La reincarnazione dello Straniero – seconda parte

marzo 20, 2017

Accanto al cortile della Villa Smaila in Liguria c’era un bosco di pini marittimi che copriva il fianco della collina. La macchia scendeva fino alla costa come un mantello ed era per la popolazione ligure un intricato rebus della natura, un oscuro labirinto di sentieri non battuti e arbusti di rovo. Certe notti, notti in cui Smaila errava solitario tra i tronchi ricurvi della macchia mediterranea, quelle notti insonni, nervose, agitate, le fronde di questa foresta parevano muoversi in assenza di vento. Da millenni tale bosco era stato bollato dalla popolazione locale come stregato. Quindi non deve stupire se un tale di Ferrara, Mimmo Semeraro, decise di comprare un pezzo di terreno dentro la macchia maledetta e di costruirsi una capanna, approfittando dei prezzi al metro quadrato molto convenienti. La sua tesi era molto semplice: nulla può essere peggio di Ferrara. Dopo cinquant’anni di triste esistenza in pianura, tra zanzare, bar desolati, estati torride e inverni grigi, per sfuggire alla depressione e angoscia crescente decise di emigrare. Dove, non aveva importanza. Importante, via da Ferrara. E dato che non possedeva molto al di fuori dei risparmi di una vita passata dietro il bancone di un bar, l’esperto barista fece una ricerca su internet. Mentre la pagina caricava – a causa della connessione lenta di Ferrara che portava la sua popolazione all’ansia generica, sua madre gli portò una rivista, Donna Moderna. “Mamma, quante volte ti ho detto, questa rivista non fa per me!”. La madre, una donna taciturna e piccolina, gli indicò un  articolo a pagina 34. Il volto accattivante di Umberto Smaila faceva l’occhiolino dal centro pagina, come a voler circuire la mente di una semplice ragazzina di Ferrara. Mimmo ne fu subito stregato. Da piccolo aveva sempre avuto un debole per Smaila. Non provava un’attrazione sessuale nei suoi confronti, benché lo ritenesse davvero interessante come uomo, piuttosto una profonda ammirazione. Un suo amico, Lillo, un pensionato quarantenne indebitato con il Sistema Sanitario Nazionale, gli rivelò che sarebbe presto andato ad un colloquio di lavoro presso l’agenzia di Smaila. “Offrono un posto di lavoro sicuro, ben pagato. E sapessi la figa che c’è lì! Fanno una selezione terribile però.” si affrettò a dire, per smorzare l’entusiasmo. Inoltre sapeva che Mimmo si sarebbe precipitato a presentare domanda e Lillo odiava la concorrenza. Mimmo bruciò d’invidia, ma continuò a lucidare la sua Vespa sotto il sole cocente di Agosto, cercando di nascondere ogni emozione dal suo viso e dalla sua voce, che rimase ferma: “Quando hai il colloquio finale?”. Lillo capì la strategia dell’amico. Gli avrebbe ficcato una pallottola in testa e si sarebbe presentato all’intervista al suo posto. “Mi vengono a prendere loro. La data non me l’hanno detta!”. Mimmo desiderò la morte del suo amico e concentrò tutte le sue energie per mandargli un malocchio, sperando che funzionasse come quella volta alle medie, quando Pippo gli raccontò che aveva palpato selvaggiamente Pina nello spogliatoio della palestra e qualche giorno dopo lui si soffocò con un boccone di polpette al forno. Aveva avuto sempre un debole per Pina, una ragazzina chiatta e tarda. Ma che tette.

Lillo sparì qualche settimana dopo. E non tornò più a Ferrara. Questo accrebbe il desiderio di Mimmo di emigrare. La pagina finalmente caricò ma ormai Mimmo aveva perso ogni interesse alla ricerca. L’articolo parlava di Villa Smaila tra le colline liguri. Colline, pensò Mimmo. Villa. Smaila. Dopo mezz’ora di connessione prenotò un biglietto del treno per Loano. La mamma lo chiamò per la cena. Polpette. Mimmo decise di mangiarsi un vasetto di yoghurt. Così tante delusioni non poté la madre sopportare – il figlio che emigrava, che si mangiava un vasetto di yoghurt al posto delle polpette così amorevolmente preparate in un pomeriggio torrido e afoso. Il forno acceso e 42 gradi all’ombra. La madre quella sera si suicidò in bagno ficcando la testa nel cesso e tirando l’acqua. La lettera d’addio era piena di errori grammaticali e scritta in una ortografia illeggibile. Una zanzara ne approfittò per succhiare del sangue dalla nuca della donna. Morì dopo una ventina di minuti tra atroci tormenti zanzareschi.

Insomma, Mimmo viveva all’ombra della foresta ai piedi di Villa Smaila. Viveva nella trepidante attesa di poter scorgere Dr. Cav. Smaila passeggiare sotto le fronde dei pini marittimi, magari nudo!, pensò ogni giorno. Sapeva che le probabilità di vederlo aumentavano sensibilmente nel lungo periodo se manteneva la posizione nello stesso punto di osservazione. Una volta era stato lupetto nella setta della Gente con il Fazzoletto Colorato Intorno al Collo. Per quello non si spostava dalla sua veranda. I bisogni li espletava subito fuori, dietro un cespuglio di ortiche. Mangiava un impasto di farina di mais e fagioli, beveva birra. La notte dormiva solo un paio d’ore, tra le 3 e le 5. L’amore per Smaila lo divorava.

Quella notte non fu diversa dalle altre, se non per un lampo che scorse a qualche centinaio di metri dalla sua postazione. Decise di alzarsi dalla sua sedia a sdraio sudicia e recarsi verso la fonte di quell’abbaglio. I rovi e le ortiche gli martoriavano le gambe nude. Devo comprarmi un paio di stivali, pensò il barista in pensione. Del fumo si levava dal suolo, dove aveva avuto origine il lampo di luce. Mimmo si guardò intorno, quindi scorse una massa gelatinosa che si muoveva circospetta dietro il tronco di un albero. “Ehi!” esclamò Mimmo pieno di sorpresa. “Io ti conosco.” Mimmo fu felice di rivedere il suo fegato.

Il Braunbär innestò la quinta e premette sull’acceleratore. Il furgone superò i 160 Km/h. Distanziò cosicché il Doblò e l’elicottero. Il Capo e la Torpedine si agitarono sui sedili, poco abituati a fuggire dal nemico. Che la Zeta Press Group avesse mandato una squadra a salvare loro il culo era meritevole, ma non riuscivano a spiegarsi come li avessero trovati. In quel momento l’agente della ZPG fece partire una raffica che squarciò un fianco dell’elicottero. CHE BESTIA CAZZO!, pensò l’uomo di Ratisbona.

La Torpedine ebbe una visione, improvvisa e violenta: si distaccò dal suo corpo e, strisciando tra le maglie spazio-temporali del Mondo, s’incuneò tra le molecole della materia intorno. Percorse lo spazio che lo separava dalla cabina del furgone alla parte posteriore del Doblò come in un mare di ovatta intinta di miele. Un proiettile avvolto dal fuoco si trovava a metà strada tra l’elicottero in picchiata verso l’asfalto e l’agente della Zeta Press Group, che si parava gli occhi con una mano. La Torpedine sentì che il proiettile si stava avvicinando millimetro per millimetro in quella realtà condensata. Il sangue scorreva lentissimamente nelle vene dello Straniero, ritto dietro la mitragliatrice, consapevole della propria fine. Nei suoi occhi la Torpedine lesse fierezza e spirito combattivo, nessuna traccia di rimpianto. La Torpedine rivide il suo amico, dopo anni. Capì che era cambiato, si era indurito nel tempo, aveva nel volto un’espressione che lasciava presagire una lunga lotta contro i fantasmi del passato. Tracce di commozione scossero le fondamenta della sua psiche. Dietro la tuta mimetica e l’imbracatura da soldato lo spirito dell’uomo aveva lunghe e profonde cicatrici, ferite che durante l’esilio erano state curate con la Medicina della Terra, l’acqua dei suoi fiumi e le fibre delle sue piante, la saggezza dei funghi e l’ossigeno delle alture. La Torpedine mosse l’impeto della sua rabbia contro l’inesorabile destino. Un velo di fuoco verde lo avvolse, voltandosi verso il proiettile sparato dal bazooka. I suoi occhi divennero buchi neri, poi supernove, soli di terribile bellezza, la materia intorno a lui collassò, le particelle liberarono l’energia disgregandosi. Milioni di gradi Celsius furono lanciati verso l’ignobile  elicottero e l’avanzata dell’oggetto portatore di morte. Poi la Torpedine scomparve, risucchiata dal Tempo, verso il suo corpo di carne, ossa e sangue.

Asso si portò una mano agli occhi, pronto a morire, un pensiero veloce come la luce lo riportò per un momento ai verdi prati della sua giovinezza, ai boschi, alla collina morenica, ai falò con gli amici, al calore di un corpo femminile, stupendosi di quanto uno potesse rivivere in quel breve momento, tra la vita e l’immediata morte. Si chiese cosa sarebbe successo se fosse rimasto nella foresta amazzonica, nella sua tinozza, perso nelle sue allucinazioni, continuando il suo programma di riabilitazione spirituale. Avrebbe vinto la morte? Avrebbe rivisto i suoi amici? No di certo. Asso si preparò al distacco, a lasciare il suo corpo spappolato, a seguire il percorso tracciato dalla sua preparazione spirituale, trovare la Via e seguirne il Suo sentiero verso le Stelle. Sentì un’ondata di calore. Ci siamo, pensò. Asso si stupì della dilatazione del tempo in quei frangenti. Lottando contro il suo istinto scostò la mano dagli occhi e vide una palla di fuoco allontanarsi dal suo campo visivo, cocente come un minuscolo sole, abbagliante e meraviglioso. D’istinto chiuse gli occhi, le pupille all’improvviso secche, aride. Il violento spostamento d’aria provocò un’onda d’urto che fece sbandare il Doblò. L’autista perse il controllo del veicolo e sbandò verso il guardrail, sfondandolo, finendo in un campo di mais. Asso batté violentemente la testa contro la parete del furgoncino e perse conoscenza.

La Torpedine svenne e si piegò contro la spalla del Capo, che avvertì una vibrazione e un’ondata improvvisa di calore. “Fermati appena puoi. Ho visto qualcosa di strano dallo specchietto.” disse al Braunbär. Questi rallentò bruscamente e si portò sulla corsia di emergenza. I due scesero dal mezzo, inconsapevoli del gesto generoso dell’amico svenuto. Ciò che videro li riempì di meraviglia. Una sfera di fuoco e aria fusa saettò per un momento lungo l’autostrada ad un paio di metri di altezza, poi si allontanò dalla Terra a velocità siderale. L’asfalto si vaporizzò in una nuvola grigia, lasciando una grossa cicatrice per centinaia di metri. Il Doblò giaceva come un insetto morto a zampe all’aria ai margini di un campo di mais, fumante. Dalla cabina di guida provenivano le urla di dolore dell’autista, le sue gambe incastrate tra il piantone dello sterzo e il sedile. I due corsero in quella direzione per prestare un primo soccorso ai due agenti della ZPG. Il Capo tirò a sé la portiera, che si staccò dopo un paio di strattoni violenti e un rutto ben assestato. “AAAhhhggh. Ammazzami, ti prego, ammazzami. Sto morendo di dolore.” urlò l’autista. “Prima un paio di domande.” fece il Capo, imperturbabile. “Chi sei? Come hai fatto a trovarci? Chi è l’agente che sparava col mitragliatore?”. “Le domande sono tre…aghhhh…” rantolò l’uomo. E spirò. “Deve essersi lacerato l’arteria femorale nell’urto e…mmm…dev’essersi cagato sotto dal dolore. Lo senti?”. L’uomo di Ratisbona storse la bocca. CHE PUZZA DI MERDA! Il Capo batté un pugno sul pneumatico, frustrato. Dalla parte posteriore del veicolo ribaltato non proveniva alcun rumore. Probabilmente anche l’altro agente era morto. Si mosse verso l’apertura posteriore e diede un’occhiata. Quel che vide gli tolse la forza dalle gambe. Barcollò. “Grande Giove!”. Il Braunbär si avvicinò. Il Capo era sbiancato. Lo spostò di peso ed entrò nel vano contorto del veicolo. Afferrò la mitragliatrice imbullonata con il suo supporto al pianale del Doblò e la strappò dal basamento, gettandola fuori dall’abitacolo. Poi raccolse il corpo insanguinato dell’amico, con delicatezza, e lo portò fuori alla luce del sole. L’aria odorava di fumo e pannocchie. Lo depositarono sul terreno fangoso, tra le stoppie dei fusti spezzati. CAZZONE STA RESPIRANDO, disse l’uomo enorme. Il Capo riprese colore. Le palpebre di Asso sbatterono quasi impercettibilmente. Era ancora vivo.

Quando lo caricarono sul furgone, insieme alla mitragliatrice e alla cesta delle munizioni, la Torpedine si sentiva come appena risvegliata da un lungo sonno senza sogni. Si passò ancora una volta la mano fra i capelli unti di sudore e desiderò una tazza di caffè fumante e un torcetto al burro piemontese. Accese il suo smartphone. Nessun messaggio. Nessuna e-mail. Non aveva alcun accesso ai dati bancari e al sito della sua organizzazione. Internet funzionava, ma gli era impossibile entrare nella sua attività. Sospettava un attacco hacker, probabilmente attraverso il cellulare stesso. Maledetto Smaila. I suoi amici, rientrando nella cabina di guida, gli riferirono le sconcertanti novità. La Torpedine reagì tiepidamente, ma videro che nei suoi occhi c’era il sollievo e una profonda saggezza.

“Bene, ora cerchiamo un dottore. E quando Asso si rimetterà, avremo il nostro contatto con l’armeria della ZPG”. Il furgone sgommò.

Nella principale sala di Villa Smaila le luci si accesero. Era pomeriggio inoltrato, fuori scoppiò un temporale. L’afa si dissolse con le prime folate di vento, l’aria odorava già di pioggia. Umberto Smaila si carezzò la pappagorgia. Sul grande schermo posizionato sulla parete in salotto passavano le immagini di un’autostrada della Francia meridionale semidistrutta. Il telecronista parlò di una “inspiegabile serie di eventi che aveva portato caos e violenza sullo snodo autostradale Nord.”. Un’Audi crivellata di colpi e una striscia di asfalto letteralmente portata via da una sconosciuta fonte di energia facevano da contorno ad una serie di congetture, teorie e ipotesi che lasciavano intuire ad un regolamento di conti tra organizzazioni mafiose. “Probabilmente un regolamento di conti tra la mafia russa e le ditte che rifecero la pavimentazione stradale nel lontano 1998” fu l’opinione di un esperto di faide mafiose. Smaila strinse più forte la coppa di champagne, fino a infrangerla. Le ferite sulla mano si rimarginarono poco dopo. “I corpi ritrovati nell’Audi sono stati identificati. Le autorità russe negano qualsiasi complicità del loro governo con l’accaduto, riservandosi di mettere a disposizione la documentazione inerente all’ex-soldato e agente del KGB Dimitri Porowski, il quale fu…”. Umberto Smaila spense il televisore a parete. Si alzò. Si diresse in bagno e si preparò una striscia di ricottella essiccata. “Mfffffff…aaahhhhhh”. Corroborato dalla dose giornaliera di ricottella, si prese la libertà di uccidere cosi a caso uno dei suoi servitori, per sfogare la frustrazione. Scelse un tipetto sui trent’anni, un impiegato di Equitalia. Gli strappò la lingua e le orecchie, poi lo condusse nella stalla dei maiali e lo fece divorare vivo. Mentre udiva le urla strazianti dell’impiegatuccio e il grufolare dei suoi animali, ebbe un’erezione. Potere. POTERE. Decise di passare al contrattacco. Il suo fido Cavaliere Nero scodinzolò al suo fianco, leccandogli la mano. “Un giorno non sarai più quadrupede”, gli promise.

Mimmo aveva portato la bestia nella sua capanna. Gli preparò un pasto a base di fagioli e vodka, Lassie scodinzolò e cominciò a lappare la brodaglia riconoscente. L’uomo si gratto lo scroto. Non poteva perdere troppo tempo dietro la bestia, si disse. Aveva robe importanti da fare, pensò nervoso. Continuando a massaggiarsi le palle decise di provare a comunicare con il suo fegato. “Eh, senti, ti sono davvero riconoscente per quello che facesti alla festa del mio ventitreesimo compleanno, davvero. Non so come hai fatto a reggere tutta quella roba, ma se non fosse per te sarei ancora lì in coma alcolico. Davvero, non so come ringraziarti. Ma, ehm, ecco, ho da fare, ho un sacco di cose da fare, sai…”

SI LO SO

“Beh ecco, non per metterti alla porta, sono contento di vederti, ma…”

ANCH’IO, MIMMO

“…ho davvero tanto da fare, per cui, se vorresti scusarmi, devo andare sulla veranda…”. Lassie gli sbarrò il cammino. “Eh, bello, guarda, sono io il cervello, tu sei solo il mio fegato, sai, potrei donarti ad un’altra persona, farti venire la cirrosi epatica, o un bel tumorino di quelli fulminanti, ma, ecco, ho davvero un sacco da fare…”

RIMANI CON ME, UN ALTRO PO’

“Bah, non so proprio come dirtelo, ecco…”. Mimmo cercò di scavalcare la cosa gelatinosa, che arretrò di un paso, come per farlo passare. “Ah ecco, ci siamo capiti, si, ci siamo…”. Lassie allungò una protuberanza e si attaccò alla caviglia di Mimmo. “Ehi ma che cazz…”

SONO CONTENTO DI VEDERTI MIMMO

SKIOKKK   BLUUUUURRRPP    OOOHHRCCC   FLUUUU-P!

“Ce l’hai ancora quel dipinto a casa?” chiese l’uomo di Ratisbona al Capo. Questi si limitò a fare un cenno col capo. “Non sarei qui, non credi?”. La Torpedine si grattò la barba. Fuori pioveva nuovamente. Il passo delle Alpi si avvicinava lentamente. Presto sarebbero arrivati al confine. Avrebbero dovuto passare il controllo con un mitragliatore d’assalto. Il Braunbär aveva le idee chiare su come procedere. Avrebbero dovuto smontare il pezzo e nascondere alcune parti e la scatola delle munizioni. Con un carico di ferraglia inutile avrebbero avuto poco da dire. “E Asso?”, volle sapere il Capo, “Come spiegheremo alla polizia le sue ferite? Saranno sul chi va là dopo quel casino sull’autostrada!”. ME NE OCCUPO IO, STAI SERENO!

Prima del confine si fermarono nei pressi di una clinica veterinaria. Il direttore della struttura era un caro amico della Torpedine. Nonostante l’ora piccola, li fece accomodare in salotto e offrì loro del the e delle cialde croccanti. Jerome visitò accuratamente Asso, fece delle lastre al capo e al torace. “Il vostro amico ha un trauma cranico di livello serio e contusioni su tutto il corpo. In questo momento ha un’emorragia cerebrale estesa sul lobo parietale sinistro che si sta lentamente assorbendo, pare che sia scivolato in una sorta di coma. Generalmente non è un buon segno, nel suo caso vorrei mantenere una prognosi riservata. Purtroppo…” e indicò gli attrezzi che possedeva in sala “non sono attrezzato per una delicata operazione al cervello, ma lo terremo in osservazione.”. Quanto tempo, volle sapere la Torpedine. “Tre, cinque giorni. Va nutrito per flebo e vanno studiati i suoi parametri vitali. Il corpo va mantenuto in vita, l’emorragia va monitorata, bisogna somministrargli medicamenti. Durante questo tempo potrà stare nella sala qui accanto, aiutatemi a organizzare il suo capezzale.”

Durante questo tempo i tre amici smontarono il mitragliatore e nascosero le munizioni in un bosco. Alla fine avrebbero corso meno rischi durante l’espatrio e avrebbero comprato il resto una volta arrivati nell’armeria. Asso si svegliò dal coma la sera del terzo giorno. L’ematoma cerebrale era stato assorbito completamente, ma rimaneva piuttosto debole e confuso. “Te la senti di fare un viaggio?” gli chiese il Capo. Asso si guardò attorno. I suoi amici lo guardarono con un misto di commozione e rispetto. “Che cosa aspettiamo?”

Mentre caricarono la lettiga nel furgone e cominciarono a imbullonarla al basamento, la Torpedine portò Asso nel cortile antistante la clinica, servendosi di una carrozzella. “Abbiamo del tempo, prima ce finiscano il loro lavoro. Facciamoci un giro.” La Torpedine prese un sentiero a fianco della clinica e si lasciarono dietro il cortile. Braunbaer stava usando una saldatrice.

“Volevo ringraziarti per avermi salvato la vita.” fece dopo un momento Asso. La sua voce risuonò forte, senza esitazioni. “Durante il coma ho avuto delle visioni, ho rivisto la scena come al rallentatore, e ho sentito una presenza accanto a me.”. La Torpedine non commentò. “Si vedono raramente cose del genere, F. Poteri simili non appartengono alla razza umana. Se qualcosa della Torpedine è rimasta in te, allora si manifestò in quella enorme energia che liberasti. Motivo per cui ti fai ancora chiamare La Torpedine. Ma mi riesce difficile formare con la bocca questo nome. Perché la Torpedine non è un mio amico. La Torpedine ti possedette, ti fece marcire dentro, ti usò come involucro. Ti usò, amico mio. E una traccia di questo antico essere continua a perdurare in te.”. La Torpedine sospirò. Asso aveva ragione. “E continuerà a possederti finché non elimineremo Smaila. Lui è la chiave di tutto questo. La Torpedine e Smaila sono uniti con un cordone ombelicale alla stessa madre. Questa madre, amico mio, sta contaminando il mondo intero. L’ho visto, nei miei sogni con l’ayahuasca. Per cui un giorno dovrai usare questo potere per distruggere la madre definitivamente. Un giorno in cui ti troverai solo con lei. La conosci. È lei. Sabrina Salerno.”

La Torpedine si bloccò. A sentire il suo nome una serie di ricordi gli affiorarono alla mente. Si conobbero parecchi anni fa, in un locale a Dublino. Da allora perse le sue tracce. Ma il desiderio rimaneva. Non poteva fare a meno di pensar a lei, alle sue forme, al suo seno, al suo sorriso. Asso diceva il vero? Sabrina Salerno era l’Angelo del Male? Una volta arrivato a Lione fu posseduto dalla Torpedine, e fu salvato per un pelo dai suoi amici. Sabrina. Aveva davvero scatenato lei questo inferno?

“Torniamo indietro. Avranno sicuramente finito.”

Arrivati in Italia cambiarono mezzo e comprarono una jeep a quattro posti. Il rivenditore fece loro un buon prezzo, dopo che il buon Braunbaer si chiuse con lui in un ufficio per “trattare”. I sedili erano comodi e l’abitacolo fornito di tutti i confort. Dal vecchio furgone smontarono il pianale che avevano costruito per la mitragliatrice e lo rimontarono sul vano posteriore della jeep. Dopodiché ci stesero sopra un telone. Il Capo ci spruzzò sopra una “Z”. Avevano un mezzo da combattimento.

“Ora dobbiamo recarci a Pieve Ponte Morone, alla sede principale.” li informò Asso. Il Capo si chiese perché a Pieve Ponte Morone. “Credevo ci fosse solo la sede legale e la tipografia. Non credevo avessero un’armeria”. “Sempre stata lì. Nei sotterranei. Hanno addirittura una speciale macchina per fare gli stampi dei proiettili. Stanno cominciando a diventare autonomi. L’idea che mi sono fatto nel tempo è che stiano piano piano creando le condizioni per la creazione futura di un esercito di droni. Se falliremo la missione, beh, daranno il via alla produzione.”

Il Capo chiamò la Torpedine a sé con un cenno. “Asso è cambiato. Non è più lo stesso. Guarda quella grossa cicatrice sulla schiena. È più sicuro, forte, deciso. Mi chiedo cosa abbia fatto tutto questo tempo in Sudamerica. Sei riuscito a parlare con lui?” gli chiese. “La sua permanenza nella foresta amazzonica” disse la Torpedine “non ebbe nulla a che fare con la ZPG. La sua era una missione solitaria, una specie di depurazione spirituale dalle scorie che aveva accumulato in tutti questi anni. Aveva bisogno di trovare il suo Io, di liberare sé stesso dalla gabbia della vita moderna, di rompere il velo della realtà e gettare uno scorcio aldilà delle proprie conoscenze e pregiudizi. L’ultima relazione con una donna lo lasciò vuoto e privo di contatti di lavoro, per cui decise di autoesiliarsi nella foresta, insieme agli indios del posto. Conobbe i segreti delle piante, gli stenti, la fame, la fatica, il veleno dei serpenti. Si lasciò aggredire dagli eventi atmosferici, s’indurì, acquisì nuovo potere. Lo iniziarono alla pratica sciamanica. Divenne un punto di riferimento all’interno della sua tribù, lo chiamarono Lo Straniero, Deh-nna. Rimase per giorni chiuso nella sua tenda, con i suoi bagni di vapore, protetto e distaccato da tutti come un embrione nell’utero della madre. Fino a che una sera gli portarono un messaggio da parte dello stregone del villaggio accanto. Il mattino dopo era già in aeroporto con le sue poche cose, in partenza per Milano Malpensa. Una volta lì raggiunse l’Agenzia e si preparò per salvarci.”. Il Capo si appoggiò le manone ai fianchi. Una settimana dopo dall’incidente Asso era già in piedi che montava un fucile da cecchino, l’unica traccia che ricordava l’evento era un largo ematoma sulla parte destra del cranio, altrimenti sembrava non avesse arrecato alcun danno. “Sembra una macchina da guerra.” esclamò il Capo, con tono di profondo rispetto.

“Colpiremo Smaila su due fianchi: la Villa e il suo esercito. Le nostre potenze convergeranno poi su un unico obiettivo, la Villa. Se tutto si svolge secondo i piani” il Capo fece una pausa significativa “avremo estratto questo cancro una volta per tutte!”

Secondo alcune fonti, l’esercito di Smaila stava da tempo preparando un colpo di Stato, un golpe, in modo da destituire il potere con la violenza. La prima mossa era l’occupazione di Bruxelles. La tipografia del Movimento avrebbe quindi distribuito calendari di Sabrina Salerno a tutta la popolazione, insieme ad una compilation dei suoi lavori e un feat con Jerry Calà. “La vera Sabrina Salerno è morta da anni, fatta sparire. Quella che hai conosciuto a Dublino era quella vera. Ora circola una copia, un manufatto, un clone con intelligenza artificiale collegato alla Rete.” spiegò Asso “Un essere in grado di infettare con un virus l’Internet che conosciamo e diffondere notizie-fake per rimbecillire la gente. Questi vedranno il totalitarismo che Smaila instaurerà in Europa come manna dal cielo e ci sarà assenso totale. I dissidenti verranno chiusi in case di cura e terapizzati. È già cominciata la rivoluzione. Negli Stati Uniti.”

“Trump?”

“No. È solo un fantoccio politico. Si sta eliminando mediaticamente con le proprie mani. Il suo posto verrà insidiato da Jerry Calà.” Specificò il Capo. La Torpedine soffocò una risata. “Che hai da ridere?” chiese stupito Asso. “Mah…Jerry Calà?” fece scettico l’altro. “Si, Jerry Calà, o un clone di Johnny Dorelli, non hanno ancora deciso. Fecero anche il nome di Jerry Scotti. Comunque: o un Johnny o un Jerry. Calà è in cima alle preferenze all’interno del Movimento Rivoluzionario.” La Torpedine pensò, ma quale cazzo di mente malata può concepire robe del genere! “Possiamo contare sull’aiuto di Albertangelo?” chiese Braunbaer. “No” rispose secco Asso “Albertangelo ha lasciato il pianeta anni fa. Suo padre ha fondato una colonia su uno dei satelliti di Giove, trasformando il pianeta gassoso in un sole.” “Merda” fecero gli altri in coro.

“Abbiamo probabilmente qualcuno che ci potrebbe aiutare nella presa della Villa, in Liguria. Il mio fido Lassie ci sta lavorando sopra. Probabilmente ha già compiuto buona parte della sua missione!”

L’essere che aveva le sembianze del cinquantenne barista di Ferrara Mimmo scivolò tra le ombre del bosco e si portò a poche decine di metri dal cancello principale della villa. Quello era il caratteristico specchietto per le allodole: due sole guardie, turni troppo regolari e prevedibili, equipaggiati con poche armi e dai modi di fare da dilettanti. Era una trappola. Se qualcuno avesse voluto irrompere nella villa attraverso quell’entrata male sorvegliata, si sarebbe trovato nel cortile della villa sbagliata. La Vera Villa Smaila era più a monte, nel secondo anello, per così dire. Attraverso quell’apertura si scremavano gli assalitori veri e propri dai cretini. Il grosso delle truppe di guardia circondavano le mura del secondo anello come un sol uomo, ben equipaggiati, addestrati e dediti ciecamente alla causa. Mimmo si guardò intorno, seguì l’odore delle fogne. Da ovest proveniva l’olezzo dei liquami prodotti dal reggimento di Smaila e dei suoi maiali, che si riversavano nel Mar Ligure in grosse quantità. Decise di seguire la traccia. Sorrise. Il cunicolo l’avrebbe portato direttamente nella pancia del gigante. Come un verme solitario strisciò dentro l’apertura del cunicolo e si fece largo nella melma maleodorante. Aveva fame. Ed era completamente nudo.

Fine seconda parte

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