La linea occupata – Parte Prima –

dicembre 5, 2016

Il telefono squillò. Uno, due, tre squilli. Mise giù.

Mi chiesi per quanto tempo sarebbe andato avanti. Cioè, non che non fosse il suo stile. Lo approvavo, il suo stile. Era quello stile che ti fa pensare… ecco,  questa persona, questo individuo… sì che ha stile. E l’altra persona dall’altro capo, ecco, quello ero io, rannicchiato sul parquet.

Quella sera il telefono squillò a più riprese. Doveva essere martedì. Quel martedì non dovevo andare al lavoro. Quel martedì avevo deciso di passarlo nel mio appartamento,  a…boh, non ricordo cosa feci in particolare. Tutto e niente. Ricordo che mi aprii una birra, dopodiché avevo perso il conto delle birre e avevo finito per sdraiarmi sul pavimento a riordinare i miei pensieri e a rollarmi una canna. Pessima idea. Finì che persi il conto delle cartine. D’altra parte l’affitto l’avevo già pagato. Questo voleva dire che era martedì.  Un martedì di metà mese. Sorrisi all’idea dell’affitto già pagato. Quei maledetti soldi. Che diavolo avranno di così importante questi soldi. Era l’argomento principale delle nostre discussioni. “Devi portare a casa più soldi! Più soldi!”. Certo amore. Per poi vedere quei soldi tramutarsi in scarpe di marca e giacche di pelle per riuscire a far colpo sui suoi colleghi.

In certi rapporti il confine tra mutualismo e parassitismo è davvero infinitamente sottile, tendente al nulla. Come feci a trascinarmi in quel rapporto umiliante me lo chiesi tempo dopo. Troppo tempo dopo. Sarà che amo umiliarmi, il sapore amaro della condiscendenza. Chi tra noi due fosse quello che soffriva di più non saprei dirmelo. A volte la sofferenza è come quel continuo gocciolio in bagno. All’inizio ti stufa, dopo un po’ di tempo ti fa impazzire. Poi, prima che ti alzi per dare di testa e spaccare a martellate il bagno, ti rassegni, ti rigiri un paio di volte e ti addormenti, fino a che quel gocciolio diventa, nella sua monotonia, un suono amico, ipnotizzante. Ecco, cosi si diventa schiavo di quel gocciolio, ti invade come l’effetto neve del televisore, diventi parte di esso. Finché passa un tuo amico e ti dice che per far cessare il gocciolio devi far riparare il rubinetto. “20 Euro e te lo cambio io!”, fa il tuo amico, ma per orgoglio ti rimbocchi le maniche e sistemi il tubo a costo di bagnarti.

Il telefono squillò ancora una volta, a lungo, poi cessò di importunarmi, e la notte proseguì silenziosa.

Come riparare un rubinetto che gocciola? Semplice, intraprendi l’azione e munisciti di coraggio. Se volete sapere se ho usato il martello, direi che siete fuori strada. Non è il mio stile. D’altra parte non ho dovuto assistere a scene nevrotiche. La sua sola preoccupazione erano i soldi. E il cane. Come avrebbe potuto andare avanti da sola? In quel momento capì che avevo preso la decisione giusta. Come sempre. Solo, mi serve tempo, e durante quel tempo, beh, evito di parlarne con qualcuno e mi allevo un tumore.

Mi finì l’erba. A quell’ ora doveva esserci di sicuro uno spacciatore dietro l’angolo, al chiosco turco. M’infilai la giacca. Doveva essere una lunga, seppur breve, passeggiata. Quella sera mi ero preparato il pesce panato e un po’ di aria fresca, libera dall’ olezzo del merluzzo fritto, mi avrebbe sicuramente fatto bene.

 

L’umanità, mi dissi, strascicando i piedi sull’ asfalto del marciapiede, l’umanità che gioca a nascondino dietro il display luminoso di uno smartphone. Dietro quel display c’è il mondo vero e il resto è solo realtà virtuale. Quanti amici conosco? Molti. Quanti ne vedo? Non molti. Su quanti posso contare? Tre, quattro? Compreso lo spacciatore?

Gli amici.

L’ultima volta che li vidi fu a Praga. Da quel momento in poi cose si mossero, cose successero. La sensazione di venire fuori da un guaio per affacciarsi in un mondo che nel frattempo ti è diventato estraneo e molte cose hanno perso importanza. Di essere lavato da un bus di passaggio in un mattino piovoso, boh, frega niente, ti viene fuori solo un “ma vaffanculo”, stiracchiato, quasi amichevole.

I rapporti tra persone sono difficili da comprendere. A confronto la fisica quantistica è un pallottoliere per bambini. Paragonabile a quella legge che governa il moto gravitazionale dei corpi celesti è la mia tendenza a far evolvere i rapporti in un collasso di massa verso il centro fino all’ implosione finale, verso quell’ unico punto centrale, il nucleo IO, denso e carico di energia oscura, dove la materia si comprime e diventa un buco nero. Quel buco nero sono io. Che poi nella realtà non ho molta massa. È sempre stato il mio problema, la massa. Un piccolo punticino che attira a sé i corpi che gravitano nelle sue vicinanze, li faccio danzare intorno a me, ma non li tengo a distanza, li attiro sempre di più fino a che oltrepassano l’orizzonte degli eventi e si fondono al mio nucleo. Chi distingue poi la materia mia da quella dei corpi celesti attirati?

Non amo le cose complicate. E non amo le implosioni. Non ci sono state battaglie. È stato relativamente facile.

 

L’erba che mi volle vendere il turco aveva un odore molto forte. La comprai per 20 Euro e me ne ritornai a casa, un appartamento al secondo piano. L’unico che puzzava di pesce fritto.

 

Dove eravamo rimasti?, feci al mio divano. Questi mi offrì i suoi morbidi fianchi e mi ci adagiai sopra, intento a rollarmene un’altra. A quanto ero arrivato?

 

Il campanello suonò. La porta. Mi svegliai intontito, la bocca impastata. “Si arrivo.”. Mi misi una specie di coperta sulle spalle. Doveva essere piuttosto tardi, i termosifoni erano freddi. Quando aprii mi trovai davanti una ragazza con i capelli lunghi e la faccia lunga da cerbiatto. “Eh, salve… eh”. La ragazza entrò senza dire una parola e chiuse la porta immediatamente, come se fosse inseguita da qualcuno. I suoi occhi da cerbiatto sulla sua faccia lunga da cerbiatto avevano visto un paio di fari pericolosi nella notte. Era bianca di spavento. Mi fece cenno di non parlare e seguii il suo ordine, mansueto. Dalla sorpresa mi andò su tutto in una volta l’effetto degli ultimi joints e mi sentii mancare. Decisi di fregarmene – avevo ben altri problemi – e mi recai in soggiorno dove mi lasciai cadere nuovamente, a peso morto, sul mio caro divano. Una porzione del mio cervello , piuttosto ridotta – l’altra parte era presa a gestire il trip – registrò dei movimenti sulle scale dell’appartamento e sul pianerottolo. Sentii delle voci, lingue sconosciute, dopodiché quelle voci se ne andarono a fanculo da un’altra parte e sparirono dal mio universo, come una infima scorreggia in un mattino invernale. Mi ripresi piano piano, e fu solo in quel momento che vidi la ragazza seduta sulla stuoia davanti al divano. Da quanto tempo era seduta lì?

“Eh scusa, dovevo un attimo sdraiarmi, mi fa male alzarmi di colpo, sai, ho la pressione un po’ bassa…”

La ragazza mi guardò per un attimo, senza aprire bocca.

“Cioè, non che abbia capito il motivo della tua intromissione, diciamo, però sono un tipo, beh, tranquillo, ‘nsomma…”. Mi mancarono le parole, così feci un cenno di pace e accoglienza che poteva facilmente essere interpretabile come un gesto di stizza o di uno che fa per alzarsi a seguito di una scarica di diarrea improvvisa.

“Ah beh, ecco, sei una di quelle che, beh, non parla molto, eh…beh, benvenuta nel club. Non ho niente di interessante da dire, perciò…ehm…vuoi che te ne rolli una?”

Fece un cenno di assenso con la testa, che ciondolò come quella di un cerbiatto che abbia appena scampato una fucilata dritta al cuore. Mi chiesi quanti anni poteva avere. Dai 19 ai 28. Io approssimo molto per eccesso, quindi poteva essere sui 23 anni. Pelle bianca, piuttosto bianca, forse terrorizzata. Feci caso solo in quel momento al suo aspetto. Aggraziato, ma anche molto deprivato. Forse affamata.

“Ehi, ho ancora del pesce fritto, magari hai fame, te lo vado a prendere.”

Per sicurezza mi portai la brocca dell’acqua, avevo letto da qualche parte che le persone in stato di shock hanno mota sete. E poi anche io ero in botta, palato secco come il deserto del Gobi e fame in rialzo. Il pesce non l’avevo scaldato, se aveva fame l’avrebbe mangiato anche freddo. Persino io ne avrei mangiato un po’.

La ragazza, sempre senza dire un granché, si fece fuori quasi tutto il pesce e mezza brocca d’acqua di rubinetto, come fosse il nettare degli dei. Intanto ne rollai un paio, una per me e una per lei. Viste le circostanze, non c’era abbastanza confidenza per dividerci uno spinello. Passammo parte della notte senza dirci niente, rinunciai ad ogni tentativo di comunicazione, ad un certo punto mi presi un Topolino dalla libreria e mi sdraiai sul divano a leggerlo. Tempo due minuti e mi cedettero le mani, addormentandomi con il Topolino sulla faccia. L’ultima volta che la vidi stava dormendo a faccia in giù sulla stuoia.

 

Inutile dire che quando mi svegliai la ragazza era sparita. Aveva lasciato il mio appartamento mentre sonnecchiavo con il Topolino sulla faccia, alla pagina dove Pluto e Pippo correvano su una Ferrari per andare ad una festa di Nonna Papera. Un mucchio di torte e la campagna. Dovevo aver sognato di aver partecipato al banchetto mentre Pippo si fumava il narghilè e il resto del parentame metteva alla prova l’arguzia di Topolino con un quiz a sorpresa.

 

Quel mercoledì ero andato al lavoro. E il giovedì anche. Poi arrivò venerdì. E il weekend. Poi lunedì. I giorni passarono senza essere degni di nota, non successe quasi niente, se non cose di ordinaria d’amministrazione. Una borsa della spesa che si rompeva a poche centinaia di metri da casa e un faro perso della bici. Un tostapane nuovo. Un film. Cibo cinese mal cotto e serata passata al cesso. Erba dal turco.

Dimenticai persino la faccia della ragazza, finché un giorno non presi il giornale locale dalla buca delle lettere e vidi una sua foto. Doveva essere una foto presa da Facebook. Una di quelle foto che ti commuovono già prima di leggere il titolo di cronaca nera. Lei aveva i capelli neri nella foto, un paio d’anni più giovane, forse anche meno preoccupata, un piercing sul labbro e un’amica accanto che sorrideva, i tratti pixelati per motivi di privacy. Trovata morta in un cortile, a pochi chilometri da dove vivo io, probabilmente assiderata. Qualcuno doveva averla ubriacata, violentata e poi scaricata quasi nuda in quel cortile grigio in una notte fredda di novembre. Aveva da poco compiuto 19 anni, diceva l’articolista. Lisa, il suo nome era Lisa. Un velo nero mi cadde sugli occhi e sull’anima. Mi venne da vomitare. Salii al mio piano, aprii la porta e la chiusi piano, senza far rumore, sul quel mondo freddo e incomprensibile. La testa mi ronzava. Andai in camera da letto, presi il sacchetto dell’erba, andai in bagno, rovesciai l’intero contenuto nel cesso e poi tirai l’acqua. Sul momento non riflettei sui motivi del gesto. In un qualche modo sapevo che era l’unica cosa giusta che potevo fare.

Diciannove anni, pensai. A quell’età mi beccavo con i miei amici per andare a fare rally nei boschi e bere birra. A quell’età mi chiedevo cosa sarei diventato una volta compiuti trent’anni e, oggi, quattro anni dopo quel traguardo, mi chiedevo cosa avrei potuto fare a 19 anni per poi non pentirmi del tempo perso a cincischiare e a farmi domande sul futuro. Diciannove anni e muori in un cazzo di cortile in una periferia di merda dopo che un gruppo di uomini ti ha violentato da ubriaca. Che vi devo dire? Che piansi lacrime amare? Che maledii la razza umana? No. Mi chiusi in un silenzio rassegnato, quello di una persona come tante che vive nel suo mondo, internamente dilaniato, ma pur sempre il figlio di questa generazione inutile e persa, rassegnata ad occupare un posto nel mondo volubile ed etereo, privo di congiunzione, convinti di fare del nostro meglio e di raggiungere una migliore consapevolezza di quello che significa Vita, fino a quando leggi un articolo su un cazzo di giornale locale e la tua mente va a farsi fottere per sempre. Vita. Per molti questa parola ha perso il suo significato.

 

Dicono che a volte basta uno sguardo per capire una persona.  Questo non successe con Lisa, 19 anni, capelli neri e profumati di shampoo, l’espressione da animale cacciato. Avevi dei braccialetti che tintinnavano ogni volta che ti spostavi la ciocca dal viso. Non riuscii a decifrarti, prima di accasciarmi sul divano con il Topolino sul viso. E in quel momento, mentre tornavo dal lavoro in bici, il tuo corpo era adagiato su una lastra di acciaio, aperto e ricucito, esaminato dal medico forense, bianco e fermo, come un fiore di gelsomino sorpreso dal gelo tardivo. Merda. Chi erano i tuoi genitori? Come avevano potuto accettare la tua scomparsa senza urlare il proprio feroce dolore, cosicché potessi sentirlo e sentirmi meno solo nei miei pensieri? Questa gente che aspettava il bus alle fermate, ti avevano mai visto per strada, avevano mai parlato con te? O ti avevano sorpreso mentre sorridevi fra te, persa nelle tue fantasie? Un sorriso probabilmente subito ricacciato indietro per timore di apparire come una adolescente sognatrice ai pedoni che incrociavano il tuo cammino. Che magari indovinano i tuoi pensieri, non si sa mai.

Arrivato a casa decisi di parcheggiare la bici attaccata al palo, anziché portarla in cantina. Salii le scale e, una volta arrivato nel mio appartamento da scapolo, accesi la radio e mi misi a cucinarmi del riso asiatico con verdure e uova.

Come fece Lisa ad entrare dal portone? Non poteva averlo trovato aperto alle due di notte. Molto improbabile. Chi la fece entrare? Queste domande mi vennero in mente per la prima volta. Davvero, molto improbabile che l’abbia trovato aperto. Aveva suonato a qualcuno? A me non di sicuro…mi avrebbe svegliato. Bussò ad altre porte prima di provare con la mia? Aveva una chiave del portone di sotto? Le questioni cominciarono a frullarmi nella testa e la cosa si stava classificando in un’altra categoria. Mettiamo che avesse avuto una chiave del portone…magari per l’accesso al locale delle bici in cantina? Molti “affittavano” il parcheggio della bici in cantina. Poteva essere molto probabile. Spensi il fuoco sotto la padella delle verdure e cercai un foglietto e una penna. Ritagliai la foto di Lisa dal giornale e lo incollai sul foglietto. Poi scrissi sotto una didascalia:

 

QUALCUNO DI VOI LE HA DATO LA CHIAVE DEL PORTONE?

 

Altro da scrivere non mi venne in mente. Aggiunsi poi che questa ragazza una settimana fa, verso le due di notte, aveva bussato alla mia porta, probabilmente era nei guai con qualcuno.

 

Poi mi venne in mente che, quella notte, avevo sentito dei passi nel pianerottolo, voci smorzate, che erano poi scomparse una volta che quelle persone discesero le scale e uscirono. Una coincidenza o erano stati proprio i suoi persecutori? E come erano entrati loro, dato che Lisa probabilmente si chiuse il portone alle spalle?

Decisi di non scrivere nient’altro. La testa mi ronzava e avevo fame. Consumai il mio pasto pensieroso, poi mi misi dei pantaloni più o meno puliti e scesi nell’androne per appendere il foglio. Proprio in quel momento uscì una donna da uno degli appartamenti al piano terra. Vide che trafficavo con la bacheca del condominio e si avvicinò strascicando le pantofole. Aveva una orribile vestaglia addosso e i capelli disordinati. E io che ero uscito con i pantaloni puliti.

– Cosa fa lì? –

– Eh beh, ho appeso un foglio…-

– Per cosa? Per le spese dell’imbianchino? Anch’io sono contro! –

– Eh no, ehm, una settimana fa è entrata una ragazza dal portone ed è salita da me, ehm…-

– A me, queste cose, non interessano, cosa fa lei nel suo privato! –

– Nono, ehi, signora, non intendevo quello, cioè, certo che è entrata nel mio appartamento…-

– Sono fatti suoi! – fece con un mezzo sorriso malizioso, guardandomi dall’alto in basso, cercando di celarmi un’espressione disgustata riguardo il mio abbigliamento.

– No, ecco, le spiego, questa donna è stata qualche giorno fa, ecco, brutalmente, ehm…-

La donna mutuò espressione, ora diventò guardinga e sospetta e si allontanò di un paio di passi.

– Ehm, c’è sui giornali, non l’ha letto l’articolo? –

– No. –

– Beh, aveva 19 anni, l’hanno assassinata, diciamo, l’hanno trovata, ehm, in un cortile… davvero non la sa questa storia? –

– Non leggo i giornali che legge lei. -, disse disgustata.

Ma vaffanculo, pensai. Feci spallucce e mi misi a trafficare con la cassetta della posta, mentre lei ancora stava lì a osservarmi da lontano, come una biologa osserva al microscopio un pezzo di escremento. Nella foga mi scivolò la posta sul pavimento, tra la quale spiccò la pubblicità di un noto bordello delle vicinanze. La donna in vestaglia mi voltò le spalle e sparì nel suo appartamento. “Ma perché cazzo eri uscita?”, mi chiesi. Raccolsi la mia posta da terra. Bollette e pubblicità di ristoranti cinesi e bordelli. Come se li visitassi entrambi. Come se avessi abbastanza soldi per andare a mangiare in ristoranti cinesi e farmi massaggiare da tailandesi sottili come fuscelli di bambù.

Una volta nell’ appartamento mi rimisi la tuta da casa e mi buttai sul divano, sollevando una nube di polvere che un raggio di sole dalla finestra illuminò in pieno. Mi misi ad osservare la danza del pulviscolo, ruminando pensieri. Poteva essere che…avesse trovato il portone eccezionalmente aperto quella notte, e che poi, nella fretta, non l’avesse lei stessa chiuso dietro di sé…e i tipi – almeno due secondo me – ne avessero approfittato per riprendere l’inseguimento. Oppure…

Cazzo!

E se fosse stata già dentro lo stabile, ospite di qualcuno degli inquilini? E se uno dei miei vicini fosse uno degli assassini? Quanti ne conoscevo personalmente? Quanti avrebbero il profilo del violentatore?

Io stesso, perché non andai dalla polizia per raccontare che Lisa era entrata nel mio appartamento? L’avrei potuta mettere su una buona traccia. E se la persona sbagliata avesse letto il foglio che avevo appeso in bacheca?

Porca …!

Infilai la porta e scesi le scale di corsa, quasi investendo un bambino con il suo roller, con un balzo fui davanti alla bacheca e…cazzo, il foglio! Il foglio era sparito! Lo cercai nel bidone della carta straccia, niente. Niente! Imprecai fra di me. Dieci minuti e la mia richiesta era già sparita! Sbattei un pugno sulla bacheca e un paio di avvisi caddero per terra. Maledizione! Dannato!

Me ne tornai nell’ appartamento abbattuto e con le pive nel sacco. Ero circondato da animali stupratori. Chi l’aveva strappato da lì? L’avevano eliminato, bruciato, mangiato? Dieci minuti e qualcuno stava già cercando di dedurre dalla mia grafia chi aveva ospitato quella notte la sua vittima, per poi eliminarmi! Ero un potenziale pericoloso testimone, dovesse la polizia condurre le proprie indagini nel palazzo.

La polizia! Dovevo andare dalla polizia e raccontare tutto.

 

Era un tipo biondo sui trent’anni, atletico e ben messo. Gentile, a suo modo. Per tutta la mia vita avevo avuto un certo pregiudizio verso i poliziotti, gli sbirri, maturato durante le mie frequentazioni nell’ambiente dell’anarchismo militante. Quel poliziotto lo trovavo addirittura simpatico. Alla fine sono esseri umani come noi. Probabilmente avevamo molto più cose in comune di quanto potessimo solamente azzardare.

– La sua deposizione è molto utile per il caso, in effetti. Perché non è venuto subito da noi? –

– Beh, ecco… posso avere ancora uno di quei rotolini di sfoglia alla cannella? –

– Certo! -, disse, spingendomi la scatola. – Vuole una tazza di caffè?-

– No grazie, non bevo caffè. –

– Come mai non è venuto subito a deporre? -. Un sorriso gli increspò il viso.

– Lessi questo articolo sul giornale, per un periodo ci rimasi un po’ sotto…-

– Prego?-

– Cioè, ci rimasi molto male, avevo brevemente conosciuto questa ragazza in una situazione a dir poco surreale, mmm, buoni questi Zimtrollen, ho avuto un periodo non molto bello, sa, pensando alla gente che fa queste cose, insomma, ho smesso di pensare, diciamo. Detta così sembra una roba strana, lo so, quando vengo colpito da queste cose, da questi eventi, smetto semplicemente di pensare. Non riesco a immaginarmi tanta malvagità in una persona…-

– Si, capisco cosa intende.- disse il poliziotto, F. Helmek, secondo la targhetta sulla sua scrivania.

– Così oggi ho deciso di muovermi, mi chiedevo come fosse riuscita ad entrare nello stabile, ho appeso questo foglietto oggi pomeriggio e dopo dieci minuti, neanche il tempo di sorseggiarmi un the che era già sparito dalla bacheca.-

-Perché è tornato sotto alla bacheca dopo dieci minuti?- chiese astutamente F. Helmek.

-Perché ad un certo punto mi è venuto in mente che, ipoteticamente, poteva essere Lisa ospite di qualche mio vicino, che questa possibilità era magari più probabile di quella di avere lei stessa una chiave del portone o di aver trovato il portone già aperto. Anche perché, dopo che l’ebbi fatta entrare in casa, sentimmo subito dei passi sulle scale e sul pianerottolo, che poi si dileguarono. La ragazza, il mattino presto, era tra l’altro già sparita, come se avesse paura di rimanere troppo tempo da me.- Mi pulii le mani impiastricciate sulla maglietta, prima che una poliziotta che assisteva alla deposizione mi passasse delle salviette profumate. -Eh grazie.-

-Ci racconti ancora una volta di quel lasso di tempo in cui Lisa rimase nel suo appartamento. Magari nel frattempo le vengono in mente altri dettagli.-

-Come ho detto, è entrata trafelata, senza dire una parola, e non ha parlato per tutto il tempo, neanche una sillaba. Ho pensato fosse muta o qualcosa del genere. Appariva molto scossa e impaurita. Inoltre pensavo fosse più vecchia, intorno ai 24-25 anni. Quando ho letto che aveva solo 19 anni mi è venuto un colpo. Sembrava una donna già fatta e finita.-

-In che senso? Motivi la sua posizione.- chiese la poliziotta. Helmek fece un cenno per farle intendere che la domanda era azzeccata. Magari era una tirocinante.

-Nel senso che come era vestita, truccata, come si poneva, mi dava l’idea che fosse una donna matura, magari terrorizzata, ma con una certa esperienza. Questa fu la mia conclusione. Ma forse erano solo le rughe della preoccupazione.-

-Cosa ha fatto lei per calmarla?- chiese la tirocinante, ormai lanciata.

-Una tisana per me e per lei, le ho parlato un po’, lei rispondeva a cenni. All’ improvviso sembrò solo molto stanca. Dato che non parlava mi sono messo lì, ehm, beh si le ho preparato una… ehm…-

I poliziotti mi guardarono con una espressione interrogativa.

-Beh, mi sa che devo dirlo, avrete già fatto delle analisi tossicologiche…ehm…- diventai all’improvviso paonazzo, sull’orlo di una crisi di panico. “In quale cazzo di problema ti stai andando a cacciare!” -Insomma, le ho fatto una canna, me la stavo preparando per me così gliel’ho girata anche per lei.- sbottai all’improvviso, ormai non più capace di tenermi quella cosa per me. Sono fatto così, non riesco a tacere le cose, e quando ti trovi un poliziotto davanti, che per formazione sa come tradurre i messaggi del corpo e scovare le bugie e le verità taciute, la tentazione di svuotare il sacco è più forte di me.

I poliziotti fissarono lo sguardo su di me, come per cercare di strapparmi altre confessioni su peccati commessi. L’attesa fu snervante. Il silenzio peggio che snervante.

Helmek alla fine parlò.

-Sono parecchi anni che il consumo personale non è considerato un reato, signor S.-, e un mezzo sorriso emerse dalle loro facce. -Ma ha fatto bene a dircelo lo stesso.-

Tirai un sospiro di sollievo. -Ma sapete qualcosa di questa ragazza? Avete parlato con i genitori?-

-Non siamo tenuti a parlare di questi dettagli con lei, Mister. Si stanno svolgendo delle indagini sul territorio, specialmente nell’area in cui si è consumato il delitto, probabilmente lo stesso in cui è stato abbandonato il corpo della ragazza. Ora però con la sua testimonianza possiamo allargare il raggio delle nostre ricerche. In questi giorni verremo a fare delle domande agli inquilini del suo stabile, ci farebbe piacere se quel giorno fosse presente per farci entrare nel suo appartamento e raccogliere dati più precisi. Ma può essere che il delitto abbia poco a che fare on l’evento che ci ha descritto.-

-Ci sono di solito nel pomeriggio verso le cinque.-

– Grazie ma ci faremo vivi noi e le comunicheremo quando passeremo. Probabile che saranno altri colleghi a fare il sopralluogo.-

-Sopralluogo?-

-Il suo appartamento è a tutti gli affetti oggetto di una indagine di polizia.-

Mi sentii all’improvviso male al pensiero del mio appartamento pieno di sbirri.

Helmek capì subito dalla mia espressione cosa mi passava per la testa. -Non c’è bisogno che si sbarazzi dell’erba.-

-Beh, in realtà l’ho già fatto parecchio tempo fa.-

-Perché?- chiese lui, sottilmente divertito.

-Ho deciso di smettere.-

-Bene. Fa bene. Oltretutto non è facile.- e mi fece l’occhiolino. La ragazza si girò per ridacchiare.

 

Con un Zimtrolle in una mano e i miei documenti personali nell’ altra mi incamminai verso casa. Era un giorno grigio come un altro nella periferia di Amburgo. La polizia si fece viva il giorno dopo verso l’una del pomeriggio, avevano una certa fretta ma svolsero le loro indagini con professionalità e correttezza. Visitarono il mio appartamento, bevvero un the (non avevo una macchina del caffè), fecero alcune domande, dopodiché fissarono un appuntamento da un certo psicologo. Fissai il biglietto da visita con l’appuntamento scribacchiato sopra, mi sarei dovuto presentare alle 18 di un venerdì tra due settimane, da un certo Phillip Broker. Non feci altre domande, e me ne frullarono molte in testa. Loro si congedarono e mi lasciarono solo con i miei pensieri. Andai in bagno e mi guardai allo specchio. Mi chiesi, che impressione do alle persone?

 

Quel venerdì non andai dallo psicologo. Conobbi una tipa. Smisi con l’erba. Insomma, ci sono altri modi per raggiungere il Nirvana, e uno di questi era fare del buon sesso, come se non ci fosse un domani, su una base rilassata e senza impegni. Poi vederne altre, uscire. Cominciai a mantenermi in forma, a fare sport. Quando coltivi l’hobby del sesso cominci a pensare a come far girare il motore costantemente a tremila giri senza perdere colpi, per cui curi la carriola che ti fa viaggiare. Diventa una droga, la prendi un paio di volte al giorno, ti scaldi dentro quell’esperienza, poi torni a casa e vedi le cose da un altro punto di vista. Quando manca esci fuori a cercarne dell’altra, basta quella sensazione di uscire e conoscere nuove personalità, nuovi punti di vista, bersi una birra e ridere con un’estranea di certe cose che fanno ridere solo gli estranei, o forse no. Ehi, ma io ti conosco, pensi. Dimentichi quel buco nero che eri prima ed esplodi come una supernova, diffondendo energia intorno a te. Ma un porto sicuro bisogna averlo. Con la tipa era cosi. Anche per lei ero un porto, credo, forse per il modo in cui le massaggiavo le spalle e poi scendevo lentamente in fondo. Sono un tipo disponibile, forse troppo.

 

Lisa rimase in un angolo della mia testa, a fare ogni tanto capolino, soprattutto durante la notte, a tormentarmi con i sensi di colpa che solo un uomo può provare a causa dei suoi merdosi simili. Per un periodo smisi di pensarci, ma quando mi capitava di vedere una ragazza con i capelli neri della sua età dovevo combattere contro l’istinto di scaraventarla fuori dalla S-Bahn e dirle di scappare e trovarsi un posto sicuro, magari darle il mio indirizzo, come se la metro fosse piena di zombie stupratori e assassini e casa mia fosse per una estranea il posto adatto in assoluto per la sua sicurezza. Iniziai a considerare l’idea di fondare un gruppo di autodifesa per ragazze, insegnare loro come annientare un paio di ragazzi con un paio di semplici mosse di karate, mirando alle parti basse, dopo aver individuato le vie di fuga. Con disciplina e preparazione se la sarebbero cavata, avrebbero vinto il cattivo. Anche da sole.

Intanto furono seviziate e ammazzate altre ragazze, in altre città, in altre regioni. Ragazze che andavano a correre e poi non tornavano più a casa, che tornavano in bici da una festa e poi finivano dentro un fiume, tracce di violenza su un corpo non ancora formato, l’acqua fredda ingoiava famiglie annientate dal dolore, senza comprendere il perché di tanta malignità. A leggere gli articoli di giornale cominciai a coltivare un odio efferato contro il mio stesso genere. Di solito gli assassini venivano beccati, altri no, altri continuavano la loro vita senza provare alcuna traccia di colpa. Una tirocinante della polizia fu trovata apparentemente suicida in un bosco qui vicino, l’arma di ordinanza vicino al corpo. L’ultima immagine della ragazza fu ripresa da una telecamera di una stazione della metro a Bergedorf. Leggeva un sms sul cellulare. Si era data malata e aveva trattenuto la pistola, cosa che in genere richiede una procedura precisa. Si era davvero cercata un posto isolato per togliersi la vita? Perché? A 22 anni? Percorrendo svariati chilometri con la metro e finire la sua vita in un vecchio cimitero abbandonato? Queste domande non trovarono risposta, ma sentii che una parte di me andava via via sempre più lacerandosi, a seguito dell’incontro con Lisa. Come se da quel momento in poi si fosse aperta una ferita che non si sarebbe mai più rimarginata.

 

Era una domenica mattina. Scivolai in bagno come un cretino e mi ferii allo stinco battendo contro il bordo del piatto doccia. Fece un male cane. Non potei urlare, qualche giorno prima si era trasferito da me un ragazzo, condividevamo gli spazi e l’affitto. Trattenni il respiro e mi lasciai cadere sul pavimento, stringendo l’asciugamano fra i denti. Sentii le prime avvisaglie di un mancamento (il dolore era un’esplosione atomica nel cervello), per non scivolare nell’incoscienza strinsi i pugni e provai a infilarmi le mutande e i pantaloni. Avevo un buco largo un centimetro e profondo mezzo al centro dello stinco.

Strisciai fuori dal bagno, il dolore piano piano si attenuò e divenne sopportabile.

 

La sera mi vidi con una ragazza conosciuta su una di quelle piattaforme per single. Alla fine un recipiente di personalità varie, capace di racchiudere un universo umano completo. Tramite questa conobbi S., la tipa con cui mi vedevo regolarmente e a cui facevo quei meravigliosi massaggi.

Questa ragazza aveva spostato innumerevoli volte l’appuntamento e a sentirla per telefono, quel suo tono senza ondulazioni, monotono, pareva aver imboccato l’uscita da una vita regolare già da tempo. Comunque ci vedemmo a Sankt Pauli, vicino alla Reeperbahn.

La prima cosa che mi disse fu: – Non abbiamo molto tempo. –

Ci prendemmo un paio di Gluehwein e ci sedemmo sugli scalini di un ristorante asiatico. Fu una piacevole serata. Aldilà che sembrava di parlare con un robot, per la monotonia della sua parlata. Mi disse che era dell’est. Forse parlano così quelli dell’est, ma non credo. Parlammo del suo lavoro, dei suoi hobbies (pochi), variava da un tono formale ad uno fin troppo “aperto”. – Mi piaci. Sembri un tipo simpatico. -, disse, e mi ricordò Al, il computer di “1999. Odissea nello Spazio”. Mi immaginai la sua voce diventare sempre più profonda e lenta, a causa della mancanza di energia.

– Dove vai adesso? – mi chiese, una volta congedatoci con un abbraccio.

– Credo a casa…non so –

– Se vuoi ti accompagno fino alla stazione della S- Bahn…-

In un primo tempo accettai, poi parlammo d’altro e alla fine decisi di rimanere ancora un po’ in zona, a farmi una passeggiata, magari prendermi qualcosa da mangiare. Comprai un Doener, dopo averlo sbocconcellato lo gettai nella spazzatura, avevo masticato cose strane, dalla consistenza di cartilagine triturata. Mi ripromisi di non mangiarne mai più. Tempo fa fui vegetariano.

Chiamai S. al telefono, risultò spento. Mi richiamò tempo dopo, mentre sedevo sulla metro in direzione Harburg.

Ripensando alla mia vita di prima, a come era vuota di emozioni, di imprese. Quella sera tornavo da un Date, avevo organizzato una cena per il giorno dopo con S., probabilmente il mio nuovo inquilino si sarebbe aggregato alla cena, e forse avrei dovuto procurarmi una sedia in più da Ikea. Il venerdì sera passato con il mio amico Lars e i suoi compagni da Berlino. A come le cose si evolvono, cose che succedono, come ho detto.

 

A questo punto vi starete chiedendo chi mi telefonò quella sera in cui conobbi la defunta Lisa. Ecco, ipotizzai chi. Lasciai squillare il telefono, fino a che l’interlocutore mise giù. Ma non guardai sullo schermo. Di solito quella persona telefonava con numero privato. Avevo una Stalker. Una tipa sui 50 anni. Mi telefonava nelle ore più assurde e mi raccontava quello che aveva fatto durante la sua giornata. Una volta mi raccontò di aver sorpreso uno che cagava in un prato. Poi dei vestiti che indossava. Di come si sentiva da sola a casa e che doveva assolutamente passare a trovarmi. Fortunatamente non era possibile rintracciare il mio indirizzo attraverso il numero. Ammiravo il suo stile. Il suo moto perpetuo, la sua cadenza regolare. Racchiusa nel suo bozzolo di solitudine, perseguitata dalla sua stessa fame di relazione. Ricordava a volte me stesso. Solo che io ero in fuga dal mio Io grazie alla legge della forza centrifuga, lei gravitava attorno alla sua disperazione come un satellite abbandonato. Doveva aver sicuramente una lista bella lunga di vittime. Il mio numero l’aveva trovato grazie ad un annuncio su internet. Ho imparato la mia lezione. Ultimamente stacco la spina del telefono.

 

Un mese dopo, per curiosità, scorsi il menu delle chiamate del telefono. Il numero non era privato. Veniva dall’Italia.

2 Risposte to “La linea occupata – Parte Prima –”

  1. Giusto per rompere i coglioni:

    “a vanti” -> “avanti”
    dopo “…” spazio
    mi “aprii” una birra
    In quel momento “capii”
    “Bus” non va maiusvolo
    “Ebbe una chiave del portone di sotto?” -> Aveva una chiave
    “Imprecai fra di me” -> “Imprecai fra me e me”
    “poteva essere Lisa ospite di qualche mio vicino” -> Lisa poteva essere ospite
    “Sembrava già una donna fatta e finita” -> Sembra una donna già fatta e finita

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