitare. Salii al mio piano, aprii la porta e la chiusi piano, senza far rumore, sul quel mondo freddo e incomprensibile. La testa mi ronzava. Andai in camera da letto, presi il sacchetto dell’erba, andai in bagno, rovesciai l’intero contenuto nel cesso e poi tirai l’acqua. Sul momento non riflettei sui motivi del gesto. In un qualche modo sapevo che era l’unica cosa giusta che potevo fare.

Diciannove anni, pensai. A quell’età mi beccavo con i miei amici per andare a fare rally nei boschi e bere birra. A quell’età mi chiedevo cosa sarei diventato una volta compiuti trent’anni e, oggi, quattro anni dopo quel traguardo, mi chiedevo cosa avrei potuto fare a 19 anni per poi non pentirmi del tempo perso a cincischiare e a farmi domande sul futuro. Diciannove anni e muori in un cazzo di cortile in una periferia di merda dopo che un gruppo di uomini ti ha violentato da ubriaca. Che vi devo dire? Che piansi lacrime amare? Che maledii la razza umana? No. Mi chiusi in un silenzio rassegnato, quello di una persona come tante che vive nel suo mondo, internamente dilaniato, ma pur sempre il figlio di questa generazione inutile e persa, rassegnata ad occupare un posto nel mondo volubile ed etereo, privo di congiunzione, convinti di fare del nostro meglio e di raggiungere una migliore consapevolezza di quello che significa Vita, fino a quando leggi un articolo su un cazzo di giornale locale e la tua mente va a farsi fottere per sempre. Vita. Per molti questa parola ha perso il suo significato.

 

Dicono che a volte basta uno sguardo per capire una persona.  Questo non successe con Lisa, 19 anni, capelli neri e profumati di shampoo, l’espressione da animale cacciato. Avevi dei braccialetti che tintinnavano ogni volta che ti spostavi la ciocca dal viso. Non riuscii a decifrarti, prima di accasciarmi sul divano con il Topolino sul viso. E in quel momento, mentre tornavo dal lavoro in bici, il tuo corpo era adagiato su una lastra di acciaio, aperto e ricucito, esaminato dal medico forense, bianco e fermo, come un fiore di gelsomino sorpreso dal gelo tardivo. Merda. Chi erano i tuoi genitori? Come avevano potuto accettare la tua scomparsa senza urlare il proprio feroce dolore, cosicché potessi sentirlo e sentirmi meno solo nei miei pensieri? Questa gente che aspettava il bus alle fermate, ti avevano mai visto per strada, avevano mai parlato con te? O ti avevano sorpreso mentre sorridevi fra te, persa nelle tue fantasie? Un sorriso probabilmente subito ricacciato indietro per timore di apparire come una adolescente sognatrice ai pedoni che incrociavano il tuo cammino. Che magari indovinano i tuoi pensieri, non si sa mai.

Arrivato a casa decisi di parcheggiare la bici attaccata al palo, anziché portarla in cantina. Salii le scale e, una volta arrivato nel mio appartamento da scapolo, accesi la radio e mi misi a cucinarmi del riso asiatico con verdure e uova.

Come fece Lisa ad entrare dal portone? Non poteva averlo trovato aperto alle due di notte. Molto improbabile. Chi la fece entrare? Queste domande mi vennero in mente per la prima volta. Davvero, molto improbabile che l’abbia trovato aperto. Aveva suonato a qualcuno? A me non di sicuro…mi avrebbe svegliato. Bussò ad altre porte prima di provare con la mia? Aveva una chiave del portone di sotto? Le questioni cominciarono a frullarmi nella testa e la cosa si stava classificando in un’altra categoria. Mettiamo che avesse avuto una chiave del portone…magari per l’accesso al locale delle bici in cantina? Molti “affittavano” il parcheggio della bici in cantina. Poteva essere molto probabile. Spensi il fuoco sotto la padella delle verdure e cercai un foglietto e una penna. Ritagliai la foto di Lisa dal giornale e lo incollai sul foglietto. Poi scrissi sotto una didascalia:

 

QUALCUNO DI VOI LE HA DATO LA CHIAVE DEL PORTONE?

 

Altro da scrivere non mi venne in mente. Aggiunsi poi che questa ragazza una settimana fa, verso le due di notte, aveva bussato alla mia porta, probabilmente era nei guai con qualcuno.

 

Poi mi venne in mente che, quella notte, avevo sentito dei passi nel pianerottolo, voci smorzate, che erano poi scomparse una volta che quelle persone discesero le scale e uscirono. Una coincidenza o erano stati proprio i suoi persecutori? E come erano entrati loro, dato che Lisa probabilmente si chiuse il portone alle spalle?

Decisi di non scrivere nient’altro. La testa mi ronzava e avevo fame. Consumai il mio pasto pensieroso, poi mi misi dei pantaloni più o meno puliti e scesi nell’androne per appendere il foglio. Proprio in quel momento uscì una donna da uno degli appartamenti al piano terra. Vide che trafficavo con la bacheca del condominio e si avvicinò strascicando le pantofole. Aveva una orribile vestaglia addosso e i capelli disordinati. E io che ero uscito con i pantaloni puliti.

– Cosa fa lì? –

– Eh beh, ho appeso un foglio…-

– Per cosa? Per le spese dell’imbianchino? Anch’io sono contro! –

– Eh no, ehm, una settimana fa è entrata una ragazza dal portone ed è salita da me, ehm…-

– A me, queste cose, non interessano, cosa fa lei nel suo privato! –

– Nono, ehi, signora, non intendevo quello, cioè, certo che è entrata nel mio appartamento…-

– Sono fatti suoi! – fece con un mezzo sorriso malizioso, guardandomi dall’alto in basso, cercando di celarmi un’espressione disgustata riguardo il mio abbigliamento.

– No, ecco, le spiego, questa donna è stata qualche giorno fa, ecco, brutalmente, ehm…-

La donna mutuò espressione, ora diventò guardinga e sospetta e si allontanò di un paio di passi.

– Ehm, c’è sui giornali, non l’ha letto l’articolo? –

– No. –

– Beh, aveva 19 anni, l’hanno assassinata, diciamo, l’hanno trovata, ehm, in un cortile… davvero non la sa questa storia? –

– Non leggo i giornali che legge lei. -, disse disgustata.

Ma vaffanculo, pensai. Feci spallucce e mi misi a trafficare con la cassetta della posta, mentre lei ancora stava lì a osservarmi da lontano, come una biologa osserva al microscopio un pezzo di escremento. Nella foga mi scivolò la posta sul pavimento, tra la quale spiccò la pubblicità di un noto bordello delle vicinanze. La donna in vestaglia mi voltò le spalle e sparì nel suo appartamento. “Ma perché cazzo eri uscita?”, mi chiesi. Raccolsi la mia posta da terra. Bollette e pubblicità di ristoranti cinesi e bordelli. Come se li visitassi entrambi. Come se avessi abbastanza soldi per andare a mangiare in ristoranti cinesi e farmi massaggiare da tailandesi sottili come fuscelli di bambù.

Una volta nell’ appartamento mi rimisi la tuta da casa e mi buttai sul divano, sollevando una nube di polvere che un raggio di sole dalla finestra illuminò in pieno. Mi misi ad osservare la danza del pulviscolo, ruminando pensieri. Poteva essere che…avesse trovato il portone eccezionalmente aperto quella notte, e che poi, nella fretta, non l’avesse lei stessa chiuso dietro di sé…e i tipi – almeno due secondo me – ne avessero approfittato per riprendere l’inseguimento. Oppure…

Cazzo!

E se fosse stata già dentro lo stabile, ospite di qualcuno degli inquilini? E se uno dei miei vicini fosse uno degli assassini? Quanti ne conoscevo personalmente? Quanti avrebbero il profilo del violentatore?

Io stesso, perché non andai dalla polizia per raccontare che Lisa era entrata nel mio appartamento? L’avrei potuta mettere su una buona traccia. E se la persona sbagliata avesse letto il foglio che avevo appeso in bacheca?

Porca …!

Infilai la porta e scesi le scale di corsa, quasi investendo un bambino con il suo roller, con un balzo fui davanti alla bacheca e…cazzo, il foglio! Il foglio era sparito! Lo cercai nel bidone della carta straccia, niente. Niente! Imprecai fra di me. Dieci minuti e la mia richiesta era già sparita! Sbattei un pugno sulla bacheca e un paio di avvisi caddero per terra. Maledizione! Dannato!

Me ne tornai nell’ appartamento abbattuto e con le pive nel sacco. Ero circondato da animali stupratori. Chi l’aveva strappato da lì? L’avevano eliminato, bruciato, mangiato? Dieci minuti e qualcuno stava già cercando di dedurre dalla mia grafia chi aveva ospitato quella notte la sua vittima, per poi eliminarmi! Ero un potenziale pericoloso testimone, dovesse la polizia condurre le proprie indagini nel palazzo.

La polizia! Dovevo andare dalla polizia e raccontare tutto.

 

Era un tipo biondo sui trent’anni, atletico e ben messo. Gentile, a suo modo. Per tutta la mia vita avevo avuto un certo pregiudizio verso i poliziotti, gli sbirri, maturato durante le mie frequentazioni nell’ambiente dell’anarchismo militante. Quel poliziotto lo trovavo addirittura simpatico. Alla fine sono esseri umani come noi. Probabilmente avevamo molto più cose in comune di quanto potessimo solamente azzardare.

– La sua deposizione è molto utile per il caso, in effetti. Perché non è venuto subito da noi? –

– Beh, ecco… posso avere ancora uno di quei rotolini di sfoglia alla cannella? –

– Certo! -, disse, spingendomi la scatola. – Vuole una tazza di caffè?-

– No grazie, non bevo caffè. –

– Come mai non è venuto subito a deporre? -. Un sorriso gli increspò il viso.

– Lessi questo articolo sul giornale, per un periodo ci rimasi un po’ sotto…-

– Prego?-

– Cioè, ci rimasi molto male, avevo brevemente conosciuto questa ragazza in una situazione a dir poco surreale, mmm, buoni questi Zimtrollen, ho avuto un periodo non molto bello, sa, pensando alla gente che fa queste cose, insomma, ho smesso di pensare, diciamo. Detta così sembra una roba strana, lo so, quando vengo colpito da queste cose, da questi eventi, smetto semplicemente di pensare. Non riesco a immaginarmi tanta malvagità in una persona…-

– Si, capisco cosa intende.- disse il poliziotto, F. Helmek, secondo la targhetta sulla sua scrivania.

– Così oggi ho deciso di muovermi, mi chiedevo come fosse riuscita ad entrare nello stabile, ho appeso questo foglietto oggi pomeriggio e dopo dieci minuti, neanche il tempo di sorseggiarmi un the che era già sparito dalla bacheca.-

-Perché è tornato sotto alla bacheca dopo dieci minuti?- chiese astutamente F. Helmek.

-Perché ad un certo punto mi è venuto in mente che, ipoteticamente, poteva essere Lisa ospite di qualche mio vicino, che questa possibilità era magari più probabile di quella di avere lei stessa una chiave del portone o di aver trovato il portone già aperto. Anche perché, dopo che l’ebbi fatta entrare in casa, sentimmo subito dei passi sulle scale e sul pianerottolo, che poi si dileguarono. La ragazza, il mattino presto, era tra l’altro già sparita, come se avesse paura di rimanere troppo tempo da me.- Mi pulii le mani impiastricciate sulla maglietta, prima che una poliziotta che assisteva alla deposizione mi passasse delle salviette profumate. -Eh grazie.-

-Ci racconti ancora una volta di quel lasso di tempo in cui Lisa rimase nel suo appartamento. Magari nel frattempo le vengono in mente altri dettagli.-

-Come ho detto, è entrata trafelata, senza dire una parola, e non ha parlato per tutto il tempo, neanche una sillaba. Ho pensato fosse muta o qualcosa del genere. Appariva molto scossa e impaurita. Inoltre pensavo fosse più vecchia, intorno ai 24-25 anni. Quando ho letto che aveva solo 19 anni mi è venuto un colpo. Sembrava una donna già fatta e finita.-

-In che senso? Motivi la sua posizione.- chiese la poliziotta. Helmek fece un cenno per farle intendere che la domanda era azzeccata. Magari era una tirocinante.

-Nel senso che come era vestita, truccata, come si poneva, mi dava l’idea che fosse una donna matura, magari terrorizzata, ma con una certa esperienza. Questa fu la mia conclusione. Ma forse erano solo le rughe della preoccupazione.-

-Cosa ha fatto lei per calmarla?- chiese la tirocinante, ormai lanciata.

-Una tisana per me e per lei, le ho parlato un po’, lei rispondeva a cenni. All’ improvviso sembrò solo molto stanca. Dato che non parlava mi sono messo lì, ehm, beh si le ho preparato una… ehm…-

I poliziotti mi guardarono con una espressione interrogativa.

-Beh, mi sa che devo dirlo, avrete già fatto delle analisi tossicologiche…ehm…- diventai all’improvviso paonazzo, sull’orlo di una crisi di panico. “In quale cazzo di problema ti stai andando a cacciare!” -Insomma, le ho fatto una canna, me la stavo preparando per me così gliel’ho girata anche per lei.- sbottai all’improvviso, ormai non più capace di tenermi quella cosa per me. Sono fatto così, non riesco a tacere le cose, e quando ti trovi un poliziotto davanti, che per formazione sa come tradurre i messaggi del corpo e scovare le bugie e le verità taciute, la tentazione di svuotare il sacco è più forte di me.

I poliziotti fissarono lo sguardo su di me, come per cercare di strapparmi altre confessioni su peccati commessi. L’attesa fu snervante. Il silenzio peggio che snervante.

Helmek alla fine parlò.

-Sono parecchi anni che il consumo personale non è considerato un reato, signor S.-, e un mezzo sorriso emerse dalle loro facce. -Ma ha fatto bene a dircelo lo stesso.-

Tirai un sospiro di sollievo. -Ma sapete qualcosa di questa ragazza? Avete parlato con i genitori?-

-Non siamo tenuti a parlare di questi dettagli con lei, Mister. Si stanno svolgendo delle indagini sul territorio, specialmente nell’area in cui si è consumato il delitto, probabilmente lo stesso in cui è stato abbandonato il corpo della ragazza. Ora però con la sua testimonianza possiamo allargare il raggio delle nostre ricerche. In questi giorni verremo a fare delle domande agli inquilini del suo stabile, ci farebbe piacere se quel giorno fosse presente per farci entrare nel suo appartamento e raccogliere dati più precisi. Ma può essere che il delitto abbia poco a che fare on l’evento che ci ha descritto.-

-Ci sono di solito nel pomeriggio verso le cinque.-

– Grazie ma ci faremo vivi noi e le comunicheremo quando passeremo. Probabile che saranno altri colleghi a fare il sopralluogo.-

-Sopralluogo?-

-Il suo appartamento è a tutti gli affetti oggetto di una indagine di polizia.-

Mi sentii all’improvviso male al pensiero del mio appartamento pieno di sbirri.

Helmek capì subito dalla mia espressione cosa mi passava per la testa. -Non c’è bisogno che si sbarazzi dell’erba.-

-Beh, in realtà l’ho già fatto parecchio tempo fa.-

-Perché?- chiese lui, sottilmente divertito.

-Ho deciso di smettere.-

-Bene. Fa bene. Oltretutto non è facile.- e mi fece l’occhiolino. La ragazza si girò per ridacchiare.

 

Con un Zimtrolle in una mano e i miei documenti personali nell’ altra mi incamminai verso casa. Era un giorno grigio come un altro nella periferia di Amburgo. La polizia si fece viva il giorno dopo verso l’una del pomeriggio, avevano una certa fretta ma svolsero le loro indagini con professionalità e correttezza. Visitarono il mio appartamento, bevvero un the (non avevo una macchina del caffè), fecero alcune domande, dopodiché fissarono un appuntamento da un certo psicologo. Fissai il biglietto da visita con l’appuntamento scribacchiato sopra, mi sarei dovuto presentare alle 18 di un venerdì tra due settimane, da un certo Phillip Broker. Non feci altre domande, e me ne frullarono molte in testa. Loro si congedarono e mi lasciarono solo con i miei pensieri. Andai in bagno e mi guardai allo specchio. Mi chiesi, che impressione do alle persone?

 

Quel venerdì non andai dallo psicologo. Conobbi una tipa. Smisi con l’erba. Insomma, ci sono altri modi per raggiungere il Nirvana, e uno di questi era fare del buon sesso, come se non ci fosse un domani, su una base rilassata e senza impegni. Poi vederne altre, uscire. Cominciai a mantenermi in forma, a fare sport. Quando coltivi l’hobby del sesso cominci a pensare a come far girare il motore costantemente a tremila giri senza perdere colpi, per cui curi la carriola che ti fa viaggiare. Diventa una droga, la prendi un paio di volte al giorno, ti scaldi dentro quell’esperienza, poi torni a casa e vedi le cose da un altro punto di vista. Quando manca esci fuori a cercarne dell’altra, basta quella sensazione di uscire e conoscere nuove personalità, nuovi punti di vista, bersi una birra e ridere con un’estranea di certe cose che fanno ridere solo gli estranei, o forse no. Ehi, ma io ti conosco, pensi. Dimentichi quel buco nero che eri prima ed esplodi come una supernova, diffondendo energia intorno a te. Ma un porto sicuro bisogna averlo. Con la tipa era cosi. Anche per lei ero un porto, credo, forse per il modo in cui le massaggiavo le spalle e poi scendevo lentamente in fondo. Sono un tipo disponibile, forse troppo.

 

Lisa rimase in un angolo della mia testa, a fare ogni tanto capolino, soprattutto durante la notte, a tormentarmi con i sensi di colpa che solo un uomo può provare a causa dei suoi merdosi simili. Per un periodo smisi di pensarci, ma quando mi capitava di vedere una ragazza con i capelli neri della sua età dovevo combattere contro l’istinto di scaraventarla fuori dalla S-Bahn e dirle di scappare e trovarsi un posto sicuro, magari darle il mio indirizzo, come se la metro fosse piena di zombie stupratori e assassini e casa mia fosse per una estranea il posto adatto in assoluto per la sua sicurezza. Iniziai a considerare l’idea di fondare un gruppo di autodifesa per ragazze, insegnare loro come annientare un paio di ragazzi con un paio di semplici mosse di karate, mirando alle parti basse, dopo aver individuato le vie di fuga. Con disciplina e preparazione se la sarebbero cavata, avrebbero vinto il cattivo. Anche da sole.

Intanto furono seviziate e ammazzate altre ragazze, in altre città, in altre regioni. Ragazze che andavano a correre e poi non tornavano più a casa, che tornavano in bici da una festa e poi finivano dentro un fiume, tracce di violenza su un corpo non ancora formato, l’acqua fredda ingoiava famiglie annientate dal dolore, senza comprendere il perché di tanta malignità. A leggere gli articoli di giornale cominciai a coltivare un odio efferato contro il mio stesso genere. Di solito gli assassini venivano beccati, altri no, altri continuavano la loro vita senza provare alcuna traccia di colpa. Una tirocinante della polizia fu trovata apparentemente suicida in un bosco qui vicino, l’arma di ordinanza vicino al corpo. L’ultima immagine della ragazza fu ripresa da una telecamera di una stazione della metro a Bergedorf. Leggeva un sms sul cellulare. Si era data malata e aveva trattenuto la pistola, cosa che in genere richiede una procedura precisa. Si era davvero cercata un posto isolato per togliersi la vita? Perché? A 22 anni? Percorrendo svariati chilometri con la metro e finire la sua vita in un vecchio cimitero abbandonato? Queste domande non trovarono risposta, ma sentii che una parte di me andava via via sempre più lacerandosi, a seguito dell’incontro con Lisa. Come se da quel momento in poi si fosse aperta una ferita che non si sarebbe mai più rimarginata.

 

Era una domenica mattina. Scivolai in bagno come un cretino e mi ferii allo stinco battendo contro il bordo del piatto doccia. Fece un male cane. Non potei urlare, qualche giorno prima si era trasferito da me un ragazzo, condividevamo gli spazi e l’affitto. Trattenni il respiro e mi lasciai cadere sul pavimento, stringendo l’asciugamano fra i denti. Sentii le prime avvisaglie di un mancamento (il dolore era un’esplosione atomica nel cervello), per non scivolare nell’incoscienza strinsi i pugni e provai a infilarmi le mutande e i pantaloni. Avevo un buco largo un centimetro e profondo mezzo al centro dello stinco.

Strisciai fuori dal bagno, il dolore piano piano si attenuò e divenne sopportabile.

 

La sera mi vidi con una ragazza conosciuta su una di quelle piattaforme per single. Alla fine un recipiente di personalità varie, capace di racchiudere un universo umano completo. Tramite questa conobbi S., la tipa con cui mi vedevo regolarmente e a cui facevo quei meravigliosi massaggi.

Questa ragazza aveva spostato innumerevoli volte l’appuntamento e a sentirla per telefono, quel suo tono senza ondulazioni, monotono, pareva aver imboccato l’uscita da una vita regolare già da tempo. Comunque ci vedemmo a Sankt Pauli, vicino alla Reeperbahn.

La prima cosa che mi disse fu: – Non abbiamo molto tempo. –

Ci prendemmo un paio di Gluehwein e ci sedemmo sugli scalini di un ristorante asiatico. Fu una piacevole serata. Aldilà che sembrava di parlare con un robot, per la monotonia della sua parlata. Mi disse che era dell’est. Forse parlano così quelli dell’est, ma non credo. Parlammo del suo lavoro, dei suoi hobbies (pochi), variava da un tono formale ad uno fin troppo “aperto”. – Mi piaci. Sembri un tipo simpatico. -, disse, e mi ricordò Al, il computer di “1999. Odissea nello Spazio”. Mi immaginai la sua voce diventare sempre più profonda e lenta, a causa della mancanza di energia.

– Dove vai adesso? – mi chiese, una volta congedatoci con un abbraccio.

– Credo a casa…non so –

– Se vuoi ti accompagno fino alla stazione della S- Bahn…-

In un primo tempo accettai, poi parlammo d’altro e alla fine decisi di rimanere ancora un po’ in zona, a farmi una passeggiata, magari prendermi qualcosa da mangiare. Comprai un Doener, dopo averlo sbocconcellato lo gettai nella spazzatura, avevo masticato cose strane, dalla consistenza di cartilagine triturata. Mi ripromisi di non mangiarne mai più. Tempo fa fui vegetariano.

Chiamai S. al telefono, risultò spento. Mi richiamò tempo dopo, mentre sedevo sulla metro in direzione Harburg.

Ripensando alla mia vita di prima, a come era vuota di emozioni, di imprese. Quella sera tornavo da un Date, avevo organizzato una cena per il giorno dopo con S., probabilmente il mio nuovo inquilino si sarebbe aggregato alla cena, e forse avrei dovuto procurarmi una sedia in più da Ikea. Il venerdì sera passato con il mio amico Lars e i suoi compagni da Berlino. A come le cose si evolvono, cose che succedono, come ho detto.

 

A questo punto vi starete chiedendo chi mi telefonò quella sera in cui conobbi la defunta Lisa. Ecco, ipotizzai chi. Lasciai squillare il telefono, fino a che l’interlocutore mise giù. Ma non guardai sullo schermo. Di solito quella persona telefonava con numero privato. Avevo una Stalker. Una tipa sui 50 anni. Mi telefonava nelle ore più assurde e mi raccontava quello che aveva fatto durante la sua giornata. Una volta mi raccontò di aver sorpreso uno che cagava in un prato. Poi dei vestiti che indossava. Di come si sentiva da sola a casa e che doveva assolutamente passare a trovarmi. Fortunatamente non era possibile rintracciare il mio indirizzo attraverso il numero. Ammiravo il suo stile. Il suo moto perpetuo, la sua cadenza regolare. Racchiusa nel suo bozzolo di solitudine, perseguitata dalla sua stessa fame di relazione. Ricordava a volte me stesso. Solo che io ero in fuga dal mio Io grazie alla legge della forza centrifuga, lei gravitava attorno alla sua disperazione come un satellite abbandonato. Doveva aver sicuramente una lista bella lunga di vittime. Il mio numero l’aveva trovato grazie ad un annuncio su internet. Ho imparato la mia lezione. Ultimamente stacco la spina del telefono.

 

Un mese dopo, per curiosità, scorsi il menu delle chiamate del telefono. Il numero non era privato. Veniva dall’Italia.