L’uomo delle Soluzioni

gennaio 6, 2016

Se mi dovessero chiedere un giorno come lo conobbi, non saprei spiegarlo.
Il suo nome era Mortimer, e aveva una quarantina d’anni quando scomparve. Improvvisamente, senza lasciare alcuna traccia. Il suo appartamento in Strada delle Rose era ancora ammobiliato e addobbato con i festoni natalizi il giorno in cui irruppi nel suo domicilio utilizzando solo un cacciavite. Come era solito affermare, non aveva avuto tempo di rendere la porta d’ingresso a prova di scasso, e personalmente lo trovava insensato, considerando che casa sua non conteneva nulla di prezioso.
Le circostanze della sua scomparsa non furono mai chiarite. Nessuno lo aveva visto uscire di casa, nessuno lo aveva visto in giro, prendere il treno, ritirare la posta, fare la spesa. Per più di una settimana sembrava non avesse mai fatto capolino dal portone del palazzo, anche solo per comprare una pagnotta. Sparito, volatizzato, senza neanche aver fatto le valigie o aver lasciato un biglietto o qualche indicazione delle sue intenzioni. L’armadio in camera da letto era ancora stipato di vestiti, il frigo non pieno ma neanche vuoto, la dispensa ben fornita. Persino le scarpe, quelle marroni di cuoio leggero e la suola in Vibram, che diceva avrebbero protetto i suoi piedi anche durante un inverno in Siberia, erano posate dentro il ripiano della scarpiera, in ordine, pulite e ingrassate. Il mazzo di chiavi e un rotolo di soldi erano riposti come al solito dentro un cestino di vimini fatto a mano da Mortimer, sul tavolino dell’entrata. Una cinquantina di Euro, legati insieme da una fascetta elastica.

Mortimer é sempre stato un tipo ordinato e minuzioso. Almeno, stando ai due anni di reciproco interesse che ci ha legati insieme come due vecchi amici. Era uno di quelli che trovavi sempre, ad ogni ora del giorno e della notte, pronto a offrirti un posto sul suo divano e una delle sue birre di importazione, tanto da indurmi a chiedermi come sbarcasse il lunario, con quale occupazione si guadagnava da vivere. Non aveva moglie o fidanzata, per lo meno non in senso serio. Non era mai solo, non so se mi spiego. Non era bello in senso comune, ma a quanto pare parecchio affascinante, dato che ogni volta che glielo chiedevo, tirava fuori un nome e un volto sempre nuovo. Tutte belle donne. E c’era sempre parecchio da raccontarsi. Non possedeva un auto ma a quanto pare era sempre in giro, a raccogliere informazioni, ad aggiornarsi, a vedere posti nuovi e conoscere persone. Sapeva imitare ognuno alla perfezione, e non si perdeva alcuna novità dal vicinato. Era onniscente, senza essere una peppia invadente. Lui compariva da qualche parte e la gente si sentiva in dovere di coinvolgerlo nelle chiacchiere da bar. Lui non faceva mai domande, non ne aveva bisogno. Dopo qualche minuto ti sentivi costretto a rivelargli anche i particolari più intimi di un rapporto burrascoso, o l’ingrediente segreto di una torta deliziosa. Le donne, soprattutto. Arrivavano a confidarsi con lui come se fosse l’amica del cuore. E, cosa ancor più strabiliante, aveva risposte anche ai loro problemi.
Posai il cacciavite su una mensola in soggiorno e scrutai la posta: solo pubblicità, un paio di bollette intestate a me (pagavo quasi la totalità delle sue bollette in cambio di qualche favore) e una cartolina di natale dai miei genitori. Si, da un annetto avevo registrato la mia residenza presso di lui. A tutti dicevo che vivevo solo. Perché? Guardai fuori dalla finestra, la neve scendeva leggera dal cielo grigio. All’improvviso mi accorsi del silenzio che regnava nell’appartamento. Da quanto non ci avevo più messo piede a casa sua? Pressapoco da quando conobbi Cristina. Se n’era andato per non intralciare i miei piani con lei? Da un po’ di tempo mi chiedeva se volevo cercarmi un altro appartamento, io avevo sempre rinviato. Non ero ancora sicuro se con la ragazza era una cosa seria o meno. Lui mi guardò per un istante, profondamente, come se cercasse di sondare i miei pensieri. “Ho pensato ad un nuovo titolo per il mio libro…”, mi disse, come sovrappensiero, lo sguardo sempre fisso sul mio. “Sono sicuro che ti piacerà.”.

Rispetto alle circostanze del nostro incontro non ricordo molto, salvo che ero ubriaco marcio e che avevo perso le chiavi dell’auto da qualche parte. Me ne stavo seduto sul marciapiede umido, a tastarmi continuamente le tasche, disperatamente alla ricerca delle chiavi, quando sentii dei passi dietro la mia schiena. Doveva essere uscito dal locale in cui avevo speso il resto della mia paga settimanale in birra e whiskey. Sentii che si accese una sigaretta e che fece una profonda boccata, prima di cominciare a parlare. Il suo tono era caldo e profondo, come se provenisse dal centro della terra. “Non si può dire che sei seduto sull’asciutto, ragazzo. Fammi un favore, su, alzati e ripulisciti. Lì deve averci pisciato un cane.”. Mi aiutò a rialzarmi dall’asfalto e mi offrì una sigaretta. “No grazie, non fumo.” Dalla sua espressione capì che non capiva assolutamente il motivo per cui non fumavo. Tirò un’altra boccata e mi guardò con un mezzo sorriso, piegando leggermente il capo di lato. Aveva un modo di fare seducente. Lì per lì pensai che mi stesse corteggiando. Sentii caldo alla nuca. “Hai l’aria di uno che ha perso la sua anima e la cerca ossessivamente nei pantaloni.”

Questo mi ricordo bene. E che poi mi ha chiesto cosa non andava, che nella mia faccia si leggeva la disperazione più assoluta. “Una volta sono stato in Africa a fare volontariato in un villaggio di lebbrosi. Ho visto espressioni più felici della tua.”. Gli raccontai di come mi ero specializzato negli ultimi anni nel rovinarmi la vita. “Sembri un esperto in effetti…”.

Stavo con Maria da cinque anni. Quella sera avevamo avuto il nostro ultimo litigio, mi chiusi in bagno e dalla rabbia mi ustionai il braccio con un accendino. La porta del bagno bastava uno spintone per aprirla, mi vide seduto sulla vasca, il viso rosso di lacrime, contorto da quello strano mix di dolore e liberazione derivato dall’autolesionismo. “Ma che cazzo fai?”. Le urlai di andarsene a fanculo, di prendersi la roba e di sparire dalla mia vita. Lei obbedii, io continuai il mio lavoro. Dopodiché sprofondai nel più nero degli umori. Decisi di uscire e di dar fondo alle mie ultime sostanze. La notte era silenziosa, era un martedì autunnale, cielo gonfio di pioggia, foglie scivolose. Il braccio pulsava sordo sotto la manica della giacca leggera, ogni volta che il tessuto strisciava sulla pelle bruciata mi procurava una piacevole puntura di vita urlante. Entrai nel primo locale che trovai, una specie di pub per scommettitori, nelle vicinanze della stazione principale. Sinceramente non mi ricordo di aver visto Mortimer appena entrato, doveva essere magari in fondo al bancone. Ordinai la prima delle sette medie, facendo attenzione a farle seguire da un bicchierino di liquore ambrato scozzese. Forse pagai più del dovuto, ad un certo punto non seppi più contare e se il barista mi guardava male, aggiungevo dei soldi, senza curarmi di niente. Quando appurai che le tasche erano ormai vuote, mi lasciai scivolare dal mio trespolo e mi avviai verso l’uscita. Forse attirai l’attenzione di Mortimer, in un qualche modo, come quella di molti altri avventori, perché incespicai su una cameriera e io e lei ruzzolammo per terra, insieme ad un paio di boccali. Mi scusai nelle mie migliori maniere e mi lasciarono andare, con l’aiuto di un energumeno che mi accompagnò alla porta.

“Non ti preoccupare. Ho offerto una birra ai clienti che occupavano i tavoli vicini.” disse comprensivo il mio nuovo amico. Era alto più o meno come me, capelli lunghi e leggermente mossi, di un nero lucente. Indossava una giacca di pelle nera e aveva un portamento da attore. Non potei fare a meno di osservare come le donne lo guardavano quando passammo vicino alla zona universitaria. Lui ricambiava ogni sguardo con calore e malizia. Mi chiese come mi chiamavo. Biascicai il mio nome e cominciai a raccontargli un po’ di me. Ascoltò con vero interesse e mi interruppe nei momenti giusti per avere maggiori informazioni sulla mia vita, cosa facevo per guadagnarmi da vivere, dove abitavo, eccetera. Dette l’impressione di essere interessato alla mia squallida vita da programmatore informatico. Quando infine mi chiese nuovamente quali problemi avevo, gli raccontai di Maria e del nostro intricato rapporto. “Non hai bisogno di ritrovare lei. Hai bisogno di ritrovare te stesso. E smettila di piagnucolarti addosso.”. Il suo tono era risoluto, era una secchiata di acqua gelida in piena faccia, era il marchio di fuoco sulla fronte di cui avevo bisogno. Questo mi ricordo del nostro primo incontro. Ricordo anche che fumai una sigaretta insieme a lui e mi sorpresi del fatto che non mi aveva fatto tossire. “Benvenuto nel club dei morti.” disse quasi fra sé, aspirando una luuuunga boccata. Da quel giorno se eravamo insieme fumavamo insieme. Bevevamo insieme. Mangiavamo insieme. Guardavamo le stesse ragazze. Dopo qualche mese mi propose di andare a vivere da lui.

“Non c’è cosa migliore al mondo di un pollo tandori alle mandorle alla domenica sera.”. Mortimer aveva sempre una sua massima a portata di mano. Era l’uomo delle massime. Anche quando sembravano semplici constatazioni, avevano un che di profondo, come se fossero un mantra secolare. Soleva dire questa sua massima della domenica sera seduto sulla sua poltrona preferita, sulle ginocchia il suo piatto preferito della domenica sera, il solito film in bianco e nero e un frappè alla banana e cioccolato.

Quella poltrona che ora sembrava così vuota e stinta, come se qualcuno l’avesse messa a contatto diretto con la luce solare per anni. La pelle della poltrona era così screpolata da sembrare una carta geografica piena di fiumi e insenature. Anche quando non era presente in casa non mi arrischiavo di sedermici sopra. Era come un territorio sacro per me. Era la poltrona del pollo tandori e dei film con Bogart e Truffaut. Ci passai la mano sopra e per un attimo credetti di sentire l’odore del pollo arrostito. Lo mangiava con delle forchettine particolari. Ridicolmente piccole.

Fui strappato dai miei pensieri dal citofono. Preso da un’ansia strana mi affrettai ad andare ad aprire, ma quando davanti mi ritrovai il portinaio dell’edificio, lasciai andare un sospiro di delusione. “Salve!” fece lui. Risposi cortesemente al saluto – come soleva fare Mortimer -. In mano l’omino aveva delle carte, e fece per entrare dentro quando, senza esserne consapevole, piazzai il braccio in mezzo, in maniera molto casuale. Lui non diede segno di essersi offeso. “Ho trovato per terra queste carte, sono indirizzate a Lei, pensavo Le facesse piacere riceverle di persona.”.

Con espressione imbarazzata mi porse la posta. Probabilmente erano cadute dalla cassetta da quanto era piena. Per settimane nessuno aveva ritirato la posta. Le bollette infatti erano datate a novembre. Non ci avevo fatto caso entrando e, non avendo più le chiavi del suo appartamento, non avrei potuto comunque preoccuparmi della sua posta. Ovviamente pubblicità, solo depliant e brochure di catene di supermercati più o meno famose. Ringraziai l’omino ma anziché congedarmi riflettei se magari non era il caso di interrogarlo sulla faccenda.

“Da un po’ di tempo il mio amico pare abbia lasciato l’appartamento, senza dire niente a nessuno. Ha mai notato qualcosa di strano? Quando l’ha visto l’ultima volta?”. L’omino fece una espressione curiosa. Non eccelleva d’intelligenza a quanto pare ma era un brav’uomo.

“Amico? Ma io credevo vivesse da solo Lei…”.

Sconcertante.

“Capelli scuri, giacca di pelle nera, girava sempre con queste scarpe da trekking ai piedi…” dissi, indicandogli le scarpe. “Beh, ecco, non sono il tipo che guarda subito le scarpe…in ogni caso non ho mai visto un uomo vestito così, eccetto Lei.” Da un po’ di tempo avevo adottato il suo stile. Mi ero procurato una giacca di pelle simile alla sua e un paio di occhiali Ray Ban, mi ero lasciato crescere capelli e barba. La sera andavo in palestra e seguivo lezioni di Taekwondo. Da quella sera la mia vita era cambiata. L’omino dopo i soliti convenevoli e frasi di circostanza si congedò e ritornò nel suo appartamento al piano terra, da sua moglie e i suoi terribili due figli maschi.

“Mi chiedo cosa penseremo tra una decina d’anni, in una stanza d’ospedale, reparto oncologia, quando scopriremo che siamo mortali e che abbiamo buttato una vita nel cesso per la paura di vivere secondo le nostre regole. E ti trasformerai lentamente in uno di quei morti viventi arrabbiati e depressi, a chiederti cosa ti ha impedito a mettere in moto gli ingranaggi del tuo cervellino e a rendere realtà ciò che da tempo hai sempre desiderato. Io quel momento l’ho superato da tempo, e quello che faccio ha magari solo senso per me, ma è questo l’importante: non deve per forza aver senso per l’Altro. L’Altro è quello che viene al tuo funerale e ne approfitta per provarci con tua moglie.”

Dio, quanto aveva ragione. Ogni giorno era una lezione, un giorno di scuola. Un giorno stavamo andando al cinema e mi stava parlando di come la società moderna rifiuti categoricamente di affrontare la pesante angoscia e solitudine della gente. “Un fatto risaputo,” spiegò Mortimer, “è che nonostante tutte le tecnologie che ci permettono di comunicare contemporaneamente con migliaia di persone, l’indice di depressione e infelicità è in continuo incremento nelle società tecnologicamente avanzate.

Un dato interessante è che i suicidi si diffondono a macchia di leopardo dove la società ne enfatizza le problematiche che stanno all’origine del disagio, come durante l’ultima crisi economica. Il suicidio continua ad avere un certo fascino sulle persone. Mi chiedo, cosa sarebbe accaduto a queste persone se si fossero lasciate andare, se avessero colto l’occasione per dimenticare se stessi e scivolare tra la gente, simulando un’amnesia, andare al mare, camminare nelle foreste, guardare il cielo stellato. A volte dimentichiamo che il mondo è pieno di possibilità. Quello che ci manca è il coraggio di afferrarle, di gridare al cielo notturno che si possano tutti fottere, non c’è niente di peggio di un individuo che si dà per vinto. Fanculo, ho intenzione di lottare, cazzo, come ha lottato mia madre per mettermi al mondo. Ho intenzione di fottere la morte, come mio padre ha fatto per concepirmi. Sono nato da un orgasmo e non ho intenzione di andarmene come una scorreggia nel vuoto. Devi lottare per ciò che ritieni importante, altrimenti ne va della tua vita. E non parlo di quel meccanismo che ti permette di respirare. Le lumache respirano. I vermi respirano. Tu vivi.”

Era un concetto interessante, e io assorbivo le sue massime come uno scolaro con gli occhiali di corno. All’improvviso mi ritrovai a guardare le persone che incontravamo per strada senza timidezza, con intensità. Mortimer mi dette una pacca sulla spalla e mi alitò nell’orecchio: “Siamo tutt’uno. Non te lo scordare. Siamo figli della stessa paura.”.

E la paura di fallire, di dimenticare chi sono, di perdermi, l’ho vista cadere quando conobbi Cristina. Erano passati cinque mesi da quando lasciai Maria. Di lei persi per fortuna ogni traccia, per quanto mi ritrovai piacevolmente invischiato nell’accoglienza fraterna di Mortimer. Mortimer e i suoi consigli sulle donne.

Cristina la vidi per la prima volta al corso di Taekwondo. Fu la sua prima lezione, io frequentavo già da qualche mese. Dopo il riscaldamento ognuno dovette cercarsi un partner per l’esercitazione. La sua figura non allenata, goffa non risultò più appariscente di un vecchio mixer dimenticato su un ripiano. Mi avvicinai a lei e le sorrisi.

“Prima volta?”

“Si…”

“Beh, non è così temibile come sembra. Io sono qui da qualche mese, anche io ero un po’ dubbioso all’inizio.”

Mortimer mi diede una piccola spinta sulla schiena. Non dimenticarti chi sei e cosa vuoi. Non dimenticarti il suo volto né il suo nome. Ricordati che lei è lì e sta respirando la tua stessa aria. Falla sentire importante.

“Come ti pareva il riscaldamento?”. Fu Mortimer a parlare per me o lo dissi io?

“Mah, non c’è male. All’inizio si fa un po’ di fatica ma è del tutto normale no?”

Come si sta muovendo? Mio dio, guarda il suo linguaggio corporeo. Non andare già in brodo di giuggiole.

“Te la sei cavata alla grande!” dissi rassicurante. Lei sorrise. Il suo sorriso rischiarò di qualche grado la sala. Sentii calore in me. “Ora sentiamo cosa dice l’istruttore…”.

ORA AFFERRATE IL BRACCIO DESTRO DEL VOSTRO COMPAGNO. QUESTI DEVE REAGIRE CON UNA TORSIONE, LIBERANDOSI DELLA STRETTA E A QUEL PUNTO COLPIRE DI SINISTRO SUL COLLO. FORZA!

Lei allungò il braccio e molto dolcemente mi afferrò l’avambraccio.

“Più forte, non avere paura.”

Lei strinse di più e le feci vedere la mossa. Lei reagì ridacchiando. Una ciocca dei suoi capelli lisci scivolò dalla coda di cavallo e le ricadde sul viso. Riavviandosi i capelli mi guardò per un attimo, imbarazzata, poi distolse lo sguardo.

“Sei stata bravissima!” le dissi, uscito dallo spogliatoio. Lei era lì nella sala d’ingresso a riavviarsi i capelli con la spazzola. L’aria profumava del suo shampoo.

“Ua, dici?” rispose ridacchiando, continuando a spazzolarsi i capelli castani.

“La prima volta ero già spompato dopo i primi esercizi di riscaldamento! E non capivo mai cosa diceva l’istruttore!”

“Beh, se non mi avessi aiutato, neanche io ce l’avrei fatta…”

“Sciocchezze! Vedrai che tra qualche mese mi metterai al tappeto senza fatica!”

“Mmm, vedremo!”.

È giusto e sano innamorarsi di un sorriso? Tornando a casa mi chiesi come mai non mi sia presentato a lei, come fanno tutti. I maschi di successo, come Mortimer, l’avrebbero fatto come prima cosa.

“Hai il tuo stile, non dimenticarlo.” mi spiegò Mortimer quella sera. Stava leggendo distrattamente un libro di Bukowsky. “Non cercare di fare il bullo con lei altrimenti farai solo la figura dell’idiota. Sii te stesso, ma senza esagerare. Non devi farle gli occhi da cucciolo, almeno non nei primi tempi.”

“Sai, mi piace veramente. È proprio carina, ha il senso dell’humour e ogni volta che mi toccava il baccio mi sentivo morire.”

“Dì, non è che sei gay?”

“Per un po’ di tempo l’ho pensato ma, no, non mi piacciono gli uomini. È che sono cresciuto in mezzo a troppe donne. Deve essere stato questo. Le mie sorelle, le mie amiche…”

“Tu ti svaluti troppo, è questo il tuo problema. L’essere umano, quando sono in gioco le regole dell’attrazione, non pensa in modo razionale. Diventa come l’uomo delle caverne. E la donna ha bisogno di un uomo che le mostri sicurezza, e non di essere un fan del taglio e cucito. Quindi dimentica le stronzate che ti hanno passato le tue donne e lasciati andare. Dio, cosa ti ha insegnato tuo padre?”

“Mio padre era troppo occupato a guardare la moviola alla tv. E a indebitarsi col fisco.”

“Beh, allora…” Mortimer lasciò cadere il libro sul bracciolo della sua poltrona e si tolse gli occhiali da lettura “…dobbiamo cominciare dalla A fino alla Z con te.” disse con un sospiro alla fine.

“Ma…come ti chiami, alla fine?”

“Cristina. E tu?”

“M…Claudio.”

“Piacere!”

“Si, anche per me…”

Al bordo della palestra cominciammo a scaldarci e parlammo del più e del meno.

Ricordati che devi lasciarle una impressione. Non devi far colpo su di lei già al primo giorno. L’importante è che lei fissi un ricordo su di te nel suo cervello, e questo puoi farlo solamente parlandoci, anche solo di minchiate. Cosa importante è che creiate fra di voi una piccola complicità, un umorismo tutto vostro. Conduci tu, senza dare l’impressione di forzare troppo le cose. Lascia fare al fato, non importi troppo sul dialogo. Lasciala parlare. Utilizza in modo positivo i silenzi per lasciarle modo di studiarti. E non dimenticarti di far l stessa cosa pure tu. È il corpo che parla, in quel momento il cervello di entrambi produce troppe stronzate. Se ti dà l’impressione che lei usi troppo il cervello, allora vuol dire che non è cosa. Rimani lì a parlare di minchiate, non è successo nulla.

Facile per lui, pensai. Lui la domenica mangia il pollo tandori e gli basta uscire con la sua giacca di pelle e i Ray Ban per farsi rimorchiare da una tipa. Da più tipe, in una sola serata!

Qui sbagli bello. Io non sono solo bravo con la lingua, lascio parlare il corpo. Cioè, ovvio che con la lingua sono bravo, ma non in campo linguistico, non so se intendi.

C’è che con Cristina andava alla grande. Dopo le lezioni ci fermavamo ogni tanto a parlare nel parcheggio, poi ci spingevamo sempre più in là: nel pub lì vicino; al ristorante cinese sotto casa mia e di Mortimer; al giapponese a due isolati da casa sua. Dopo la serata ci salutavamo e insieme tornavamo a casa, magari inciampando sulla stessa sporgenza del marciapiede, distratti e confusi. Lei e il suo ragazzo, un rapporto in crisi da tempo. Fino a che la invitai a casa mia – Mortimer era in vacanza al mare con una tettona -, a mangiare una pasta e a bere del vino. Lì riuscii a toccarle una spalla. Reagì con indifferenza. Quella sera, dopo che se n’era andata, mi aprii un’altra bottiglia di vino e mi ascoltai Billie Holiday fino allo sfinimento. Barcollai fuori dall’appartamento e andai in cantina. Presi il sacco da boxe e lo portai su, lo agganciai e cominciai ad allenarmi ubriaco.

Dopo la doccia mi lasciai cadere sul letto e cominciai a singhiozzare.

Per dio, che cosa stai facendo?

Sto male.

Hai già buttato la spugna! Tirati su e non lasciarti vincere dai tuoi pensieri negativi!

Non importa. Qualsiasi cosa inizi, diventa merda.

Questo lo vuole pensare quella tua parte che vuole morire con i rimorsi. Quella parte di te che non vuole accettare di essere felice. Di comportarti da persona felice. Per cui comincia a rimboccarti le maniche e a pensare alle tue prossime mosse, invece di lambiccarti il cervello sulla prossima piacevole fase di autolesionismo.

Fanculo, tu non sai che vuol dire. Sei nato vincitore.

È tutta una questione di apparenza, ciccio. Io sono come te. Si può dire che io sono te.

Non dovrei solo immaginarmi cose dove non esistono. Interessi dove non sussistono.

Arrendersi è la forma di autocompatimento più evoluta. Se vedi l’ostacolo più grosso di quanto è in realtà, è perché hai già deciso di non saltarlo. Devi solo chiederti cosa vuoi veramente. In un combattimento è normale perdere un po’ di sangue dal naso.

Notai che la porta dell’armadio dove Mortimer aveva le sue cose era mezza aperta. La giacca di pelle nera e i jeans. Probabilmente i Ray Ban e le sigarette infilate nelle scarpe di pelle. Mi alzai dal letto, con una strana sensazione nel corpo. Come se un serpente che cambiava pelle.

Non avevo poi molto da fare in quell’appartamento. La poltrona, il televisore, il posacenere a forma di teschio. Quanto Mortimer c’era lì dentro, e quanto c’era rimasto di me? Da quella sera in cui andai a suonare il campanello di Cristina, la folle corsa, le scarpe di pelle che scalpicciavano sull’asfalto, le prime avvisaglie di un’estate torrida. Ma la camicia e la giacca di pelle erano indispensabili. Mortimer avrebbe detto Non ci sono porte chiuse, solo chiavi difettose. Suonai il campanello, Cristina scese giù. Aveva gli occhi lucidi. Ci guardammo intensamente per dei secondi.

“È che…non posso fare a meno di pensarti, di scaldarmi al tuo sorriso, e per me stare lontano da te è la peggior tortura…io…ho bisogno di te, e se non è cosa allora girati e io non ti disturberò più…ma se sono sicuro di una sola cosa nella mia vita, è che ogni tuo sguardo mi dice il contrario di quello che fai…vedo il mio stesso desiderio che mi…mi scuote ogni giorno come un tornado…”

Bella ‘sta cosa del tornado…, mi disse Mortimer.

Lei non si girò. Si avvicinò a me, le misi la mano sul collo, per un secondo rimasi come inebriato dal suo odore, poi sprofondai nel suo umido bacio…

Alla fine trovai le chiavi dell’appartamento. Erano nella tasca interna della sua giacca di pelle. E non mi rimaneva che una cosa da fare: presi il mazzo di soldi, le sue scarpe, le sigarette, e chiusi la porta alle mie spalle. Una volta fuori mi accesi una sigaretta e buttai i miei occhiali da vista per terra, sostituendoli con i Ray Ban. Camminando a schiena dritta, i muscoli delle spalle nuovamente tonici e i movimenti da pantera di Mortimer. Parlando fra me come Mortimer soleva fare, guardando il mondo come Mortimer, Mortimer il Sicuro, l’Uomo delle Soluzioni, delle serrature che si aprivano e dalle massime da domenica. Uno che conoscevo bene, quasi come me stesso.

 

Ratisbona e uomini in calore

dicembre 21, 2015

Ci sono occasioni, quelle che contano, che non vanno sprecate, neanche se il rischio é di perdersi in strade ammantate di nebbia e vapori alcolici. Ci sono strade che si assomigliano, visi sconosciuti che diventano familiari. Ci sono famiglie, segreti, opzioni, conti da pagare e alternative da vagliare. C’é che il Glühwein venduto nei mercati di natale a Regensburg ha la capacità di colmare di calore stomaci pettinati da emozioni sconclusionate e confuse, la complicità cercata in sguardi che faticano ad emergere tra strati di memorie, come scorci di paesaggi a diecimila metri di quota.
Quattro inveterati personaggi di una storia che inizia con una birra e finisce con un’altra, come a ricordarci di quanto la vita sia sorprendemente circolare e fatta di decisioni tutte uguali prese in tempi diversi. Questi quattro personaggi hanno nomi diversi per ogni storia, a seconda del tipo di missione. Il Braunbär si é dimostrato ancora quel caro ospite che ricordavamo, amabilmente inopportuno e donnaiolo. Se non stavamo attenti, rischiavamo di finire in un vortice viulento di follia autodistruttiva, ma la prossima volta deporremo le ultime difese e diventeremo una minaccia per noi stessi e per gli altri. Ogni volta mi chiedo quanto più in là riusciremo a sporgerci dall’orlo senza cadere di sotto, come il Bestia che pisciava sul Danubio.
Testa di Torpedine ha poi ritirato l’assegno ballerino giù alla Reception. Ma di telegrammi neanche l’ombra. I messaggi dalla Zeta Press Group si diradano lentamente ma inesorabilmente come i miei capelli.
E ora? La prossima missione? Che ne sarà delle nostre competenze, quando perderemo ogni speranza, inibizione e rispetto per le regole? Cosa possiamo mettere da parte per arricchire il nostro equipaggiamento da assalto?
Ho un solo fragile grosso dubbio. Chi avrà il coraggio di prendere il toro per le palle e spingere l’acceleratore sulle nostre potenzialità, prima che ci scoprano? L’eventualità di assumere un atteggiamento paranoico é cosi seducente che prima o poi dovremo disporre un avvocato alle nostre dipendenze.
L’ aereo sta per atterrare su Hamburg e prima delle vacanze natalizie ho delle cose da sistemare, strade da seguire e ponti da costruire. Chissà dove mi troverò durante la prossima missione. C’é che una signora al mio fianco, sull’aereo, é leggermente pazza, oppure ha capito che il mondo é pazzo e il conformismo é l’unica strada per non impazzire.
Alla prossima!

La Storia (non) siamo Noi

novembre 19, 2015

Probabilmente scrivendo questo articolo – così come migliaia se non milioni di persone nel mondo – penso di riuscire a fare ordine e a dare un senso a ciò che vedo e percepisco, che leggo o che semplicemente mi investe durante la giornata. Nulla di più assurdo. I tempi in cui viviamo sono caratterizzati da una complessità senza uguali, complici le tecnologie odierne e i sistemi di comunicazione. Sinceramente se qualcuno dovesse chiedermi come funziona un computer non saprei spiegarlo nei dettagli, anche se intuitivamente ne comprendo il meccanismo. Non saprei dire come si fabbrica una lampadina, o un tubetto di dentifricio, e farei la figura dell’idiota se provassi a spiegare ad un indigeno del Madagascar o della Polinesia la differenza tra il Capo dello Stato e la figura del Presidente del Consiglio, come vengono votati etc. La mia è ignoranza pericolosa, e il polinesiano si chiederebbe come riuscirebbe a vivere nel suo villaggio se non sapesse come costruire una capanna o una rete per pescare, o come viene eletto il capo villaggio e che funzioni pubbliche ha lo sceriffo del paese. Insomma, ai suoi occhi sembrerei un coglione. E avrebbe ragione.

Per questo l’Ignorante che scrive questo articolo, consapevole della sua ignoranza, cerca lo stesso, in modo imbarazzante forse, di dare un ordine alle idee raccolte in questi giorni, ai fatti di cronaca che hanno investito lui come il resto del mondo. Cercando di fare chiarezza, esprimendo un’opinione il più possibile sgrassata dalle tipiche conclusioni che la stampa e i media – compresi i social network – pubblicano sull’onda del sasso lanciato nello stagno. Tempo un mesetto e l’acqua dello stagno tornerà nuovamente tranquilla, e ci stupiremo di come l’umanità sia pronta a pensare ad altro anche dopo un evento simile. Ad esempio agli acquisti per le feste natalizie.

Naturalmente parlo del massacro di Parigi e delle vicende che hanno preceduto e seguito tale avvenimento. In primo luogo della lunga scia di terrorismo che il conflitto tra Occidente e Medio-Oriente si è lasciato dietro, passando dal sostegno da parte di Gheddafi al terrorismo internazionale (a quanto pare sembra abbia anche finanziato l’IRA irlandese), all’irruzione di un gruppo di palestinesi addestrati nella palazzina che ospitava gli atleti della delegazione Israeliana (Olimpiadi, Monaco di Baviera anno 1972) e all’uccisione degli ostaggi a seguito dell’intervento della polizia tedesca, i vari dirottamenti aerei che l’undici settembre 2001 hanno poi portato allo schianto di apparecchi civili su edifici ritenuti di importanza strategica, gli attentati a Madrid (2004) e a Londra (2005) – poco citati tra l’altro –, l’attacco alla sede della rivista Charlie Hebdo, un tentativo di strage su un treno in Europa sventato da due Marines in vacanza e infine l’attentato (gli attentati) a Parigi. Citando i più famosi. Non scordiamoci delle esecuzioni nel continente africano da parte dei terroristi che costarono la vita a turisti/impiegati europei e non. La risposta dell’Occidente (in primis gli USA) in molti casi fu altrettanto violenta e a volte, pensando alla dichiarazione di guerra all’Iraq dopo l’attentato alle Torri Gemelle, centrata su un falso obiettivo. Si pensa che molte nuove organizzazioni terroristiche siano nate dalle ceneri dei conflitti in questo territorio. Dopo la Seconda guerra del Golfo e la deposizione di Saddam Hussein il mondo occidentale riuscì a istituirvi un governo provvisorio. A quanto pare si ritenne Saddam Hussein responsabile di tutto ciò, della nascita di Al-Quaeda etc.

È interessante notare come le diverse nazioni del mondo occidentale non si siano sempre trovate d’accordo su come affrontare tali conflitti. Ad esempio, prima dell’attacco terroristico alle Torri Gemelle, Francia e Germania avevano criticato l’intervento delle forze armate statunitensi nel febbraio di quell’anno, e l’ONU mantenne una certa distanza dalla risposta dell’asse anglo-americano all’attentato. Credo che questo elemento, e cioè il raro allineamento nelle decisioni e negli interventi su scala mondiale da parte delle nazioni dell’Occidente, giochi a favore delle forze politiche ed economiche che stanno dietro le organizzazioni terroristiche.

Negli ultimi anni l’Europa ha dovuto d’altronde far fronte a diversi problemi di politica interna e con i suoi diretti vicini (si pensi al conflitto tra Ucraina e Russia). Oltre ad una crisi economica che ha investito tutto il mondo, l’Europa ha negli ultimi mesi dovuto gestire il passaggio e l’ingresso di una moltitudine di rifugiati provenienti dalla Siria, con tutte le conseguenze che tale onda migratoria può portare, dal punto di vista umanitario e sociale, di politiche, di gestione dell’emergenza, sanitarie etc..

Quello che mi incute più timore è riconoscere la possibilità che questo conflitto possa diventare infinito. Personalmente non vedo soluzioni. Sarò magari pessimista, ma non credo si potrà un giorno arrivare alla pace fra queste opposte fazioni. Semplicemente perché il mondo che sta dietro il terrorismo di matrice estremista non otterrà mai – per lo meno alle sue attuali condizioni – ciò che vogliono. Qualsiasi cosa vogliono, il mondo occidentale non gli permetterà mai, a questo stato di cose, di prendersi ciò che desiderano avere. È una lotta di potere sbilanciata, altrimenti non sarebbero ricorsi al terrorismo. L’Occidente può chiudere tranquillamente un occhio e dormire beato davanti a conflitti più terribili, dove OGNI GIORNO vengono mietute vite equivalenti a due Parigi, in lotte di potere che a volte vengono più o meno apertamente sostenute da alcuni Paesi ritenuti “civili e democratici”. Gli estremisti di matrice islamica operano in tutto il mondo, dall’Asia all’Africa passando dai continenti in mezzo, dall’emisfero Nord al Sud. Grazie alle politiche di immigrazione – e questo non vuol essere un accenno discriminatorio ma un dato di fatto – celle terroristiche crescono in seno a società che in un modo o nell’altro contribuiscono a questo status quo. Tali Nazioni hanno in agenda interventi – anche militari – di cosiddetta pacificazione in regioni di importanza strategica – vuoi per le risorse interne che per questioni legate all’equilibrio delle politiche nel mondo. Per colpirle pesantemente e piegarle al loro fine, e cioè alla modifica di questo equilibrio, di questo status quo mondiale. Ci si chiede cosa consegue ad un atto terroristico. Di sicuro una risposta a livello politico su scala mondiale. Ogni volta che viene accesa una miccia e migliaia di innocenti perdono la vita in luoghi d’importanza strategica i Capi di Stato sono costretti a prendere delle decisioni, anche se poco tempo prima cercavano di mantenersi distanti dal conflitto. Cosa comporta per i terroristi? La Francia ha risposto con i bombardamenti sopra Raqqa.

Vengono prese delle decisioni di politica interna che tendono ad un maggior controllo alle frontiere e ad una maggiore sorveglianza, quindi si va a finanziare e sostenere la difesa del territorio, con interventi passivi e attivi. Senza dimenticare lo spionaggio e i servizi segreti, che vengono rafforzati. Negli USA, a seguito dell’attentato alle Torri Gemelle, sono state varate leggi apposite per garantire la sicurezza della popolazione, rincarando la sorveglianza sulla stessa. Uno si chiede in effetti come questo possa portare vantaggi alle forze politiche che manovrano e sostengono – con somme vertiginose e appoggi da diverse Nazioni probabilmente – il terrorismo internazionale. L’uomo comune non lo saprà mai, se non tra parecchi decenni, quando uno storico raccoglierà abbastanza informazioni da poter scriverci qualcosa di oggettivo sull’argomento. Noi ci dobbiamo limitare a pagare le tasse e a condurre la nostra vita senza porci troppe domande.

Penso solo che le forze che manovrano dietro i terroristi sono consapevoli del fatto che l’Occidente vive ogni giorno conflitti interni, indecisioni, disaccordi tra le nazioni e tra le opinioni dei singoli individui. La nostra è una società che si vanta della propria varietà e libertà. Siamo gli stessi che si lamentano degli effetti dei media sul nostro stile di vita e di pensiero, quando poi non possiamo fare a meno di guardare i filmati pubblicati dai media ricavati dalle videocamere di sorveglianza a Parigi, o riferenti lo schianto dei Boeings 767 sulle Twin Towers. I terroristi sanno che nella nostra società certi atti eclatanti diventano una ossessione mediatica, e le ripercussioni sulle decisioni in ambito della sicurezza e di politica esterna sono direi facilmente prevedibili.

Una parola sui terroristi. Sono persone come noi. Hanno vissuto a lungo a Parigi, alcuni sono addirittura nati e cresciuti in Europa, allevati negli asili nido e poi educati nelle scuole pubbliche. Prole di famiglie magari fuggite da conflitti e che hanno provato a integrarsi in una società e cultura diversa come quella occidentale, ad imparare una lingua, ad accettare e convivere con le differenze di tutti i giorni.

La propaganda di queste organizzazioni trovano effettivamente – come spesso avviene in altri ambiti di estremismo politico – delle menti facili da plasmare. Non perché siano stupidi. Ognuno di noi nella sua vita si è fatto abbindolare, almeno una volta, da personaggi carismatici e preparati a farti cadere nel tranello. Chi ci vuole vendere una polizza assicurativa che non ci serve, o l’abbonamento ad un rivista, all’appartenenza ad un gruppo politico rivendicativo, fino al compimento di atti contro la legge o criminali. Qui la religione c’entra poco, un pochino si, ma si parla soprattutto di propaganda e di una organizzazione preparata al reclutamento di migliaia, se non milioni, di terroristi pronti al massacro e a immolarsi sull’altare – della Patria, della Religione, dell’Ideale – di qualcosa che nella loro umile vita non avrebbero potuto mai raggiungere. Nella storia del terrorismo dobbiamo a volte confrontarci con ritratti di individui completamente normali sulla carta, gente che verrebbe assunta dopo un colloquio di lavoro. Gente laureata, come la mente che progettò il rapimento e infine la morte degli atleti israeliani nel ’72 a Monaco di Baviera. Spesso sì, è vero, si tratta di gente a volte mentalmente ritardata o con problemi psichici, oppure solo disperata. Ma anche di individui completamente in sé, a prima vista. Chi a volte non si troverebbe a rinunciare ad una vita normale per inseguire un ideale? Certo, assassini, assassini a sangue freddo di persone disarmate, infami, stronzi, bastardi e tutto, ma pronti a farsi saltare con una cintura di esplosivo in mezzo a della gente, magari la stessa gente che ti comprava il Kebab una domenica e si fermava a parlare con te di calcio. Uno di loro aveva guidato i bus a Parigi, secondo alcune indiscrezioni, come a voler dipingere sotto una diversa luce dei terroristi che una notte hanno deciso di spostare la Loro Guerra in territorio europeo, come per volerci dire: siete anche voi in guerra, non fate finta di niente.

Lo siamo veramente? Ai tempi dei nostri nonni si era in guerra quando il Capo dello Stato, Cancelliere, Duce, Re o qual si voglia personaggio con potere esecutivo in Patria dichiarava guerra ad un’altra nazione. Quindi c’erano invasioni, bombardamenti, coinvolgimento di forze alleate, tregue, armistizi e processi di pace. Morivamo in milioni, come mosche, civili e milizie, anche di fame dopo la pace dichiarata. Ora sembra di ritrovarsi in guerra con il proprio vicino di casa, il venditore di Kebab, l’autista del 36 barrato. Da quando siamo in guerra con questi popoli, con queste nazioni? Ci siamo accorti del fischio d’inizio o il tutto è stato concertato alle nostre spalle? Cosa è Pace? È quella che la nostra società cerca di ottenere grazie ad un equilibrio politico ed economico, fatto di alleanze e sostegni finanziari a determinate classi politiche accoglienti rispetto allo sfruttamento di certe risorse naturali?

Non bisogna vedere le cose, secondo me, sotto una luce complottista. Questo è il mondo che vogliamo e che ci siamo costruiti fino ad adesso, stiamo bene con queste alleanze, questa libertà e la Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo. Chiaro che una determinata visione non può essere da tutti accolta bene. È un gioco di forze. Un giorno una si indebolirà e cadrà. Quel che disturba è che in nome di Ideali si debba rinunciare alla dignità di una Vita dignitosa. A questo prezioso dono, che ogni giorno distruggiamo per il Potere. Per questo dico che è inutile e forse dannoso parlare di scontro tra culture e di religioni. La religione non c’entra. È in gioco una lotta fra forme di potere, tra forze che non conosciamo ma di cui percepiamo ogni giorno l’influenza, quando spremiamo il nostro tubetto di dentifricio e usiamo il nostro computer. Non sappiamo quel che c’è dietro, ne conosciamo – a volte bene a volte no – solo le modalità di utilizzo, come spiegato all’inizio del mio articolo. Mi chiedo se ci possa salvare sapere cosa c’è dietro. Credo di no.

Nella conclusione dovrei dire qualche frase ad effetto, come ad esempio “ne usciremo vittoriosi” oppure “ne usciremo arricchiti di esperienza”, insomma qualche cosa che dovrebbe far sperare le persone in un futuro migliore. Non ci saranno futuri migliori. Vivremo sempre con gli stessi presenti. Non cambieremo il corso della Storia, ne faremo parte magari un po’ più coinvolti e presenti, grazie alle tecnologie della comunicazione, ognuno di noi avrà qualcosa da dire e da scrivere, ma in sostanza ripeteremo gli stessi errori. È la nostra croce. È il nostro terrore.

PREMESSA

Come scrisse Pierangela in un libro sul paranormale, la gente tende ad abituarsi a tutto, anche alle cose più improbabili. E gli umani andrebbero a farsi due spaghi con gli alieni dopo un po’ di tempo.

Quel che Pierangela non avrebbe potuto prevedere, è la facilità con la quale certi temi di attualità potessero diventare famigerate catene di Sant’Antonio su piattaforme telematiche di massa come Facebook. Inutile dire che, grazie a Facebook, certi argomenti possano diventare addirittura noiosi, nonostante siano a prima vista scoppiettanti, turbanti, eclatanti, eccetera. Gente che si decapita in diretta con una motosega per sbaglio, culi scoppiati, tette giganti, cani che giocano con i gatti, maiali che inculano uomini di mezz’età, alieni, mezzeseghe che rappeggiano, e via dicendo.

Cosa avrebbe detto Pierangela di quella muffetta che si creava sulle ferite, un micelio simile alla pennicillina, che dopo qualche giorno – se non ora – riparava il danno su un organismo umano?

Vennero mostrati dei video dove dei tipi si tagliavano apposta una mano per poi mostrare ad alta velocità il processo di guarigione causato dalla muffa biancastra. I primi casi in ospedale furono trattati con diffidenza, poi però qualche medico si convinse del fatto che avevano assistito ad un evento naturale, causato da un microorganismo particolare, che isolarono. L’equipe di medici si affrettarono a trovare una spiegazione biologica al meccanismo di riparazione, e riprodussero il processo in laboratorio.

All’inizio al tema si dette largo spazio sui giornali e sui vari Media, dopodiché divenne talmente noioso che qualcuno ci costruì delle teorie complottiste. Dopo qualche mese su Facebook comparvero dei video dove una casalinga trentenne di Rovereto spiegava che quelle scie che si vedevano sui cieli erano strisce di materiale fungino, spruzzate da droni notturni provenienti dalla Russia e dall’Ungheria. Il video era girato nella campagna d Rovereto e sul cielo erano visibili le strisce di micelio e anche qualche traccia di radiazione solare. Per contro, la casalinga aveva anche grosse pocce. Il video divenne virale, e non grazie ai contenuti.

Pierangela decise di salire sullo Shuttle che partiva verso la Luna per un tentativo di colonizzazione del satellite. Il suo ultimo sguardo lanciato sul pianeta blu fu pieno di commiserazione e malcelata rassegnazione. “Che cazzo di idioti.” disse, prima di aprire un Mac e iniziare il suo diario di bordo.

Shuttle AK2000778 – US, computazione temporale a partire dall’Avvento della Robiola: 1 anno, 2 mesi, 3 giorni, ora Greenwich 02:45.

Qui tutto a posto. Lo Shuttle è appena uscito dall’orbita terrestre e si appresta al primo di una serie di viaggi nel Cosmo.

Prima tappa: Luna, satellite della Terra. Poca acqua, tanta sabbia, discreta quantità di metalli utili alla costruzione della prima Colonia.

Mio figlio Albertangela ha iniziato la procedura di diversificazione sessuale. Presto sarà adatto ad ospitare un embrione umano e darlo alla luce dopo nove mesi esatti di gestazione in tutta tranquillità sulla nuova Colonia Lunare. Abbiamo previsto di poter arrivare ad una decina di individui autonomi nei prossimi vent’anni, in grado di replicarsi autonomamente e di dare il loro contributo ad una società perfetta. Se non va tutto a puttane per colpa di un embrione sfasato, direi che tra un centinaio di anni potrò finire di costruire una navicella ad anti-materia e iniziare il processo di colonizzazione del Sistema Solare. Dopodiché credo di poter contare su mio figlio per esplorare l’altro versante della Via Lattea, sfruttando la Teoria del Saltello di Morey & Conch. Per quella data ho in mente di fondare un governo di Illuminati e non avrò testa per altri viaggi.

Detto questo, non oso pensare cosa capiterà all’Umanità tra una decina d’anni. Se mi permettete, sono troppo vecchio per queste puttanate.

Addio Terra. Quanto Ti ho amato.

Pierangela.”

Quella notte, nella campagna di Cinisello Balsamo, la Polizia effettuò il suo sopralluogo. Oltre ad una manciata di capelli, sangue e qualche traccia biologica, all’interno del veicolo disintegrato da uno o più ordigni non furono trovate salme. Sul pavimento trovarono dei frammenti di siringhe usate, per cui decisero di far rimuovere la carcassa dove la serie di accertamenti dovuti. Nessuno parlò più del massacro a Villa Smaila e dopo qualche mese le acque si calmarono. I frammenti di un Vivarò trovati nelle immediate vicinanze della vettura sconquassata furono messi in rapporto, ma il furgone mai più identificato.

A Ratisbona, in Germania, Freccia e Asso andarono a trovare il Braunbaer, per rilassarsi e dimenticare le ultime vicende. Il Bestia partì per gli Stati Uniti, l’avevano invitato ad una Università per parlare di Guerrillapress. Fece il suo ingresso nell’aula magna con parti di procione attaccati al corpo nudo con loctite. Il rettore gli consegnò alla fine del suo intervento un fucile Kalashnikov con calcio placcato in oro ed un coltello da caccia Remington. Il Bestia scoppiò a piangere e decise di fermarsi per una settimana pagata in California, per studiare le abitudini degli indigeni e fare una ricerca sull’uso delle armi da fuoco sulla Westcoast. Proprio a quel punto, in quel preciso istante, mentre il Bestia prese quella decisione, il Cavaliere subì un attentato a Napoli, durante un Congresso del suo partito.

All’uscita del Palazzo Pittarello di Napoli il Cavaliere fu subito contornato dai giornalisti. Una di queste si abbassò ulteriormente il corpetto per mettere in risalto la scollatura vertiginosa. Il Cavaliere dovette rivolgerle tutta la sua attenzione e prestarsi al gioco mediatico.

A poche centinaia di metri dal crocicchio che si era formato attorno al Cavaliere e alle sue guardie del corpo, attendeva un quarantenne dall’aria selvatica. Basso, corporatura tozza, sguardo spento dai numerosi spinelli, mascella pronunciata, capelli radi e riccioli. Lo stile inconfondibile che lascia presagire un certo gusto per gli slip usa e riusa. Macchia Gialla. Così lo chiamavano i suoi amici più stretti. Lui in realtà si chiamava Silvano, e una sera di due settimane fa si era messo in testa di attentare alla vita de Cavaliere. I suoi amici non lo presero sul serio, come sempre d’altronde, e s’incazzo per questo. Scappò dal locale gridando “Non dico solo stronzate!”, e sbatté la porta dietro di sé, incrementando il volume delle risate. Camminando per i vicoli di Rosta si asciugò le lacrime e decise di passare alle vie di fatto, di immolarsi per la causa. Un giorno inforcò l’ape e fece degli acquisti. Poi si chiuse in casa e si allenò.

Si guardò un giorno allo specchio e si disse: “Stai parlando con me? Ci sono solo io. Stai parlando con me?”. Andò avanti così finché non riuscì a memorizzare la parte alla perfezione, tanto da poter dire la frase anche nel sonno. “Stai parlando con me? Stai parlando con me? Forza, fatti avanti!”. Un mattino comprò il giornale e una rivista porno all’edicola della stazione. Arrivato a casa si chiuse in bagno per un quarto d’ora e poi fece colazione leggendo il giornale. Un articolo catturò la sua attenzione. Capì che il suo momento era arrivato. Ritornò all’edicola, restituì il giornale e la rivista stropicciata e comprò un biglietto per Porta Nuova a Torino. Da lì prese un treno per Napoli e dopo una mezz’ora si ritrovò nella piazza davanti a Palazzo Pittarello. All’interno della giacca nascondeva uno strano fardello. Era venuto il Suo momento. Finalmente sarebbe diventato famoso, finalmente le donne gliel’avrebbero data, per lo meno volontariamente e senza dover pagare. Magari avrebbero pagato lui per far sesso. Magari sarebbe diventato una star del cinema. Silvano era pronto più che mai. Si allentò la giacca e partì diretto verso il gruppetto di giornalisti che si assiepavano intorno al Cavaliere, che stava parlando ancora con la vaccona scollata.

– Ho intenzione di prorogare la data della consegna del progetto di partito, devo prima sedermi ad un tavolo con le autorità designate e tracciare le linee di un protocollo d’intesa. Il Presidente del Consiglio non ha, ripeto, non ha poteri decisionali sulla mia entrata nel campo politico. Suppongo che i poteri delle Toghe Rosse siano arrivati fino alle porte di Palazzo Madama e che…ma chi è questo qui? –

Silvano si fece largo tra i reporter e si sbottonò il giaccone militare. Imbracciò l’arma e la brandì verso il Cavaliere, che non fece in tempo a ritirarsi tra le sue Bodyguards. Un enorme pezzo di spalla di maiale stagionata dal peso di ventidue chili gli arrivò sul capo, fratturandogli un paio di vertebre cervicali.

– AAAAHHH-AAAAGH! –

La faccia di Silvano si deformò dal piacere, i giornalisti si allontanarono giusto quel poco per poter riprendere la scena. Le guardie del corpo si ripresero dalla sorpresa e si avventarono contro Silvano per disarmarlo dal suo prosciutto San Daniele, che invece di assistere inerme alla sua disfatta, decise di non arrendersi e di vendere cara la pelle. Indietreggiò di un paio di passi caricando nello stesso tempo il prosciutto per il prossimo giro, lo fece roteare colpendo alla giugulare uno dei gorilla, che si accasciò per terra. Con un colpo di reni Silvano si caricò nuovamente il prosciutto dietro la spalla – spalla contro spalla – e lo lanciò contro gli altri due, fratturando rispettivamente una mascella e il lobo temporale di un cranio. Il primo dei due l’aveva colpito solo di striscio, ma questi si portò una mano sulla mascella fratturata e guaì di dolore. L’altro entrò in coma. Il prosciutto cadde per terra. Silvano vide che il Cavaliere stava scappando con un’altra guardia del corpo verso la macchina, che stava sopraggiungendo a velocità sostenuta. Un lampo di genio attraversò i neuroni di Silvano. Raccolse il prosciutto e lo lanciò vigorosamente verso l’auto blu che arrivava. Il salume sfondò il vetro antiproiettile e la faccia dell’autista, che perse il controllo del veicolo. Il cavaliere fu falciato dall’Audi in piena accelerazione che andò a schiantarsi contro un paracarro in cemento armato a forma di panettone. Il Cavaliere decollò e atterrò dopo una decina di metri. Silvano gli si avvicinò, pronto a dirgli la frase ad effetto che si era studiato a lungo.

– STAI…EHM…PARLI? CHI? EH? LO VUOI? VUOI…EHM…ASSAGGIARLO? EH? –

– Che…cazzo stai…dicendo, pirla? – riuscì a dire il Cavaliere. Così capì che, in questo pazzo mondo pieno di Toghe Rosse e traditori, cene di gala e inviti in tv, robiola e vino rosso d’annata, bastava un solo cretino con un prosciutto San Daniele a rovinargli la festa. Un cretino che gli alitava frasi senza senso sulla faccia. Ma forse non tutto era perduto, pensò, prima di scivolare nel buio completo.

Silvano fu immobilizzato da un Carabiniere e portato via, tra gli applausi della gente accorsa per il frastuono. Non si capì però se applaudivano a Silvano o al Carabiniere. Forse a tutti e due.

Silvano levò due dita in segno di vittoria, poi se le portò alla bocca e fece un gesto osceno. Di lì a poco si guadagnò la stima di buona parte del popolo europeo.

Gli dettero due anni di reclusione in un carcere psichiatrico e quando tornò libero divenne famoso nella decima puntata del Grande Fratello belga. Non dovette più pagare per fare sesso, questo è chiaro come il sole. Fondò un partito. Lo chiamò San Daniele Due Punte. Avrebbe vinto le Primarie in Italia pochi mesi dopo la prima ondata di Zombies.

– LA DROOOGAAA! – disse in un alito di voce secca Freccia, sollevando il capo dal tavolaccio sopra il quale si era addormentato. Il locale era fiocamente illuminato, un boccale di birra semivuoto davanti a lui e un cerchio di facce dubbiose. Asso lo aiutò a sollevarsi e lo trasportò fuori dal locale rumoroso. Fuori l’aria fredda di Monaco di Baviera rischiarò le idee di Freccia, che si guardò intorno con occhi vacui. – Maledetta ricottella! Che io sia dannato per l’eternità! –

– Suvvia, non sarai ancora depresso per la storia della Robiola Osella? – fece Asso, nel tentativo di tirar su l’animo del suo compagno. – Abbiamo liberato Laso e il caso è chiuso, non hai motivi per preoccuparti e passare tutte le serate a marcire in un pub, marinato nel tuo stesso vomito! –

– Quanti soldi ci sono rimasti? –

Asso sospirò e guardò nel portafoglio. – Cinque rosse e una blu. –

– Bene, andiamo un po’ all’HB! –

– Beh, stasera sarebbe solo la terza volta. Magari questa volta non importunare le cameriere. – disse per la seconda volta Asso, all’apice della stimolazione ghiandolare. L’ultima cameriera che Freccia aveva importunato gli si era seduta sulle ginocchia, ubriaca e gonfia di ormoni. Freccia se le buscò solo quando tentò di slacciarle il reggipetto, altrimenti la tipa ci sarebbe stata. Ubriaca ma non stupida. Freccia ci rimase male. Dovette portarlo fuori di peso e mettergli sotto il naso uno stinco di maiale croccante per distrarlo. Asso capì che quella era l’ultima volta che mettevano piede a Monaco, per cui decise di rilassarsi e lasciar perdere tutte quelle questioni legali sulla molestia sessuale. Freccia trovò una giacchetta verde da quelle da cacciatore lungo una via e decise di indossarla, per non essere riconosciuto. Pessima idea. Era il classico punto illuminato in mezzo alla folla indistinta. Ordinarono da bere questa volta al lungo bancone. L’orchestra suonava un pezzo vecchio e la gente danzava sui tavoli. Tutto normale in un sabato sera a Monaco. Persino noioso. Freccia odiava annoiarsi. Così presero i loro boccali e senza dire niente ad Asso, Freccia cercò di individuare l’ultima cameriera con cui aveva tentato di attaccare bottone. Aveva un piano ben preciso. Staccatosi dal suo compagno – che stava per l’appunto cominciando a rilassarsi e a vedere le cose da un altro punto di vista – si diresse verso l’ignara tedesca con passo deciso. Pochi istanti dopo venne lanciato in aria dalla porta d’ingresso da un paio di energumeni dall’aria truce fatti di crack e atterrò sull’asfalto, in mezzo alle risate di turisti giapponesi. – Non è finita qui, bastardi! –

In Italia cominciarono a sopravvivere persone dopo gravi incidenti stradali. Un motociclista fu portato al Pronto Soccorso quasi del tutto decapitato da una lamiera, in condizioni critiche. Ci fu un arresto cardiaco. Poi lentamente il collo gli si ricoprì di una strana pellicola biancastra, dall’aspetto vellutato. Nel giro di pochi giorni era nuovamente in grado di parlare.

Umberto Smaila era tornato in televisione. Il suo aspetto curato non lasciava intendere di aver perso quasi del tutto il suo culo in una esplosione ovattata partita dal suo retto. Il suo culo non era mai stato così in forma. C’è chi disse che la sua assenza dallo schermo era giustificata da una operazione di chirurgia estetica segreta. Magari una liposuzione. Il suo aspetto un po’ emaciato metteva in ansia i suoi collaboratori. Cancro? Un virus contratto durante la liposuzione? Smaila andò a trovare il Cavaliere in ospedale. Insieme misero in piedi un nuovo ed esaltante progetto televisivo. Lo chiamarono COLPO ENORME, con la collaborazione di Rocco Siffredi in veste di intrattenitore.

Qualcuno si lamentò della mancanza di programmi di divulgazione scientifica. Pierangela aveva lasciato la RAI, si disse che stava progettando qualcosa di grosso con la sua famiglia. Non rimase che il tipo di “Misteri”. Un reportage sulle scie di miceli nel cielo convinse buona parte della popolazione che il governo russo stava per ridurre gli europei in schiavitù, grazie a questo fungo. I medici invece continuarono a studiare le proprietà del micelio, che si rivelò una panacea sensazionale. Curava di tutto, evitava la morte per traumi fisici e allungava la vita. Riportava a volte la gente ad una vita normale dopo un coma, come successe con il Cavaliere. Niente più disabili.

Il mondo si riempì di idioti che si facevano riprendere dagli amici mentre con metodi ricercati cercavano di staccarsi pezzi dal corpo, pur di diventare famosi. Uno su una Kawasaki volle fare un frontale spettacolare sulla tangenziale con un tir. Lanciato a folle velocità in contromano venne ripreso da un paio di amici al bordo della tangenziale al punto previsto per lo scontro frontale. Il motociclista sfondò il radiatore del tir e venne trascinato per una decina di metri, lasciando buona parte di sé sull’asfalto. Dopo qualche mese il motociclista e l’autista del tir si ritrovarono in un programma televisivo e tra fiumi di lacrime accantonarono i sensi di colpa e diventarono amici. Il motociclista non aveva per niente l’aspetto di un essere umano triturato da tonnellate di lamiera e motore. Magari un po’ scemo, ma lo era già prima.

Come previsto da Pierangela, la gente si abitua a tutto. La parola “zombie” non faceva più parte di una categoria di finzione, ma divenne un termine per identificare quelle persone che avevano subito un intervento di “recupero” grazie al fungo misterioso. Cosicché non era così strano, nell’estate torrida dell’anno 2016, leggere sulla cronaca di uno “zombie” che aveva sfondato a colpi di cranio la vetrina di un gioielliere per allontanarsi indisturbato dalla zona del misfatto con il suo malloppo con tutta tranquillità, prima di essere fermato da una pattuglia.

– Fermati! –

Il tipo aveva continuato a camminare tranquillo, con ventimila euro di gioielli in uno zaino. Gli sbirri avevano sparato in aria, poi alle gambe.

Il fungo all’inizio rimargina lentamente le ferite, poi diventava sempre più veloce, in questo senso non dovettero stupirsi di veder lo “zombie” riprendere a camminare come se niente fosse, con uno sguardo fisso e un po’ stupido. Dopo averlo bucherellato un po’ senza risultato, gli corsero incontro e lo immobilizzarono. Lo zombie cercò di morderli e di difendersi, ma alla fine riuscì loro di portargli via lo zaino. Lo zombie se ne andò per la sua strada.

Il fungo, una volta stabilizzatosi su un corpo, non se ne andava più via. E chi avrebbe voluto toglierselo?

Se qualcuno avesse detto che la Robiola Osella era all’origine dell’invasione degli Zombie, l’avrebbero preso per pazzo. Per cui nessuno si stupì del fatto che la Robiola Osella si era ripresa un maggiore spazio nel mercato, dopo un intenso bombardamento pubblicitario. E nessuno ovviamente si preoccupò della progressiva diminuzione dell’incidenza di morte nella popolazione. La gente moriva solo più di vecchiaia, ricoprendosi di muffa bianca. Smaila prese a vestirsi come un nazista e a parlare di “Soluzione del problema della Muffa Bianca”. La produzione di Robiola Osella aumentò vertiginosamente. Solo coincidenze? Secondo voi sono i deliri di un complottista? Perché non ci credete? Pensate che le altre stronzate abbiano senso? Questa ha senso. Uh si.

Nel 2017 il mondo era completamente trasformato. Una nuova razza umana aveva preso il sopravvento. Chi non aveva il fungo si estingueva lentamente ma inesorabilmente. Asso, Freccia e il Bestia assistettero all’ascesa di un nuovo potere, formato dal Cavaliere e da Smaila.

Il popolo si era riunito sotto il balcone, aspettando la comparsa dei Capi del Popolo.

“Amici! Avanti!” gridavano. “Guariteci!”

Sul balcone comparvero i due capi della Patria. Un cielo coperto di nubi temporalesche dava quel tocco di impressionismo utile all’effetto sulla folla. Le bandiere blu e verdevomito sbatacchiavano al vento.

– AMICI! –

Un boato accolse la prima parola di Smaila, il Secondo Reggente Patrio.

– UNA VOLTA SCONFITTI I NOSTRI NEMICI ESTERNI, DOBBIAMO SCONFIGGERE IL NEMICO CHE SI TROVA IN NOI! FINO ALL’ULTIMO UOMO! –

Nuovo boato della folla isterica.

– QUEL GIORNO, EBBENE, LI ATTENDEREMO SUL BAGNASCIUGA E DAREMO LORO IL COLPO DI GRAZIA! QUEI MERDOSI COMUNISTI, FIGLI DI VACCA SENZA PATRIA! COME UN SOL UOMO, AMICI! –

E il Cavaliere aggiunse, alzando un braccio, visibilmente commosso: – TOGHE ROSSE BAGNATE DEL LORO SANGUE! –

La folla intonò lo slogan: “RE D’ITALIA, NOSTRI PATRI COMUNI, EVVIVA! – sollevando un braccio teso.

Freccia spense il televisore.

“Qual mostro ho creato.” Pensò. Non c’era che una cosa da fare. Chiamò i suoi amici e espose il suo piano. E la Resistenza ebbe inizio.

Quando le Autorità e alcuni membri della Guardia personale del Cavaliere fecero il loro ingresso a Villa Smaila trovarono un macello. Il parco sventrato, la porta d’ingresso completamente divelta dall’esplosione di un ordigno di fabbricazione militare, per non parlare dei numerosi cadaveri che erano disseminati nel cortile: cani, uomini, prostitute.

L’allarme era stato dato dal personale della sicurezza della Villa, dalla loro sala di controllo, pochi minuti dopo la fuga del padrone di casa. – Si pensava fosse un attacco terroristico da parte di qualche guaglione di Sorrento, così il padrone di casa, il signor Smaila, decise di non farvi intervenire -, spiegò uno degli addetti alla sala di controllo, un cugino alla lontana di Mastrota, quello dei materassi. – Pessima idea. – commentò il comandante della squadra speciale dell’antimafia. – Perché allora ci chiamiamo Squadra Speciale Antimafia e il nostro numero compare tra i primi da chiamare in casi di emergenza? – disse il comandante, indicando il pannello informativo della procedura di emergenza attaccato sul muro. Il cugino di Mastrota fece spallucce. Il comandante, un rude militare dalla faccia da carcerato, sputò a terra e si guardò in giro. – Beh, chiamate qualcuno che dia una ripulita. Voi datemi il materiale audiovisivo registrato stanotte. -. Era da poco passata la mezzanotte, e qualcuno portò tazzine di caffè espresso al comandante e ai suoi sottoufficiali. Le Guardie del Cavaliere si limitarono a dare un’occhiata nelle stanze della Villa in cerca di elementi importanti per rintracciare i terroristi. Uno di loro sussurrò all’altro: – Non andiamo lì nella sala. Non vorrei che mio cugino mi riconoscesse. Per lui faccio ancora gli spot sui materassi. –. L’altro lo guardò fisso per un momento. – Ah, ok, si, d’accordo. –

– Ehi, ma tu sapevi che Giorgio lavorava con noi nella Guardia? Dici che… –

– Sì, è stato il Cavaliere in persona a proporgli il lavoro. È uno in gamba. Sicuramente più bravo qui nella Guardia che a vendere quei cazzo di materassi per elefanti… –

– Già…orribili… Mi chiedo come mai il Cavaliere si ostini a venderli in TV! –

– Bah, vorrei saperlo anche io. E adesso zitto, che arriva Mastrota! -.

Il comandante aspettò la risposta dalla Centrale, che arrivò dopo una mezz’oretta sul suo Tablet. – Questi individui non ci sono noti. Devono essere nuovi volti del terrorismo. Oppure si sono improvvisati terroristi da un giorno all’altro. Mai visti. Verso quale direzione sono andati? – chiese il comandante al cugino di Mastrota, che aveva una espressione assente, quasi idiota. – Direi nella direzione che ha preso l’elicottero di Umberto. Queste sono le coordinate che ha comunicato al computer di bordo e al sistema di telecomunicazione privato. Il foglio con i dati, teso verso il comandante, gli fu strappato improvvisamente di mano dal capo della Guardia, che era sopraggiunto nella Sala di Controllo. – Queste sono informazioni private. Ci appartengono. – disse spiccio al rude soldato.

– Se stanno così le cose, il problema ve lo sbrogliate da soli. – disse dopo un momento il comandante, dopo aver guardato prima l’addetto e poi il Capo della Guardia. – Devo informare il Cavaliere? –

– Ce ne occupiamo noi, grazie. – disse secco il Capo, che con un cenno riunì i suoi uomini. Si lanciarono all’inseguimento con l’Hammer di servizio pochi minuti dopo. La Sezione Antimafia lasciò che la Scientifica facesse i suoi lavoretti per raccogliere prove e dati, e chiamarono qualcuno per ripulire in fretta il casino.

L’elicottero dovette atterrare nei pressi di Cinisello Balsamo, in aperta campagna, dove aspettava poco lontano un mezzo senza targa. Al volante aspettava un barbone, arruolato per l’occasione. Dopo il passaggio, Smaila gli avrebbe sparato senza preavviso alla nuca e dato alle fiamme insieme al veicolo in un boschetto, a pochi passi da un casolare, dopo aver riempito il pavimento dell’auto di siringhe usate lasciate in una scatoletta sotto il sedile passeggero. Tutto organizzato nei minimi dettagli. Non ci sarebbero state domande. E l’elicottero? Nei prossimi minuti sarebbero giunti sul luogo dei tecnici e lo avrebbero smontato in pochi minuti, portandoselo via dentro un Doblò.

Con il suo fagotto era sceso dall’elicottero ormai inservibile e raggiunto il veicolo. L’autista scese per dargli una mano a mettere il fagotto dentro il baule. Il senzatetto puzzava di alcool e vomito, e molto probabilmente si era fatto una seghina in auto per combattere la noia, così aveva il pezzo davanti tutto imbrattato. Smaila soffocò un conato. Aveva già toccato il calcio della pistola quando si immaginò quanto si sarebbe incazzato il Cavaliere se avesse saputo che Umberto aveva fatto di testa sua. Rinunciò quindi a seguire il suo istinto e si accoccolò nello spazio sotto il sedile posteriore, che aveva un doppio fondo. L’auto ripartì dopo qualche minuto, tra i sobbalzi sul terreno accidentato.

Il furgone dell’Agenzia sopraggiunse sulla cima del colle a pochi chilometri da Cinisello Balsamo, quando videro con gli occhiali a infrarossi l’elicottero posarsi a luci spente su un prato a pochi chilometri da dove erano loro. Il Bestia premette sull’acceleratore e bruciò almeno un paio di semafori rossi, a centoquaranta all’ora sulla provinciale stretta. Freccia rigettò violentemente fuori dal finestrino ma mantenne la calma. Dovevano essere quasi arrivati. Sul volto del Bestia si potevano leggere i segni di una tensione che cresceva a livelli pericolosi. Se c’era qualcosa d sacro nella vita del Bestia, ebbene, quello era rappresentato dalle vite dei suoi amici, appese ad una sorte di natura violenta. Questo generava nel Bestia una ira non umana, pericolosa, devastatrice. Ed una fredda determinazione. Valori che lo trasformavano in una macchina della Morte.

Asso lo conosceva da abbastanza tempo per capire che se non avesse raggiunto il suo obiettivo, e cioè portare in salvo il suo caro amico, il senso di fallimento e perdita avrebbe innescato nel Bestia una esplosione di violenza inaudita. Per quello aveva comprato sottobanco qualche quintale di esplosivo, tra plastico, polvere da sparo compressa, dinamite e nitroglicerina. Asso si chiedeva cosa ne avrebbe fatto. Forse avrebbe lanciato il furgone dentro il cortile della Villa del Cavaliere e cancellato la loro esistenza in un bagliore biancastro. Sarebbe arrivata a tanto la volontà di vendetta del Bestia? Forse sì, si disse Asso, magari con la giusta quantità di whiskey e cocaina. Per contro Freccia cercava di mantenere un certo contegno, ed era uno di quelli che avrebbe trovato fattibile una idea del genere, e cioè senza la necessaria dose di superalcolici. Giusto perché sarebbe stato “fico, divertente!” farsi saltare in aria impattando a tutta velocità sul muro di una villa. Asso si convinse proprio in quei minuti di accesa riflessione che erano pronti a tutto, anche a farsi saltare in aria, pur di raggiungere il loro scopo. Ciò che rendeva grottesco il quadro era il fatto che non stavano combattendo contro un cartello della droga in Paraguay, o contro una delle più grandi famiglie mafiose di New York, quanto contro chi aveva messo in onda Bim Bum Bam durante la loro infanzia. Bene e Male in questo caso erano difficilmente riconoscibili.

– Bim Bum Bam era un programma per bambini labili. – spiegò Freccia una sera durante il loro soggiorno a Lione. – C’era quel pupazzo dai colori da acido lisergico, impressionante. Ci rimasi sotto. Pensavo di vederlo solo io. –

Il Bestia manovrò tacco-punta, freno a mano di 180 gradi, e imboccò una stradina laterale che si perdeva in un boschetto. Freccia calcolò che ci sarebbero voluti tre minuti e quindici di secondi prima di arrivare al punto di atterraggio, alla velocità che teneva il Bestia. Asso cercò di non pensare alle scatole piene di ordigni che rotolavano sul piano di dietro. Il Bestia accelerò ulteriormente.

– Ehi, così ci ammazziamo. – disse Freccia con voce priva di tensione. Come se avesse detto: – Ehi, la mia birra sta sgasando. –

Il Bestia gli rispose con un ghigno folle e malefico. – AH AH AH! AH AH AH!–

Freccia guardò Asso con occhi vacui e liquidi, che ricordavano quelli del quindicenne Kloumerr. Sembravano gli occhi di un animale in trappola.

– Va bene, adesso calmati, li becchiamo, non c’è bisogno che corri come un pazzo! – gridò Asso in mezzo al casino.

– AH AH AH AH AH! –

– Merda, è…è impazzito! –

Freccia continuò a rispondergli con uno sguardo senza espressione, come rassegnato a vivere i suoi ultimi minuti da essere umano vivente. Scrollò le spalle e riprese a guardare davanti a sé.

La carretta guidata dal barbone prese un dosso ai trenta all’ora e Smaila tirò una capocciata al fondo del sedile. – TI VENISSE UN COLPO, CRETINO! –.

Il senzatetto, che non sapeva che da lì a poco avrebbe fatto un frontale con un furgone della Zeta Press Group pieno e zeppo di ordigni esplosivi, scorreggiò placido, leccandosi le dita sporche di Robiola Osella. La Robiola l’aveva rubata a casa di quel gentile signore che lo aveva raccolto dalla strada, poco prima di mezzanotte, dandogli una commissione da fare. Mentre il signore era al telefono per organizzare l’auto, il barbone, che di nome faceva Leandro, aveva visto un bagliore provenire da un cassetto della cucina mezzo aperto. Ci aveva guardato dentro e aveva visto la Robiola in una scatoletta. In mezzo secondo aveva messo in bocca tutto il contenuto e deglutito voracemente. Quando il signore dal viso gentile era tornato, non c’era più traccia della Robiola e neanche della scatoletta. Dopo pochi minuti era stato invitato da due energumeni ad entrare in un’auto vecchia e tutta arrugginita che puzzava di urina, la quale era stata caricata su un tir per mezzo di una pedana e trasportata fino a quel posto sperduto in aperta campagna. Non capiva il motivo di tutta quella messinscena, però aveva la pancia piena e si sentiva sorprendentemente in forma. Si era tirato pure una seghina, cosa che non faceva da tempo.

Fu così che Leandro, perso nei suoi sogni, non si accorse del Furgone che arriva a gran velocità senza fari contro l’auto, praticamente schiacciandolo in un botto fantastico tra le lamiere e facendolo a pezzi, triturandogli la cassa toracica come una scatoletta di shangai, spappolandogli il cranio e riducendogli le gambe ad un ammasso di muscoli e ossa spezzate. Smaila per contro venne premuto da tonnellate di ferro e plastica sul doppio fondo del sedile, che si spezzò e lo lasciò cadere sul sentiero di campagna, sotto il telaio ridotto ad una palla contorta di carta stagnola. L’autista del furgone, dopo qualche momento, mise la retromarcia e si trascinò dietro il mezzo distrutto. I due musi erano attaccati in un ultimo bacio di dolore. Smaila si trascinò dolorante fino al margine del sentiero, dove c’erano dei cespugli di biancospino dove avrebbe potuto nascondersi. Sentì che un pezzo di legno gli si era conficcato nel ventre, all’altezza del fegato, che cominciava a pulsare di dolore e a sanguinare copiosamente.

– DOVE TI TROVI, MAIALE? – sentì una voce gridare dall’abitacolo del furgone. Una portiera venne sbattuta. Si sentì afferrare per il piede e trascinato sul sentiero.

– MA LO SAI CHI SONO IO, PEZZO DI MERDA? – gli riuscì di gridare al suo cacciatore. Cercò nella tasca la sua pistola, ma doveva essergli scivolata al momento dell’impatto.

– Dov’è Laso? – sentì un’altra voce chiedergli. Provò a girarsi ma si prese un calcio in pieno mento, che fece CRAC. Quel viso famoso che cercava con ogni mezzo di curare e di idratare, era ridotto ad un ammasso di poltiglia sanguinolenta. Nello stesso momento si sentì un battere ritmico su quello che una volta era il baule dell’auto arrugginita. Un battere lieve, appena udibile, ma inconfondibile. Era il pezzo per batteria di Fear of the Dark, degli Iron Maiden. Il Bestia si precipitò verso il cofano, lo aprì e liberò il suo amico, intontito, ferito, ma decisamente vivo. – Vero…che…mi offri una birra al Friend’s? –

– Ci puoi scommettere le palle, Laso. – disse il Bestia commosso.

Il Bestia, dopo aver constatato che il furgone non era più in grado di staccarsi dall’auto sfasciata, decise di usare la fiamma ossidrica e un buon flessibile per separare le lamiere. Mentre lavorava si accorse che una mano, ficcata tra il radiatore e un altro elemento del motore, si muoveva, come se salutasse. Era la mano dell’autista, probabilmente. Continuò il suo lavoro imperterrito.

Laso, che era stato adagiato su un sedile davanti, tirò un lembo della giacca di Freccia, come per fargli capire di avvicinarsi.

– Non moriranno. Non moriranno. – sussurrò.

– Ma che cazzo dice? -, fece Asso, che stava tirando fuori delle bombe a mano da una scatola e aveva sentito il suo mormorare. Smaila intanto aveva mani e piedi legati da fascette di plastica, con la faccia rivolta al suolo sporco di olio e sangue, poco lontano da loro. Se non si sbrigavano a separare il furgone si sarebbero ritrovati inseguiti presto dagli uomini del Cavaliere. Asso vide che il Bestia aveva quasi finito il suo lavoro, così scese dal furgone e gli porse le bombe che aveva preso dalla scatola, avvolte in un fazzoletto. Il Bestia posò gli attrezzi e prese il fagotto dalle mani di Asso, che si mise subito al volante del furgone.

– Io e te avremmo tanto da dirci, ma io ho poco tempo da vivere per sprecarlo con un porco come te. -. Detto questo ficcò una bomba a mano direttamente nel culo di Smaila, che avevano denudato dalla cintola in giù. Smaila lanciò un urlo, soffocato in parte dalla terra e dal fango. Il Bestia tolse la spoletta. Asso avviò il motore. – Tanti saluti! – disse il Bestia, prima di salire sul mezzo che retrocedeva. Una volta raggiunta una distanza di sicurezza tolse la sicura alle altre bombe che aveva nel fagotto e le lanciò a fionda verso il rottame. Un attimo dopo ci fu un boato tremendo e il culo di Smaila esplose con un rumore sordo, disseminando merda e frattaglie in un raggio di centinaia di metri. Le lamiere si contorsero per l’esplosione violenta e i resti si sparpagliarono per la campagna.

– Non moriranno mai… – mormorò ancora Laso, prima di addormentarsi esausto.

A qualche chilometro da lì un signore dalla faccia gentile, una volta terminata una conversazione al cellulare, si lasciò cadere sulla poltrona e si passò una mano tremante sul volto provato dalla tensione. I lineamenti del volto gli si contrassero in una smorfia di rabbia crescente, che diventò poi gonfia di folle ira. Lentamente si tolse le mani dal volto e le sbatté ripetutamente sui braccioli della poltrona. Divenne una furia. Urlò nella notte. – CRIBBIO! –

I quattro fecero praticamente irruzione nella sede della Zeta Press Group. Con l’aiuto del guardiano notturno predisposero un’infermeria di fortuna per il loro amico.

I sogni dell’agente segreto furono torvi e paurosi. Più volte dovettero somministrargli un sedativo. Farfugliava frasi senza senso. Asso non ne fu così sicuro, ma gli parve di sentire più volte le parole “immortali” e “zombie”.

Il Bestia accese un fuoco nello spiazzo dell’Agenzia. Poi infilzò un pezzo di carne tirato fuori dalla tasca dei jeans con il coltellaccio da caccia e si mise ad abbrustolirlo. Era una mano dalle dita sporche di Robiola.

La figura nell’ombra agitò un dito nervoso sul grilletto dell’UZI. Un lampada posata su un tavolo a pochi metri dalla figura illuminava una zona spoglia della stanza in cemento armato. Al centro del cerchio di luce, riversa sul pavimento, una forma umana legata per i polsi e per le caviglie da fascette da elettricista. Rantolava. L’uomo con l’UZI si schiarì la voce una sola volta. L’uomo a terra continuò a rantolare.
– Beh, se non vuoi collaborare… -. La sicura dell’UZI fu tolta. Ora bastava premere leggermente il grilletto per pochi secondi per far partire una sventagliata di proiettili micidiali. Sotto i baffi, l’uomo nell’ombra sorrise. Un sorriso beffardo, abituato alle luci della ribalta. Un pensiero grottesco sfiorò la mente dell’uomo armato. – Sai, l’ho sempre odiata quella schifosa robiola. Il Cavaliere invece, ne comprava a pallet. Ogni volta che venivo invitato a cena mi costringeva ad assaggiare un piatto fatto con quell’odiosa robiola. All’inizio declinavo, poi negli occhi del Cavaliere vidi una luce diversa. Non era un invito, era diventato un COMANDO. Ebbene, mi ritrovai ad assaggiare un pezzo di strudel alle verdure e salmone con la robiola. E da quel giorno, scoprii di essere immortale. -. L’uomo nell’ombra sogghignò maligno, il pene eretto. – Tanti di quei festini. Non che non avessi la possibilità di organizzarmene da me. Però dal Cavaliere era tutt’altra cosa. Quell’uomo ha STILE, devo dire. – L’indice solleticò ancora il grilletto dell’UZI. – Poi ci fu il Progetto Salerno. Un inconsapevole giornalista free-lance venne posseduto da una nostra creazione, la Torpedine, e fece da corriere della nostra merce. Un flop. Non avevamo messo in conto l’aiuto esterno di certi elementi, e tutto andò a farsi fottere! – Il dito divenne ancora più nervoso.
All’improvviso una voce flebile ma sicura si levò dal mucchio di stracci e sangue al centro della stanza. – Puoi uccidermi. Non ti rivelerò niente. Tu maledetto grassone dimmerda. –
La figura nell’ombra si sporse in avanti, verso la luce. L’agente segreto italo-spagnolo ne vide per un attimo i lineamenti contorti dalla rabbia. – Oh si che me lo dirai. Altrimenti quel finocchio di sinistra di Vasco verrà trovato con una bambina nuda in un Hotel di Rivarolo e una spada piena di eroina infilata nel braccio. Lo vuoi? Una roba così te la organizzo in dieci secondi. – L’uomo armato infilò l’altra mano in una tasca dei pantaloni di Versace per tirare fuori il suo smartphone criptato e selezionare un numero. Disse: – Abbiamo un problema con il frigo. Quando potresti passare? –
L’agente segreto cercò di alzare il volto dal pavimento polveroso. Doveva fermarlo. – No.-
I baffetti dell’uomo nell’ombra tremolarono e un sorriso beffardo increspò il suo volto abbronzato e curato. – Aspetta, rimetti gli attrezzi a posto, qualcuno mi vuole interrompere. – Posò lo smartphone sul bracciolo della poltrona e ritornò a giocherellare con il grilletto. – Che mi volevi dire? – chiese sorridendo vittorioso.
– Ok, te lo dico. Ma non fare quella Cosa. Quella Cosa Orribile. promettimelo! –
– Uè ciccio, sei in una posizione in cui non puoi fare delle richieste, alcun tipo di richieste. -, ammonì con forte accento milanese. – Ma forse, e sottolineo Forse, ti accontenterò. Ora PARLA! –
– Colpo Grosso era un programma dimmerda! –
Senza riflettere Umberto Smaila schiacciò il grilletto, facendo partire una sventagliata sul povero Agente, che venne colpito all’anca, al braccio e ad un piede. Un proiettile gli perforò la guancia e venne deviato da un pontesul molare. Uscì senza ledere alcun organo vitale.
– Che mira di merda! – rantolò Laso.
Per la prima volta nella sua vita Umberto Smaila si accorse di aver fatto una stronzata. Se avesse ucciso l’Agente avrebbe perso ogni speranza di rintracciare le informazioni. Forse per quella sera era meglio piantarla lì. Dette un breve comando ad una radiolina, mentre il fumo che saliva dalla bocca dell’arma si dissolveva nella stanza. Pochi secondi dopo un paio di energumeni (che avevano un passato da attori porno) fecero la loro comparsa nella stanza e prelevarono il corpo, che stoicamente taceva il suo dolore. Erano due giorni che lo torturavano. Due giorni che gli impedivano di dormire con ogni mezzo. Due giorni in cui aveva dovuto bere la propria urina per non morire disidratato. Dopo quell’ultima visita alla stanza di cemento armato erano obbligati a portarlo in infermeria, per non perderlo a causa delle ferite. Sul tavolaccio freddo Laso si addormentò, e sognò Valencia e di Greyman.
Umberto Smaila si passò una mano liscia e morbida di idratante sulla fronte sudata. Si deterse con un panno di seta profumato alle rose e lavanda di Provenza, fino ad asciugarsi ogni perla di sudore sulla pelle. Era tutto per oggi. Chissà come, quell’uomo si era rivelato un osso duro, al di fuori di ogni previsione. Si pensava si fosse ammorbidito per la vita valenciana, e invece…Chiamò nuovamente il numero. – Vasco, amico mio, non c’è più bisogno che vieni in quell’Hotel, ho già sistemato la minorenne altrove. Ci risentiamo, ciao. –
– Eeeehhhhh…eh già! –
-Eh si, proprio così. – lo scimmiottò Umberto, prima di chiudere la conversazione.
“Cazzo di finocchio di sinistra”, pensò Smaila, mentre lasciò la stanza delle torture.

Vasco rossi se la prese male. Aveva già deciso di annullare le date dei prossimi concerti, quando si accorse di essersi cagato sotto. Pensava fosse una scoreggia. – Eh già! – si disse imbarazzato.

Asso era preoccupato. L’uomo chiuso dentro il bagno dell’Hotel di Plaza Sangre de Toro ululò ancora una volta, prima di chiudersi in un silenzio pauroso. Era in atto una specie di mutazione. Asso tese le lenzuola fino a coprirsi il volto, in un tentativo di difesa. Il letto cigolò piano, mentre si mosse per adottare la posizione da manuale in quei casi. Schiena rivolta verso la porta del bagno, un corpo pronto allo scatto, un piede già sulla moquette, rivolto verso la finestra aperta. Che la camera d’albergo fosse al primo piano era una fortuna.
Asso cerco di riflettere, cercò di mettere insieme i pezzi del puzzle, ma nella sua testa solo un nugolo di vespe di paura e sottomissione. Il pene gli si ritirò dal panico. Intanto dal bagno provenivano solo gorgoglii e frasi senza senso. Che, cosa più paurosa, non avevano il tipico timbro di voce del Bestia. Sembrava una conversazione tra demoni.
Forse, si disse Asso, abbiamo esagerato, questa volta abbiamo sbracato, pisciato sull’albero sbagliato in questa grande città di cani randagi. O forse, semplicemente, abbiamo toccato il fondo.
Di per sè la situazione poteva dirsi controllabile, si erano trovati in guai peggiori. Quello che ad Asso non piaceva era questa dispersione. Erano diventati individui, avevano perso l’intelligenza collettiva che li contraddistingueva. Uno era sotto le lenzuola in preda ad un attacco di panico soffocante. L’altro era disperso per Valencia (Lasciatemi stare, ho bisogno di mettere insieme le mie idee e trovare l’origine delle mie colpe), probabilmente attirato dalla perdita dei valori dei sobborghi urbani, eccitato dalle ragazze in vendita sul lungomare, perso, amareggiato, pericoloso. Probabilmente, molto probabilmente ubriaco.
E l’uomo chiuso da tre ore e mezza in bagno? Era ancora circondato dai suoi demoni e da un’aurea di pericolo imminente. Arrabbiato e potenzialmente mortale, come il Mel Gibson in Arma Letale.
Si erano ridotti a singolarità impazzite, gli atomi tesi allo spasimo sul punto di collassare e creare un buco nero di pazzia.
Asso, stretto dalle morse del panico, allargò la bocca in un urlo silenzioso, come per imitare la maschera terrificante di Greyman nell’atto di lanciarsi verso il malcapitato Laso per addentarlo e colpirlo con il mento. Ciò successe pochi istanti dopo che Freccia si allontanò imbarazzato dal gruppo. Dopodichè, in un susseguirsi confuso di momenti da incubo, un essere diabolico, il cui nome fu Greyman, si fece largo tra i turisti sul lungomare per lanciarsi all’inseguimento. Laso decise di fare l’unica cosa che aveva in potere per salvare da morte certa i suoi amici. Prese la scheda SD, la mostrò a Greyman e fuggì verso il Corso.
Il lenzuolo sussultò una volta, poi le unghie di Asso perforarono il tessute e lasciarono profonde lacerazioni.
La fuga durò pochi secondi, Greyman agguantò un lembo della Camicia Che Attilla e tirò a sè il povero Laso, addentandolo ad una spalla. Il dolore improvviso fece tremare come una foglia il corpo esile ma allenato dell’agente segreto. – SCAPPATE! – riuscì a dire ai suoi compagni, prima che Greyman lo mise a tacere con un colpo di mento sferrato sulla nuca. I turisti scapparono urlando. Un olandese strafatto rimase lì a guardare la scena, con la bocca aperta. Poi si voltò verso Silvano e Asso, che nel frattempo stavano alzandosi da terra per scappare. L’olandese strafatto li seguì fino all’Hotel Plaza Sangre de Toro, per compiere un favore pagato profumatamente da una tettona tedesca.

Il Bestia uscì gocciolante dalla vasca e ingollò le ultime gocce nella bottiglia di Jack Daniels. Nudo e completamente pazzo di furia spaccò la bottiglia sul lavandino e ne gettò i resti sul piatto doccia, dove un ammasso di piume e carne lasciava intendere che era stato compiuto nel frattempo un sacrificio con un piccione. Le interiora erano sparse sul pavimento, a tracciare una stella a cinque punte.

Qualche giorno dopo la Scientifica di Valencia fece i suoi rilevamenti nel bagno, dopo l’irruzione della Policia. Il comandante della Sezione Investigativa, un cinquantenne con i baffi alla Emiliano Zapata, si disse “turbato” dalla scena e volle prendersi un giorno di vacanza e si suicidò poche ore dopo. Nella camera d’albergo c’erano segni di violenza che avrebbero sconvolto anche Charles Manson. La registrazione era stata fatta a nome di una agenzia di stampa italiana. Le persone che avevano abitato la camera non erano mai state viste dal personale nel corso del loro soggiorno. Venna diramato un allarme generale alla Policia di Valencia e alle Autorità Areoportuali. Per raccogliere le numerose frattaglie umane in decomposizione dal pavimento dovettero usare un sacchetto di quelli per il sottovuoto industriale da 30 litri. Le frattaglie erano state disposte in modo da formare un segno del demonio.

Il girovagare di Freccia si interruppe all’imbocco di un vicolo con l’acciottolato. Nella nebbia salmastra del primo mattino che lambiva con il suo morbido passaggio le strade valenciane vide muoversi delle figure indistinte. Il vicolo saliva leggermente verso la zona del faro, i locali chiusi lungo la via avevano le luci spente e rivoli di urina avevano imbrattato l’intonaco dei muri. Alle cinque del mattino le sole ombre di vita in quei vicoli erano i ratti che dal porto si spingevano fino ai vicoli per raccogliere il cibo sparso dai turisti ubriachi. Ma le figure che ciondolavano seminascosti dalla nebbia dirigendosi verso di lui avevano un che di familiare e Freccia si sforzò di ricordare. Il suo sguardo si pose sulle fattezze compatte degli individui che, sicuri di sè e finalmente uniti, mossero i loro passi decisi lungo il vicolo. I ratti si fecero da parte rispettosamente.
– Chi fugge da sè stesso ha le palle di rinnegare il destino, disse un tale! – fece il Bestia. Asso scarrellò la Beretta con fare teatrale come per sottolineare la veridicità della citazione.
– Chi lo disse? – chiese Freccia, commosso dall’apparizione.
– L’imperatore giapponese Fui Kamata, prima di morire davanti al plotone di esecuzione dell’esercito dei suoi traditori. – disse il Bestia, rimasto a torso nudo, armato fino ai denti. Sulla fronte una fascia alla Rambo, le braccia scorticate da un coltello per disegnare delle svastiche sulla pelle. Era compiuto. Fu Silvano. Ora era il Bestia.
Asso per contro era rimasto uguale, ma nel viso si poteva rintracciare un antico splendore, una passione e una incontrovertibile decisione di intervenire sui fatti. Si erano stancati di rimanere prede, ora era venuto il momento di diventare predatori. Freccia li abbracciò. Capì che i tempi di gloria erano tornati. Il passato era chiuso alle sue spalle.

Dopo una colazione robusta fatta da un kebabbaro al porto decisero di passare all’azione. Presero contatti con gente del posto che poteva procurar loro dei fucili d’assalto. Poi si fecero mandare dall’Italia un furgone bianco e blu della Zeta Press Group, che ritirarono al porto di Valencia alla sera dello stesso giorno, arrivato in gran carriera con un ex-incrociatore militare russo a turbine nucleari. All’interno del furgone trovarono, come richiesto all’Agenzia, indumenti militari ed equipaggiamento da sopravvivenza in ambienti estremi. Caricarono le armi e casse di cibo e acqua facendosi aiutare da un corriere della droga, poi partirono alle prime luci dell’alba. La cosa bella di lavorare per la Zeta Press Group, disse Freccia durante quel mattino, era di poter ottenere qualsiasi cosa in poco tempo senza dover rispondere a delle domande, purchè le richieste rientrino nella legalità.
Asso sedette nel mezzo, e prese a rigirarsi un minuscolo oggetto avvolto nella stagnola nella mano destra. Così piccolo e così prezioso, si disse. Probabilmente l’ultima azione decisiva di Laso prima di essere catturato dalle Forze del Male.
– Per combattere il Male, devi abbracciarLo. – dichiarò con tono solenne il Bestia, piegato sul volante, deciso a macinare le migliaia di chilometri tra Valencia e l’indirizzo ricevuto da un olandese strafatto. Il braccio gli si gonfiò e una svastica si deformò leggermente, mutando forma. Sorrise soddisfatto.

Dovettero viaggiare su strade fuorimano e di campagna, per evitare i controlli. Il furgone, dal piano rialzato e con sospensioni rinforzate, non temette il passaggio dei Pirenei. Attraversare la Francia fu più facile utilizzando le autostrade, si fermarono un paio di giorni a Lione nella tenuta di campagna di Freccia. Il respiro profondo prima del balzo sulla preda. In quei due giorni ingrassarono le armi e dettero fondo alla cantina di Freccia. Tra fiumi di Borgogna completarono il piano, e misero le fondamenta della prossima decisiva azione di sfondamento delle linee nemiche. Mentre consumarono il pasto davanti al camino acceso, sul volto di Freccia comparve un’ombra di apprensione, nonostante fosse illuminato dalle fiamme. Asso se ne accorse. – Questo che porto è un fardello pesante, che grava sulla mia coscienza. – disse ad un certo punto Freccia – Mi vergogno delle mie azioni. –
-Come potevi saperlo, Freccia? D’altronde eri giovane e senza esperienza, e quei chili di ricottella qualcuno doveva pure raccoglierli. Sei stato solo una marionetta inconsapevole nelle mani dei criminali. Pensavi di far del bene. –
-Se lo dici tu…milioni di persone sono state nutrite con questo prodotto, e Dio solo sa quali saranno le conseguenze del mio gesto su scala mondiale. –
Asso riflettè sulla cosa giusta da dire. – Pagheranno per quello che hanno fatto. Te lo promettiamo. –
Il Bestia stava affilando un coltellaccio da caccia in un angolo della camera. Le lingue di fuoco che si sprigionavano dai ciocchi incandescenti disegnavano dei lineamenti infernali sul suo volto, l’espressione indecifrabile. Senza guardare il suo lavoro di affilatura, lo sguardo perso nel vuoto. Un filo di bava corse da un angolo della bocca e gocciolò sul pavimento di cotto. Asso si chiese se per caso non si stavano spingendo un po’ troppo in là. Nel caso, si sarebbero divertiti alla grande.

Partirono alle sei di un mattino di settembre, la luce dorata si faceva largo tra nuvole e illuminava le cime degli alberi. Da Lione il tragitto si fece più contorto, passando tra le Alpi e raggiungendo l’Italia verso pranzo il furgone della Zeta Press Group dette prova di essere all’altezza del compito. Senza effettuare pause – quella del Bestia era una vera e propria febbre – si portarono vicini all’indirizzo segnalato dall’olandese. Dietro un cancello di ferro battuto dalle punte dorate si trovava la loro preda, e forse il loro amico da salvare.
– Se non è già morto. – fece Freccia.
– Se è così, l’alba del giorno dopo si tingerà del rosso del loro sangue. – fece lapidario il Bestia. Se avesse avuto tra le mani un Black Awak americano e una batteria di armi pesanti e lanciarazzi, avrebbe già fatto tabula rasa della villa nella campagna di Milanello. Fortunatamente dovette convenire che il loro amico si trovava tra le mura di quella villa e che l’averla rasa al suolo avrebbe precluso loro ogni possibilità di salvarlo. Ma se gli avevano già spezzato la vita, ebbene, si disse il Bestia, non rimarrà un solo mattone in piedi.
Scesero dal mezzo e, al riparo di un boschetto, si cambiarono d’abito e indossarono l’equipaggiamento. Freccia e Asso, avvalendosi delle istruzioni del Bestia, prepararono del plastico. Poi coprirono il furgone con delle frasche e aspettarono l’imbrunire.
L’attesa era doverosa, lo stesso il Bestia ne soffrì. Avrebbe voluto seguire il suo istinto e la sete di vendetta, portato il furgone a ottanta chilometri orari e sfondato il cancello blindato, probabilmente sfasciando completamente il muso del furgone, aprendosi la strada con le bombe a mano e una raffica di proiettili di grosso calibro, fino a trasformare la villa in un grumo contorto di acciaio e vetro fuso e aver scorticato con le proprie mani gli occupanti. Invece attese con loro il tramonto e la comparsa delle prime stelle.
Verso le undici di sera collocarono il plastico sui montanti del cancello e lo fecero saltare.

Umberto Smaila venne strappato dai suoi pensieri dal botto tremendo in direzione sud, proveniente dall’ingresso. Simultaneamente partirono gli allarmi e lo spostamento d’aria fece tremare i vetri delle finestre blindate del suo studio. Era abituato a spostarsi da una stanza all’altra della sua villa con l’UZI a tracolla, nudo e lucido di crema idratante alla mandorla. Fece così, in abito adamitico, la sua comparsa nella sala di controllo e vigilanza della sua tenuta. I mercenari, abituati a questo spettacolo di nudismo, lo informarono della violenta effrazione del cancello Sud, lato Via dei Tre Velieri.
– Disponete gli uomini a tenaglia con armamento stordente, li voglio vivi se possibile. Sganciategli addosso i cani! –
Facendo sballonzolare il pene barzotto da un ginocchio all’altro, ritornò nel suo studio e prelevò da un cassetto un paio di caricatori con pallottole di gomma. – Figa, che tensione! –
Si mise su un panciotto anti-proiettile e prese l’ascensore privato. La musica di Papetti invase la cabina. Premette il tasto U e scese verso gli inferi della sua villa. Erano da poco passate le undici.

Il Bestia aprì il fuoco sulla facciata della villa, così per sfregio. Da un lato dell’edificio in stile ottocentesco vennero liberati i cani, un misto di american staffordshire e pittbull francesi, di quelli che saltano diretti sullo scroto e non smettono di tirare fino a che non strappano i gioielli dal suo proprietario. Il Bestia sventagliò brevemente con l’M16 e ne uccise parecchi tra i latrati, continuando a correrre verso l’entrata di Villa Smaila a grandi falcate. Un cane lo tramortì con il calcio del fucile, finito poi con un colpo di fucile a canne mozze da Asso. Freccia, rimasto indietro, tolse la sicura ad una bomba a mano e la lanciò verso l’altro gruppo di cani che arrivava dall’altro lato. Fu una carneficina. Ma non ebbero tempo per soffermarsi su principi etici. Continuarono a correre e a farsi largo tra i corpi smembrati.
Il Bestia notò dei movimenti sui fianchi, così decise di cambiare direzione e trovare riparo dietro una fontana, imitato dai suoi compagni. Non c’erano dubbi su chi era il leader della spedizione. Disposti a quadrato per così dire, potevano controllare tutti i movimenti. Sulle loro teste sibilarono delle pallottole provenienti dall’alto.
– Qui ci fanno secchi! – urlò Fraccia, in uno stato tra l’estasi e il terrore puro. Qualcuno giocava al cecchino su una delle finestre della villa.
Il Bestia azionò il visore a raggi infrarossi sul casco mimetico e localizzò il cecchino grazie al calore che emanava. – Terza finestra del secondo piano, a sinistra! – urlò tra il casino.
Asso nel tempo libero faceva tiro al bersaglio ad Amburgo. per cui sapeva che l’interpellato era lui. Puntò l’altro fucile che si portava appresso, un lungo fucile Smith and Wasson con puntatore laser, verso l’obiettivo. Premette il grilletto. Quando il Bestia vide la nuvoletta rossa con il suo visore, confermò ad Asso di aver preso il bersaglio.
Freccia riuscì a pensare al mare di cazzate che aveva dovuto raccontare per giustificare l’utilizzo di quell’apparecchiatura. Aveva raccontato allìAgenzia di dover fare un servizio speciale sulle Forze Speciali anti-terrorismo spagnole e di dover riportare la sua esperienzaq sul campo durante una esercitazione. L’equipaggiamento, per motivi di sicurezza nazionale, non poteva essere fornito dall’esercito spagnolo. L’avevano bevuta.
Intanto la squadra sul lato est aveva completato il movimento sul fianco, e si erano disposti ordinatamente dietro i massi ornamentali ai lati del parco interno della villa. La fontana dietro cui si riparavano i tre era al centro del parco, sembravano un facile bersaglio per le forze dispiegate all’esterno. Il capo dell’operazione ordinò di sparare qualche colpo d’avvertimento per spaventarli, credendo di aver a che fare con qualche ragazzino scontento di una famiglia mafiosa di Sorrento.
Uno dei ragazzi della Sicurezza mirò il suo UZI poco al di sopra del muretto intonacato della vasca della fontana e fece come ordinato. Poco dopo la faccia gli esplose in una pioggia di scheggie d’osso e cervella, venne sospinto all’indietro e morì tra le convulsioni.
Il capo delle operazioni comunicò l’esito alla sala della Sicurezza. Il suo tono era allarmato ma sempre fermo. – Dobbiamo ricevere il permesso di usare veri proiettili, altrimenti questi ci fanno secchi. – comunicò. L’uomo all’interno della sala si collegò sulla frequenza radio usata da Umberto. L’apparecchio era spento.

Umberto Smaila iniettò un forte anestetico all’uomo che giaceva privo di sensi sul tavolaccio dell’infermeria. Poi lo slegò e se lo mise in spalla. S’infilò nell’ascensore e premette il tasto H. La cabina salì fino all’ultimo piano. Quando mise piede sulla moquette del corridoio erano quasi le undici e venti. Si diresse verso il terrazzo, dove un piccolo elicottero armato l’avrebbe portato al sicuro con la sua fonte di informazioni. Sempre nudo si fermò davanti ad un quadro, lo scostò fino a rivelare un quadro di comando. Sbloccò il meccanismo e aprì lo sportello sul muro. Prelevò un bazooka e se lo mise sull’altra spalla. Così carico si fece le scale in ferro battuto e spuntò sul terrazzo, canticchiando la sigla di Colpo Grosso.

Il Bestia ebbe un presentimento. All’improvviso gli sembrò tutto senza senso. Ordinò agli altri di restare nelle loro posizioni e di coprirlo mentre si dirigeva verso la villa, senza aspettare di sentire le loro obiezioni. Nel frattempo la squadra si trovava a dover decidere autonomamente cosa fare in mancanza di ordini chiari, per cui senza saperlo il Bestia sfruttò quell’istante di incertezza tra le squadre disposte a tenaglia sul parco. L’altra si era appena disposta sul fianco ovest, ed era nella stessa situazione di stallo dell’altra. All’improvviso il silenzio temporaneo si ruppe mentre la squadra est fece partire una scarica di armi da fuoco sul Bestia, non appena videro la figura spettrale lanciarsi verso la villa. Il fuoco di copertura di Freccia e Asso funzionò al meglio, e assottigliarono le file delle due squadre. All’interno della vasca profonda un metro, come in una trincea, Asso e Freccia si passavano le munizioni e sparavano nello stesso momento, mentre il Bestia sfondò le linee nemiche con un perfetto touchdown.
Con una bomba a mano sfondò il portone di legno e penetrò all’interno del salone della villa, pieno di quadri di valore fino al soffitto. Da una sala accanto provenivano urla isteriche. Una porta si spalancò e uscirono in massa delle prostitute seminude. Per riflesso aprì il fuoco sulle escort e ne sbudellò un paio. Le altre, ricoperte di sangue e di frattaglie umane, fuggirono urlando e scosse da conati di vomito. Fu uno spettacolo apocalittico agli occhi delle persone rimaste nel parco. Le prostitute riuscirono ad arrivare al cancello sfondato e a riversarsi per strada, in mezzo alla campagna illuminata dalla luna, come belve inselvatichite. Gli spari nel parco della villa ripresero.

Il Bestia sentì l’odore di paura che si era lasciato dietro Umberto Smaila. Il porco doveva aver capito che aria tirava e aveva scelto la fuga. Fiutò la traccia e lo portò ai piani superiori, da dove proveniva un tanfo di terrore. Il Bestia non era più umano. Elementi dell’Uomo Fegato si erano mischiati con un fetente demone ultraterreno. Metà belva, metà demone. Il Bestia sentì che la sua preda era vicina.
Arrivato all’attico, sentì un rumore di passi proveniente dal soffitto. Era sul terrazzo. A grandi falcate percorse il corridoio, notando con la coda dell’occhio che era stato prelevato un oggetto di grosse dimensioni da una rastrelliera di armi nascosta nel muro. Qualcuno aveva messo in moto un apparecchio sopra di lui.

Quando Umberto Smaila vide spalancarsi la porta d’acciaio, notò che la figura demoniaca stringeva in una mano un grosso coltello da caccia mentre nell’altra un M16. Il Bestia si lanciò a tutta velocità sull’apparecchio in fase di decollo e mancò per un pelo il pattino. Ricadde a terra e attutì la caduta con una capriola. Rialzatosi, sparò un paio di colpi verso la carena e colpì il serbatoio.
– Figlio di… – imprecò Smaila. Gli indicatori dettero l’allarme per la perdita di carburante. Completò lo stesso l’operazione e si levò in volò dal tetto della villa, diretto verso il Bunker del Cavaliere. Aveva già comunicato sulla frequenza radio del Cavaliere la sua rotta e il permesso di atterrare sulla Sua tenuta. Imbracciò il Bazooka e fece fuoco.

Il parco all’improvviso esplose in una fiammata bianca e una voragine si aprì a pochi metri dalla fontana al centro. Il muretto della vasca li aveva protetti dai detriti lanciati dall’esplosione, quando il proiettile esplosivo lanciato dall’elicottero devastò il cortile. Gli uomini della squadra non furono così fortunati.
Poco tempo dopo videro il Bestia uscire dalla villa, sempre energico e vitale come un demone pazzo di ira. Con un cenno ordinò loro di seguirlo. Era quasi mezzanotte quando lasciarono la villa e seguirono il mezzo volante che aveva lasciato la villa. Secondo i calcoli di Asso, il carburante sarebbe finito nei dintorni di Cinisello Balsamo, osservando la rotta dell’elicottero civile. Avevano quindi poco tempo per raggiungere il velivolo costretto ad un atterraggio di emergenza.
– Non è finita qui. –
Il tono del Bestia non ammetteva critiche o dubbi.

” […] con fare tra il casuale e l’officioso il Funzionario fece scivolare la cartella verso l’uomo con la ventiquattrore e il cappello a tesa larga seduto al bancone del bar. – Ora il caso Torpedine è stato chiuso. Ma mi sono arrivate voci di un nuovo problema da risolvere. Il nostro uomo-talpa presso la Zeta Press Group, la filiale di Pieve Ponte Morone per la precisione, ha rilevato una diffusione di notizie che potrebbe sconvolgere l’Ordine Mondiale. Pare che il Pelato, Testa di Torpedine e il Silvano vogliano investigare su questa fonte. Dio non voglia, solleveranno il coperchio su una bella zuppa di merda. Per questo ti affido, ufficialmente, questo compito, dr. Greyman. -. 
L’uomo con il cappello mando giù il GIN Tonic e sorrise compiaciuto. Una ruga sul suo mento si contorse dal piacere.”
    9 Maggio 2015, Facebook, autore ignoto

Nella località marina della Spagna centrorientale l’aria odorava di pesce alla griglia e creme solari. Testa di Torpedine sudava copiosamente e non a causa dei 40 gradi all’ombra o della cappa di afa che gravava su Valencia. Sedeva a un tavolo ai bordi dell’area bar, praticamente sulla spiaggia.

Una signorina in topless quasi inciampò su una propria tetta mentre armeggiava con un ombrellone e a Testa di Torpedine venne il mal di testa. “Dove diavolo è finito il mio uomo?” pensò aggrottando la fronte. La donna imprecò in tettesco e decise di lasciar perdere l’ombrellone per concentrarsi sull’operazione “spargimento di copiosa crema solare sulle zinne”. Le vene delle fronte di Testa di Torpedine presero a pulsare, una smorfia a cercare di riportare ordine sul proprio volto accaldato.

E l’uomo finalmente arrivò: maglietta rossa, costume e infradito. Sembrava abbronzato e fresco come una rosa. Non dava l’idea di essere il secondo migliore agente segreto d’Europa. La barba incolta, i capelli scapigliati, dava l’impressione di essere del tutto a suo agio. Sotto braccio portava la “camicia che attilla”. La usava solo in situazioni speciali: marca Diesel, prodotta nel 2001, da allora non aveva fallito un colpo, attillando in svariati locali che si estendevano da Sud di Copenaghen a Nord di Agrigento. L’uomo attilante, tiro’ fuori dal taschino un paio di Rayban a specchio, li inforco’ e si sedette molto casualmente al tavolino libero vicino a Testa di Torpedine. I due sarebbero rimasti in silenzio per buona parte del concilio, a parte quando l’agente ordinò un cuba libre con lime al cameriere. Testa di Torpedine non era tipo che amasse aspettare. Picchiettò con l’indice sul tavolino di alluminio.

L’agente attillante si grattò dietro la testa e dietro l’orecchio, osservando la scena della tizia in topless che si cospargeva di crema. Una scena che non avrebbe insospettito nessuno. Anche al più attento degli osservatori non sarebbe parso che i due comunicavano fra di loro. Testa di Torpedine si gratto i coglioni e schioccò la lingua. Intanto arrivò la bevanda per l’uomo. Qui chiameremo l’uomo con un nome fittizio, Laso. Laso pescò la fettina di lime con indice e medio e se la mise in bocca succhiandola. Il rumore che fece con la bocca attirò l’attenzione della donna in topless. Laso le sorrise oscenamente. La donna anche, riconoscendolo. Fu a quel punto che Testa di Torpedine venne a capo dell’enigma. Ora tutti i pezzi del puzzle stavano insieme combaciando tra di loro. La tizia che armeggiava con l’ombrellone e poi il numero sexy della crema: tutte parti prestabilite di un copione accuratamente studiato fino al più piccolo particolare. Testa di T. era profondamente colpito dalla bravura dell’agente, che dimostrava certo di possedere un buon tempismo, oltre ad una originalità nel campo della comunicazione cifrata. Laso buttò la fettina di lime nel bicchiere lasciato a metà e fece per alzarsi, poi ci ripensò, si risedette, svuotò il bicchiere ed infine indossò la camicia Diesel. Quindi si rialzò e si sedette sulla sdraio accanto alla tettona, iniziando una conversazione in spagnolo. La tizia rispose in tettesco. E così via. Testa di Torpedine dopo qualche minuto lasciò il tavolino portandosi dietro il bicchiere con la fettina di lime mezza smangiucchiata.

Quella fettina di lime conteneva al suo interno  informazioni tali da sconvolgere l’ordine mondiale. L’arte era di riuscire a infilare una scheda sd dalle dimensioni di una formica dentro la fettina aiutandosi con la lingua. Un’arte che Laso utilizzava anche in altri ambiti, con discreto successo.

La maggior preoccupazione di Testa di Torpedine quel giorno era il mal di testa, ma cercò di annebbiarlo con una bella bottiglia di Wild Turkey e un pomeriggio dedicato alla piu’ riprovevole e selvaggia masturbazione. Ore dopo, al centro della stanza di hotel sconvolta, a piedi nudi sulle schegge del comodino e fra quello che rimaneva delle tende, chiamò l’ufficio di Pieve Ponte Morone e comunicò alla centralinista il contenuto di un telegramma speciale per il Silvano. La voce ansimante si sentiva a malapena d’altro lato del telefono e la centralinista, suo malgrado, fu costretta a chiedere piu’ volte a Testa di T. di ripetersi. Quella sera stessa ingoio’ una dose di barbiturici e si addormento’ di fronte alle repliche del Maurizio Costanzo Show del ‘93.

Gli serviva inoltre un lettore di schede sd ultra-mini. Non pensava che sarebbero arrivati a tanto nel settore della miniaturizzazione.

>>Le possiamo inviare per posta il modello della Kodak. Dovrebbe poterlo prelevare alla nostra casella postale di Valencia.<<.

Testa di Torpedine acconsentì. Dopo qualche ora chiamò il servizio in camera e ordinò un cocktail di scampi e una maxi porzione di paella. Quindi, in accordo al programma di un sano pomeriggio di masturbazione, svenne.

Nella sede di Pieve Ponte di Morone l’arrivo del Silvano fu come al solito caotico e ricco di colpi di boxe. Il tipo a guardia del cancello non lo riconobbe e Silvano si rifiutò come al solito di fargli vedere il lasciapassare della ZPG (Zeta Press Group). Il custode gli intimò di lasciare l’area di parcheggio, il Silvano schiantò per terra la bottiglia di birra e sferrò un pugno al custode cinquantenne, che perse un dente finto. Intervenne la security, che riuscì dopo vari tentativi a immobilizzarlo. Fu in quel momento che gli cadde la parrucca e la pelle di pesce che si era attaccato al volto con della colla vinilica. >>Vi dico che sono Testa di Torpedine!<<, fece lui, in un ultimo spasmo. Poi qualcuno della security lo riconobbe e lo rimise in piedi. >>Mi scusi, ehm, Testa di Torpedine, errore nostro, ci spiace terribilmente, vogliate accettare le nostre umili scuse, da parte dell’intero servizio di sicurezza. La accompagniamo subito al suo ufficio e le prepariamo un buon caffè.<<

>>Con una palla di gelato alla vaniglia dentro!<<

>>Certo, sicuramente! Mi permetta…<<. Il dipendente raccolse i cocci della bottiglia. >>Le forniremo subito una Poretti non appena troverà posto nel suo ufficio, dottore.<<

>>Sarà meglio! Caffè e gelato alla vaniglia. E un sigaro cubbbano!<<. Visibilmente ubriaco fece il suo ingresso nella filiale di Pieve Ponte Morone. Lanciò le chiavi della sua Ford decapottabile ad un inserviente delle pulizie: >>Tè, parcheggiamela!<<.

>>Certo nobile Testa di Torpedine<<, l’agente della security sguscio’ via, imprecando contro la suocera che l’aveva convinto ad accettare questo dannato lavoro.

Una volta sistemate le pratiche urgenti e trovatosi da solo nel suo ufficio Silvano riaprì la busta con il telegramma da Valencia e lo rilesse con attenzione:

“Tengo il toro per le palle. L’encierro ha avuto inizio. STOP.”

Solo in una sbornia di Wild Turkey Testa di Torpedine riusciva a scrivere telegrammi così belli e profondamente mistici. Dal cassetto della scrivania prese una scatola di fiammiferi e dette fuoco al telegramma. Già il Silvano poteva sentire distintamente i passi dei danzatori di flamenco sul palco di legno di quercia in una notte sivigliana. Insieme a Testa di Torpedine, il Pelato ed ad una buona bottiglia di Wild Turkey. Già pregustava l’avventura in terra spagnola. Si diceva che Laso avesse trovato la sua dimensione lì, in quel di Valencia, e che si era ritagliato un posto nella Storia dello spionaggio internazionale.

Per quel che gli riguardava, pensò il Silvano, i tempi dell’Uomo Fegato erano passati, ma conservava intatta ancora quella forza e quella determinazione dell’Uomo del Duemila, nato negli anni ’80, cresciuto nei ’90 e reso pazzo dall’iperstimolazione sensoriale che il nuovo Millennio portava con sé. Quella facilità di essere dall’altra parte del mondo rimanendo collegati a tutto il resto senza fatica. Da dietro la scrivania il Silvano sbuffò felice il fumo fragrante del sigaro cubano pagato dalla ZPG. Era proprio un bel periodo, e un bel raccolto.

Ad Amburgo la pioggia cadeva fitta, come dio la mandava, in un pomeriggio di luglio inoltrato. Mentre il resto dell’Europa arroventava in una estate africana, il clima mite e fresco nel nord della Germania era il massimo per chi non poteva soffrire temperature elevate. Il prezzo che si pagava era quell’umidità che a poco a poco ti metteva la ruggine nelle giunture. E la gente del luogo aveva grosse ossa. Tranne un piccolo uomo pelato con la barba che lavorava nel suo ufficio nelle ore piccole, mentre la pioggia in città scorreva sull’asfalto e consumava le ossa dei giganti. Il Pelato pescò un panino dal sacchetto e ci diede un bel morso, innaffiandolo di birra. L’articolo era quasi terminato. Mancava solo la chiusura ad effetto. La pioggia ticchettava rumorosa sulla vetrata. All’improvviso il cellulare squillò e lo costrinse a scuotersi dallo stato di trance in cui si trovava.

>>Diavolo!<<

Poi guardò il nome sulla schermata.

>>Ah be’…<<

La persona all’altro capo della linea, 3000 chilometri dall’umida Amburgo, aveva un cerchio terribile alla testa e l’intestino sconvolto da un’orgia di cibo a base di frutti di mare. Però in pochi minuti informò professionalmente il Pelato dei contenuti di un nuovo lavoro giornalistico. A quanto pare aveva tra le mani una bomba di informazioni di inestimabile valore.

>>La ZPG ti spedirà nella giornata di domani il biglietto aereo via e-mail. Farai scalo a Torino, così incontrerai il Silvano. Per l’occasione sta provando una nuova colla per attaccarsi parti di animale morto sulla faccia. Credo si tratti di un procione, questa volta. Non dimenticare di chiamarlo dottore, sembra che si stia montando la testa per aver ottenuto la Laurea Honoris Causa dall’Università di Pisa in Metodologia della Comunicazione Politica. Ha fatto la sua comparsa nell’ateneo strafatto di etere.<<, disse Testa di Torpedine tutto d’un fiato. La commissione non ha avuto scelta, credo.

>>Degno del suo stile peccaminoso.<<

Se lo figurava già all’aeroporto, con quella ridicola maschera animale, a importunare ogni figura autoritaria presente e a calpestare ogni regola di imbarco prevista dalle procedure di sicurezza che regolavano l’aviazione europea.

<<Ne vedremo delle belle>>, pensò il Pelato.

>>Siamo in ritardo. Non ce la faremo mai!<<, urlò infelice il Pelato, all’apice di una crisi di panico.

Il Silvano, che correva accanto a lui, i lineamenti sfatti e lembi di pelle morta che sbatacchiavano sul volto tumefatto, non aveva idea di come raggiungere il Gate e prendeva vie a caso.

>>Maledetto, che tu sia maledetto!<<, disse ancora il corrispondente da Amburgo.

Scamparono per pura fortuna a una condanna per resistenza a pubblico ufficiale e violazione delle norme di imbarco, con l’aggravante dell’incitazione al terrorismo. Se non fosse stato per il lasciapassare della ZPG firmato dal presidente di proprio pugno non avrebbero convinto il personale a lasciarli andare. D’altra parte come si poteva giustificare legalmente il comportamento irriverente di Silvano? Il suo compagno di disavventure non riuscì a trovare una risposta neanche lontanamente soddisfacente. Finalmente trovarono le indicazioni per il Gate. L’imbarco terminava fra pochi minuti. O forse erano già stati avvertiti dell’arrivo dei due ed avevano bruscamente chiuso i cancelli e spento i terminali, fatto fagotto e messo in pista l’apparecchio. Già si immaginava il Pelato i volti rilassati dell’equipaggio.

>>L’abbiamo scampata!<< si sarebbero detti. E giù di fragole e champagne.

Invece erano lì, contrariati e molto probabilmente informati sulla specificita’ dei loro peculiari passeggeri. Il Silvano nascose qualcosa nella tasca. “Dio” pensò il Pelato “fammi imbarcare e brucia all’inferno questa immonda creatura!”. La hostess controllò i biglietti, mentre un membro della sicurezza studiò il comportamento insolito dell’omone con la camicia hawaiana e il volto contraffatto.

>>Signore!<<.

“Oh mio Dio, cosa ne hai fatto della mia preghiera? Ti ci sei pulito l’aureo Culo?”, si disse il Pelato.

>>Signore, svuoti le tasche per favore .<<, intimò l’uomo della sicurezza aeroportuale, guardandosi attorno. Intanto la hostess premette un bottone sulla consolle.

>>Signore, ha un regolare permesso di intransigenza normativa o devo contattare al più presto il mio avvocato?<<, fece di tutta risposta il Silvano, poggiando le enormi braccia sudate sul ripiano.

Un fragile pannello di plastica separava la mole di Silvano dai due inservienti. L’uomo della sicurezza pareva insicuro e impacciato, nonostante i capelli tagliati alla marine e un corpo palestrato. Tra i due, quello che aveva l’aria del motociclista pericolosamente fuori controllo era proprio il Silvano. La donna era sbiancata. >>Signore, ehm, ha qualcosa nella tasca destra e ha una forma sospetta. In base alle norme di sicurezza, sono tenuto e ho il diritto di chiederle di svuotare la tasca e mostrarmi l’oggetto.<<

>>Ehi, andiamo…<< intervenne il Pelato sudando copiosamente >>abbiamo già passato i controlli, che credete che nasconda il mio collega?<<

>>Stanne fuori tu.<< gli disse freddo il Silvano, gli occhi sbarrati e una espressione da squalo.

>>Ragazzo, potrei invocare il diritto di repulsione di condotta prevaricante, e mi sembra che questo sia un caso da manuale. Non mi resta che contattare il mio avvocato. Come previsto dalle norme di gestione delle controversie legali legate alle procedure d’imbarco in aree civili, avrei il diritto di ritardare se non addirittura ordinare il fermo dell’apparecchio come elemento di controversia internazionale. E tutto questo perché Lei si sente in dovere di mettere in discussione le operazioni di controllo di un aeroporto gestite dalle Autorità insignite. Lei fa parte di una unità dell’Aeronautica militare preposta al controllo di civili? Altrimenti si faccia da parte.<<

Il Pelato gettò un’occhiata alle sue spalle, dove stavano sopraggiungendo altri membri della sicurezza. Dopo un momento l’uomo si girò verso i suoi colleghi e fece un cenno. Il Pelato si lasciò sfuggire un sospiro di sollievo. Gli uomini si fermarono e fecero dietrofront.

>>Passi pure. Le chiedo scusa.<< fece l’uomo della sicurezza, palesemente frustrato e contrariato.

Sul condotto verso l’apparecchio il Pelato vide spuntare il calcio di una Beretta d’ordinanza dalla tasca delle bermuda del suo compagno. Durante i momenti concitati con la polizia aeroportuale il Silvano doveva aver sottratto una pistola da una fondina. Questo poteva dire solo due cose: la prima, che il poliziotto in questione aveva slacciato la fondina secondo quanto prevedevano le regolari procedure di arresto di persona armata; la seconda, che il Silvano era una persona potenzialmente pericolosa per il genere umano.

>>Ho sempre desiderato rubarne una ad un maiale…<< si confidò poi una volta sulle poltrone dell’aereo e in fase di decollo. >>Ora è tempo di sballarsi forte!<<. Ingollò due compresse con del whiskey e accarezzò nuovamente il calcio della Beretta. >>Ooooohhhh…<<.

Il Pelato, per conto suo, aprì il portatile e sniffò una polvere bianca tra i tasti, tra lo sconcerto del resto dell’equipaggio.

>>Uhm? Beh…chissenefrega!<<, commentò il Pelato, generando disapprovazione tra i suoi vicini.

>>Oooohhhh-ohhh!<<, mugolò il Silvano, gonfiando le braccia.

L’arrivo a Valencia fu salutato da un caldo torrido e una fanfara organizzata all’ingresso dell’aeroporto dall’Ufficio del Turismo spagnolo per l’accoglienza delle stagionali tasche bucate. Il Silvano aveva da tempo annusato la trappola tesa al suo arrivo in terra spagnola, nonostante l’ebbrezza di un paio di anfetamine. Le autorità italiane aveva avvertito quelle spagnole del pericolo pubblico che sopraggiungeva camuffato da turista. Si liberò del ferro una volta sceso dalla scaletta, piazzandolo con mano esperta nella borsa di una innocua vecchietta. Come previsto, fu oggetto di una accurata perquisizione da parte della polizia spagnola, come anche il suo collega. Visibilmente delusi, non poterono che augurargli loro buona permanenza a Valencia.

Una volta usciti dall’area di arrivo, trovarono Testa di Torpedine che li aspettava. Colui era certo vittima dell’afa e dell’abuso di alcool. Era svenuto a ridosso di una colonna, con del vomito che gli incrostava la barba.

>>Dio che schifo…<< mormorò il Pelato, che gli mise le mani sotto le ascelle per sollevarlo. Il Silvano gli diede uno schiaffo sulla guancia con la sua enorme mano, abbastanza potente da svegliare un elefante. Sembrava un Bud Spencer smagrito e senza barba.

>>Ehi…>> biascicò Testa di Torpedine, ormai lontano anni luce dai tempi d’oro in cui sapeva tenere testa a Jimmy Walker. <<Come è andato il viaggio?<<

>>Come sempre. Abbiamo provocato un piccolo disagio diplomatico tra Italia e Spagna.<< lo informò il Pelato.

>>Bah, niente di nuovo allora!<< Testa di Torpedine accennò ad un sorriso.

>>Hai una brutta cera. Ci facciamo una mangiata di pesce? C’è un buon ristorante da queste parti?<< chiese il Silvano, sinceramente preoccupato delle condizioni di salute del collega.

>>Mmm, prendiamo un taxi.<<

>>Bah, mi immaginavo un’altra accoglienza, Testa di T..<<

L’uomo che presentava tali lamentele aveva un’altra parrucca e della pelle di salmone cotta e viscida attaccata ad un lato della faccia con il vinavil.

>>Ma qui il pesce è buono…<<

>>Ehi<< sussurrò T.d.T. al Pelato, chiamandolo a sé con un cenno della mano. >>Che cos’ha sulla faccia l’Uomo Fegato?<<

>>Credo della pelle di pesce. E Vinavil.<<

>>Si è ridotto male dai tempi della caccia alla Torpedine.<<

>>Già.<<

Il Silvano attaccò la seconda portata a base di crostacei. >>A cosa dobbiamo l’onore della tua convocazione? Ti avverto: il nostro ufficio di Pieve Ponte Morone sollecita dei chiarimenti riguardo la nostra riunione. Vuole avere entro la serata di domani un resoconto del nostro incontro con tanto di verbale. Ma il mio commento al riguardo è:…<< e fece partire una scorreggia.

Testa di Torpedine fece spallucce. >>Beh mi sembra una normale richiesta della nostra agenzia. Per quel che mi riguarda, l’oggetto è da tenere segreto finché non troveremo abbastanza contatti importanti per coprirci le spalle. È roba che scotta. Per quel che ho potuto capirne. È in gioco il futuro dell’intera popolazione mondiale, tanto per capirci. Il caso Snowden è piscio sulle nevi perenni dell’Everest, al confronto.<< Testa di Torpedine spulciò degli appunti tirandoli fuori da una valigetta grigia di plastica con una grossa Z dipinta su un fianco. >>Ah, vi saluta Laso.<<

>>Come sta?<<

>>Mah, bene. Si strombazza una tettona.<<

>>In gamba il ragazzo.<< fece Silvano, spolpando la chela di un granchio da 25 euro. Pezzi di vinavil caddero sul piatto. Di sicuro l’afa non aiutava.

Seduto a pochi metri dal gruppo un uomo si passò il tovagliolo sul mento raggrinzito dalla tensione. Queste attese lo eccitavano sempre, per cui aveva deciso di ordinarsi un chinotto da sorseggiare con la cannuccia. Il suo mento era stato geneticamente modificato in modo che potesse ricevere e registrare conversazioni effettuate anche a chilometri di distanza. Questi dati venivano trasmessi al suo cervello e immagazzinati per lungo tempo, per poi essere trascritti al computer con comodo a casa e spediti al suo datore di lavoro. Per direzionare lo strumento ricevente sulla fonte desiderata non doveva far altro che entrare in contatto visivo con il soggetto, che poteva essere anche seduto su un veicolo in viaggio. Questo gli costava sempre fatica e concentrazione. Una volta aveva casualmente captato una conversazione tra il presidente della Namibia e la sua segretaria, sulla spiaggia di Gabicce Mare. Ne era venuto fuori che al presidente della Namibia piacevano i cosciotti di agnello alla calabrese e la pesca alle cozze. Qualche mese dopo, al Tavolo Annuale sulla prevenzione dell’AIDS organizzato dall’OMS a Ginevra, il presidente della Namibia trovò il cosciotto alla calabrese al buffet e una mostra sulla pesca dei mitili riminesi degli anni ’30. Ma il tasso di mortalità di AIDS in Namibia non scese, anzi. Lo stesso presidente si infettò a causa di rapporti non protetti con la segretaria, che venne fatta lapidare con l’accusa di stregoneria.

Quello che registrò quel giorno, in quel ristorante, fu abbastanza interessante da guadagnarsi la licenza di occuparsi personalmente di quel problema. Un sorriso obliquo gli increspò il viso, solitamente privo di espressione. Il mento vibrò di piacere. CRAAAC.

>>Che ne dite se cambiamo ‘sti cazzi di nomignoli? Posso capire il Silvano e Testa di Torpedine, ma il Pelato è veramente un nome del cazzo…<< fece il Pelato.

>>Non è colpa nostra se sei pelato, Pelato.<<

>>Si ma sono stufo di ‘sto nome.<<

>>E come ti vorresti chiamare?<< venne in aiuto Testa di Torpedine.

Il Pelato ci pensò un attimo, sorseggiando la sua cerveza. >>Asso!<<

Il nome venne all’unanimità approvato.

>>Eh ma anche il mio, è lungo e poi è molto tempo che la Torpedine ha lasciato il mio corpo!<<

Il Silvano valutò la richiesta, poi si passò un tovagliolo sulla faccia per levarsi gli ultimi resti di colla e pelle di pesce. >>E va bene, però io rimango Silvano, senza l’articolo davanti. Conoscevo un Silvano, e non era certo un cazzo di burattino!<<

>>Eh ma volevo io il nome Silvano!<< sbottò Testa di Torpedine.

>>Sei arrivato tardi, vecchio!<<

Testa di Torpedine dovette rifletterci a lungo, prima di proporre il nuovo nome: Freccia.

>>Io avrei detto Feccia.<< fece Silvano, che comunque approvò la modifica.

Per Asso andava tutto bene, l’importante era aver cambiato il suo.

Quella sera girarono Valencia in compagnia di Laso, che li aveva raggiunti poco tempo dopo al ristorante.

>>C’è qualcosa che non mi convince qui, schiodiamo.<< ordinò, senza neanche dare una spiegazione convincente. Passeggiarono sul lungomare come un trio di vacanzieri goderecci, ogni tanto richiamando qualche vecchio aneddoto degli anni passati. Arrivati nei pressi di un chiosco, comprarono della birra e qualche pacchetto di patatine e si diressero alla spiaggia. Un gruppo di inglesi strafatti passarono schiamazzando vogliosi di rissa, poi videro Silvano e si zittirono all’improvviso. Senza una parola furono d’accordo nel girargli al largo. Silvano sorrise saputo.

>>Beh, che numero era quello?<< chiese incuriosito Asso.

>>Ho scritto un pezzo sugli hooligans del Sussex proletario qualche anno fa. Mi infiltrai in un gruppo. Diciamo che la situazione mi sfuggì di mano e organizzai un paio di spedizioni punitive nei confronti di un gruppo rivale e qualche affare lucrativo. Se non fosse per l’intervento dell’Agenzia, a quest’ora sarei un pezzo grosso nell’Inghilterra meridionale.<<

>>Davvero?<<

>>Tè, ti prenderei per il culo?<<

Asso si rallegrò per l’ennesima volta di avere un collega così dalla sua parte. Il mondo del giornalismo è così pericoloso oggigiorno…

>>Il tipo che mi ha consegnato la scheda sd ha avuto accesso ai dati in maniera piuttosto casuale, attraverso un attacco hacker ad un sito di telecomunicazioni cinese.<< spiegò Laso, sorseggiando la birra e studiando il culo di alcune tipe >>Il contenuto di questa scheda è passata per le mani di importanti politici e uomini di potere, gente che lavora molto dietro le quinte dell’economia mondiale e della gestione di dati statistici. I dati dovevano in realtà essere studiati da questa agenzia cinese delle telecomunicazioni per promuovere un nuovo social network. Molti esperti erano già al lavoro sul progetto quando i dati vennero sottratti da ‘sto tipo.<<

>>Eh ma perché ha passato i dati a te e non a qualcuno che lo poteva pagare profumatamente?<< intervenne Asso.

>>Magari aveva la strizza di venire ucciso.<< ipotizzò Freccia.

>>Nessuno delle due. Non aveva idea di quello che gli era capitato nelle mani. Mi aveva passato la scheda perché dentro ci aveva messo un paio di calendari di Sabrina Salerno e voleva che ci dessi un’occhiata. Diceva che erano foto altamente arrapanti. I dati interessanti in realtà erano scritti in codice e solo un esperto poteva decifrarli.<<

Asso e Silvano si girarono verso Freccia. >>Non ci avevi detto che i calendari erano stati tutti eliminati?<<

>>Beh, i cinesi pagano bene per un paio di foto della Sabrina.<<

Laso si limitò a ghignare.

>>Questi dati dovrebbero contribuire all’elaborazione di un social network che raccoglie informazioni sull’orientamento politico degli utenti registrati e altri dati statistici, e fin qui nulla di nuovo. Nella promozione del social gli sviluppatori non avrebbero fatto mistero di questo aspetto.<<

>>E allora quale sarebbe la notizia bomba per noi?<< irruppe Asso con la sua vocetta.

>>Ti farebbe di sicuro piacere sapere chi è l’ente che ha commissionato questo progetto e quali Paesi del mondo avrebbero partecipato al finanziamento una volta iniziato il lavoro…<<

>>Cazzo, sembra di essere in un film di spionaggio…<<

>>Frena l’entusiasmo, Asso…ti accorgerai di quanto scotta la patata quando ti dirò chi partecipa.<<

Seguì un periodo di silenzio per la suspence.

>>Beh?<<

>>Ehm beh, a quanto pare ho creato l’effetto giusto, vi state cagando sotto dalla suspence…<< fece Laso.

>>Sì, abbiamo capito, dicci quali sono le forze coinvolte, così schiodiamo e ci beviamo un paio di sambuca…<< lo interruppe Silvano, digrignando i denti spasmodicamente.

>>Vi dice qualcosa il nome di Umberto Smaila?<<

Silvano guardò i compagni stupefatto e interdetto. Gli altri ricambiarono con uno sguardo freddo che nascondeva a malapena la loro delusione.

>>Ragazzi, non fatevi ingannare dal nome. Umberto Smaila, voi non lo sapete, è un pezzo grosso della politica internazionale!<<

>>Ma non è quello che trasmetteva Colpo Grosso?<<

>>Mah, questo è il proverbiale specchietto per le allodole come voi, disinformate e addormentate. Umberto Smaila calcava le scene della politica mondiale già da quando voi vi succhiavate il calzino. Sappiate che la crisi dovuta ai calendari di Sabrina e l’avvento della Torpedine ebbe origine da un suo progetto.

>>Ah ecco chi aveva messo lo zampino<< fece Freccia.

>>Beh, non fosse stato per te, il progetto sarebbe andato a fondo. Diciamo che tu sei stato il detonatore dell’intera faccenda esplosiva.<<

>>Mi fa piacere saperlo. Amo chi riconosce le mie qualità innate.<<

Laso si portò un dito indice alle labbra. >>E la Robiola Osella, vi dice qualcosa?<<.

Freccia, Silvano e Asso si guardarono l’un l’altro. >>Senti, ma ci stai pigliando per il culo?<<

Il loro prezioso informatore sorrise misterioso come la Gioconda e fece intendere ai tre ascoltatori che la faccenda si faceva via via sempre più complessa.

La Robiola Osella nacque come formaggio fresco in uno stabilimento di Pieve Ponte Morone (esatto, proprio dove sta una delle sedi della Zeta Press Group). Il suo ideatore, nonché padre-marito di uno delle due vacche che donarono la materia prima, diede una forma rettangolare e debolmente precisa alla prima porzione di Robiola Osella. La chiamò, per l’appunto Robiola Osella. Il primo a mangiarsela fu il suo figlio-vitello John Kloumerrr, chiamato così per il suo muggito klouuumerrr. Soddisfatto, si leccò il muso metà uomo metà vitello. Da quel giorno, il padre di Kloumerrr decise di avviare una produzione fortunata di formaggino fresco. Perché Osella? La madre di Kloumerrr si chiamava Osella ed era morta durante le doglie. Kloumerrr era figlio unico e senza madre, così il padre aveva dato il nome del formaggino onorando la madre. Si dice fosse anche la moglie del Farmer di Pieve Ponte Morone, ma lui smentì sempre di averci avuto rapporti sessuali. Con Osella. La vera moglie aveva sembianze bovine pur non essendo un bovino. La vera moglie aveva una lontana somiglianza con Antonella Clerici, soprattutto per le dimensioni delle mammelle. Il resto in effetti non somigliava alla Clerici. In realtà, non ci somigliava un cazzo alla Clerici. Era brutta e manco bionda.

Insomma, presto il contadino della Robiola Osella divenne famoso e fece anche l’attore nella pubblicità, impersonando sé stesso. Ma presto finì per indebitarsi ed entrare in un giro strano malavitoso. Alcuni capi mafiosi gli intimarono di cambiare la ricetta del prodotto per rendere meno onerosa la produzione ed incrementarne i profitti con la vendita ad un pubblico sempre più numeroso. Così ebbe origine la seconda parte della storia della Robiola Osella. Quella tragica, quella disgustosa.

In uno scantinato si trovò legato e imbavagliato. Alcuni sicari della mafia gli puntarono una pistola alla tempia. >>Ora diciamo che sei arrivato ad un punto in cui la ricetta deve essere cambiata, per poter avere successo mondiale. Ingredienti sani? Pfui! Basta con ‘ste vacche! Ora è arrivato il momento di tirar fuori un coniglio dal cappello, contadino!<<. E se la presero con il povero vitello ormai quindicenne Kloumerrr, che andava alle superiori e studiava chimica. Gli strofinarono una Robiola Osella sul muso umido. >>Aaaahrghhh!<<

Il vecchio padre non potè resistere alla tortura psicologica che gli stavano propinando. Così gli venne una idea.

>>Decise di procurarsi la materia prima, già pronta, da un’altra parte. Dove secondo voi può trovare la stessa materia biancastra e salata con la consistenza di un formaggio fresco?<<

I tre si guardarono sottecchi, poi due paia di occhi si posarono su Freccia.

>>Uè…<<

Agli inizi del 21° secolo la Robiola Osella non era un prodotto derivato dal latte. Fu SISTEMATICAMENTE ricavata da un unico individuo, di sesso maschile. La raschiatura avveniva al mattino e alla sera, nelle ore del giorno in cui era massima la produzione di quello che fu classificato come alimento, con la compiacenza delle autorità corrotte. La mafia venne ripagata dai suoi crediti nei confronti del contadino Osella. Kloumerrr finì gli studi in chimica e ereditò l’azienda dal padre, che si ritirò in pensione.

Freccia si alzò e si allontanò dal gruppo, imbarazzato.

Asso decise di concentrarsi sui fatti. >>Sì, ma cosa c’entra questa roba della Robiola Osella con la cosa del social network, Smaila e tutto il resto?<<. Laso mantenne un profilo riservato. Poi ad un tratto disse sottovoce: >>Abbiamo compagnia!<< e si dileguò, lasciando Silvano e Asso con le loro birre e gli snacks. Sull’altro lato della strada, di fronte ad alcuni negozi ancora aperti, troneggiava una figura terrificante. La figura sorrise malignamente. CRAAAC. D’un tratto il suo mento aumentò di dimensioni. E si lanciò verso Laso, in un inseguimento mortale.

FINE PRIMA PARTE

Quel giorno, molto prima dell’avvento della Torpedine, ci ritrovammo come al solito in uno di quei luoghi di ritrovo molto comuni nella cerchia dei trentenni. Credo fosse Piazza Vittorio a Torino. Eravamo sul grullo andante, sentivamo che era una di quelle serate che promettono bene anche solo a sentirne l’odore, un misto di pioggia estiva e gel per capelli. Non che ci fossero molti capelli, non so se mi spiego. Insomma, c’era che stranamente uno di noi era in ritardo. Quello che non lo è mai. Così eravamo lì a parlare del più e del meno e a commentare questo e quello. Era un venerdì sera. “Sembrava di essere al mare”, come avrebbe detto il protagonista di un film che riguardavamo quasi ogni settimana come ossessi.

Era il compleanno dell’Italo-franco-irlandese. Almeno, quello che si sarebbe guadagnato tale appellativo, qualche tempo dopo. Era lui in ritardo. Un anno dopo mi avrebbe fatto visita nel mio appartamento nel nord Europa. Dopo ancora ci sarebbe stata la parentesi balcanica con l’altro mio socio.

Quella sera parlavamo di quanto era figo andare al Barrumba, il locale lì vicino, un deca fa forse. In una mano il mio regalo di compleanno, una birra di quelle gustose. Credo fosse belga. Contavamo di fargliela scolare prima di andare a ballare, per sciogliergli un po’ le vecchie ossa. Sa essere sciolto il Geburtstagskind. Sulla pista da ballo intendo.

“Quando l’hanno chiuso il Barrumba?”

“Cazzo ne so?”

Più o meno il contenuto delle nostre argomentazioni. Indossavamo le nostre camicie migliori. Poco dopo vedemmo arrivare il nostro uomo, accompagnato da una ragazza. Ci chiedemmo dove riuscisse a racimolare del fascino. Dico, a volte sa essere affascinante, ma il più delle volte ha l’aspetto di un vecchio scoreggione. Comunque per lui non sarebbe stato difficile trovare ragazze ogni giorno, se solo si impegnasse. Un uomo stile accademico inglese. Le poche volte in cui è sobrio.

“Ciao.”

“Auguri.”. Gli porgiamo la bottiglia. Ringrazia, stappa e beve.

“Dì, ce la presenti?”

“Lei è ***********.”

“Piacere”

“Piacere”

 

Quella sera il Dj era in forma, mise della musica davvero sexy. Qualcosa del tipo Sean Paul e Timbaland. Roba che ti slaccia i pantaloni con i suoi bassi. Fu una bella serata ballerina.

“Eh cazzo c’avevi ragione, dovevo farmi sotto con lei fin dal primo momento.”

“Sei gay, lo sai.”

Era ancora lontano il tempo in cui avrebbe contaminato mezza Europa con i Poster di Sabrina Salerno, trasformando la popolazione umana in sottoprodotti di una centrifuga mentale. Almeno, per essere precisi, la Torpedine. E mentre Got 2 Luv U pompava dalle casse, provava a spiegarmi come riusciva a far passare la voglia alle tipe di scoparselo.

“Sì, senti, questo lo sappiamo già che sei frocio” gli fece l’altro socio. “Ora vieni che ti offro un Cosmopolitan.”

“Un…che?”

“Cosmopolitan. Roba per te. O preferisci un Bloody Mary?”

“No, vada per una birra.”

 

“Schiodo da qui.”

“Pure tu?” gli feci io.

“Sì, ho roba in ballo da altre parti. Non so ancora, dove, ma dall’Irlanda ricevo proposte interessanti.”

“Hai finalmente trovato qualcuno che ti sovvenziona i film con i maiali?”

“Sai, nel Regno Unito sono più aperti. E hanno tanti maiali.”

“Buon per te.”

Quello che si sarebbe fatto chiamare il Silvano nella parentesi Balcanica ruttò, si ricompose e cercò qualcosa di acuto da dire. Ruttò nuovamente, questa volta con una nota di commozione.

“Vienimi a trovare nel nord, caso mai avessi voglia di sporcarmi le tende.”, dissi io infine.

Era il compleanno dell’Italo-franco-irlandese.  In un sacchetto c’era la bottiglia di birra belga da 0,75. Seduti al nostro tavolino, in quella mattinata di sole, a bere caffè macchiato e mangiare croissant, con insolita delicatezza. Il Silvano provava a mangiare a piccoli bocconi, suscitando approvazione da parte degli altri ospiti. Mancavano poche ore al momento X, eravamo non poco nervosi. Il mio socio si guardava continuamente attorno, temendo di trovarselo forse davanti. La Torpedine, nascosta sotto le spoglie del nostro amico. Ma dietro il suo sguardo vuoto – a cui eravamo abituati d’altronde – si nascondeva un demone maledettamente furbo e veloce, pronto ad anticipare le nostre mosse. L’ultima volta era scappato su una bici senza sellino, probabilmente ad ogni sobbalzo un centimetro più vicino a sperimentare l’orgasmo prostatico. Ma la Torpedine non si sarebbe scomposta per così poco. Il mio cellulare squillò, per poco il Silvano non si rovesciò il caffè sulla sua camicia nuova dalla sorpresa. “Datti una regolata, stai sudando come un maiale.”

Dopo qualche secondo riattaccai. “È tutto pronto. Si comincia.”. Qui il Silvano tirò fuori il ferro e teatralmente scarrellò davanti ai muti e contraddetti clienti del bar. Lasciammo una lauta mancia e sgommammo via in sella alla nostra moto BMW. Facemmo in tempo a sentire qualcuno chiamare la Gendarmerie. In testa mi suonò chiaro un vecchio pezzo di Sean Paul. Eravamo carichi.

Quando arrivammo sul posto capimmo che sarebbe andato tutto a puttane. La tipa scelta era tutta struccata e ubriaca!

“Credimi, non potrebbe andare meglio di così” fece il mio socio. Ne sembrava realmente convinto, non lo diceva così per caso. “Tipetta mezza ubriaca e fatta, spompata dal nostro uomo lì…”. Indicò il tipo di Timisoara. Quel porco. Se l’era pompata tutta la notte e guarda che risultati. La ragazza dimostrava ora trent’anni e faticava a stare in piedi, o perlomeno a mantenere una posizione eretta senza vomitare. “Ma perché, dico perché, è ubriaca?”, mi domandai ad alta voce.

“Credimi, è una manna dal cielo” biascicò l’uomo di Timisoara.

“Non raccontarmi stronzate. Non è più credibile, sembra solo una brutta copia della Sabrina.”

“Una Sabrina sfatta e ubriaca. Chi non la vorrebbe?” rispose il minchione. Lui si che aveva un profilo balcanico.

“Avete bevuto tutta la notte, l’hai ubriacata per fartela. E poi l’hai nutrita ad alcool e tramezzini. Bel lavoro!”

“E stai sereno!”. Silvano si aprì la camicia e fece vedere il ferro all’uomo di Timisoara. Lui ci rivolse i palmi delle mani in segno di resa e si allontanò, senza mai rivolgerci la schiena. “Te la risolvo io ‘sta cosa, con il nostro uomo.”

“Ach, lascia perdere. Ormai è fatta. Questa è la nostra unica possibilità. Se la falliamo, il genere umano è fottuto. Saremo tutti in mano alla Torpedine.”

“Dì, ma tu ci credi agli Ufi? Magari sono stati loro!”

“Bah, taci. Vediamo di fare la nostra parte almeno. Parliamo con la ragazza.”

La ragazza era attorniata da truccatori e un regista assunto per l’occasione, che le spiegava in francese cosa doveva fare. Lei non capiva un cazzo ma piegava la testa come se capisse tutto. All’improvviso una nuvola oscurò il sole del mattino. All’improvviso si levò un vento gelido. Un brivido mi corse su per la schiena.

“Lo senti anche tu?” mi chiese Silvano.

Certo che lo sentivo io. Lo sentivo nelle ossa. Malgrado tutto, lui era vicino. Ci studiava. Probabilmente valutava i pro e contro. Ma la tentazione era troppo forte. Riuscivo a visualizzarlo: con i suoi occhi di topo studiava il suo formaggino, calcolava con fredda precisione da ingegnere le possibilità di successo e come annientarci. Probabilmente la ragazza era abbacinante come un diamante dentro una miniera di carbone, e lui era la gazza ladra. Sentii Silvano armare il cane.

“Ehi, ciccia. Una mano lava l’altra!”, le urlò Silvano.

“Non temo nulla.”, riuscì a sputare, senza sbarellare.

“Cominciamo la prima scena, eh? E poi ti puoi riposare!”. Mi sentii un nazista bastardo. Feci un cenno al regista. Il meccanismo venne avviato, la Grande Trappola.

Forse dovrei dirvi una cosa. Prima di andare avanti. Oltre all’esca ci serviva un modo per immobilizzare la Torpedine. Per quello avevamo contattato un esperto, lo Specialista. Arrivava direttamente da Regensburg, Germania del sud.

“HAI PRESENTE UNA MINCHIA ENORME?”

Robe così riuscivano a immobilizzare l’intera clientela di un ristorante cinese senza particolare sforzo. Di sicuro avere in corpo una certa quantità di birra e funghi cinesi aiutava. Il suo comportamento estremamente imbarazzante era il risultato di un esercizio mente-corpo praticato per lunghi anni. Durante la sua preparazione spirituale in Mongolia immobilizzò il suo maestro Kim-Meng-Oyo, riuscendo a offendere l’intero parentame e creando un problema diplomatico tra Italia e Oriente. Il suo maestro dovette convenire che la sua bravura aveva un che di demoniaco.

Nei dintorni di Regensburg si faceva chiamare l’Orso Bruno, o Braunbaer. Esperto di vini e gran bevitore, gli venne promessa una cassa di vino francese come ricompensa, se fosse riuscito nell’intento di bloccare la Torpedine. Di darle il colpo di grazia con la mazza da baseball e il guantone (per via dell’elettricità). Insomma, doveva sporcarsi le mani.

“Ma perché non lo fate voi? Che cazzo volete da me? E con cosa mi pagate, oltre al vino? Voglio di più!”, si lamentò con voce baritonale da orso.

“Se la ragazza sopravvive, puoi avere la ragazza. Tanto è ubriaca e non capisce più un cazzo.”, mi sentii dire, con efferata freddezza e zero empatia. Silvano approvò.

“Mi sembra logico, ragazzi. Mi sono scapicollato qui dalla Baviera solo per una cassa di vino e la salvezza dell’umanità, per fare un favore a quella testa pelata col pisello smangiato e a quel frocio con la “R” francese? Dì, mi avete preso per un coglione? Eh? E che cazzo ci faccio qui nel paese dei mangiabaguette? Eh?”

“Ehm, controllati, Braunbaer, cerca di serbare il meglio per quello che potrebbe succedere tra pochi minuti.”, feci io.

“Dove hanno i vespasiani ‘sti froci dei francesi? Devo cagare!”, disse in francese. Si guardò intorno. Qualcuno della Troupe, rosso di patriottica collera, gli indicò con il dito medio il cielo sopra, coperto da nuvole gonfie di pioggia. “Ficcatelo su per il culo ‘sto dito, cazzone!”. Silvano lo prese teneramente per il braccio e lo portò lontano dalla troupe. “Che bel pezzo di gnocca! Ve la siete già fatta voi due, eh?” esclamò l’Orso Bruno Bavarese. Silvano gli iniettò con una piccola siringa del narcotico sulla schiena. Dopo qualche minuto perdeva bave da un angolo della bocca ma era lo stesso in forma. Ci vuole ben altro per tipi come lui, pensai.

Le riprese, grazie a Dio, iniziarono. Per scaramanzia tenni più stretta la bottiglia di birra belga. Ti riportiamo a casa, amico. Siamo qui. I riflettori erano accesi e la tipa cominciò a recitare. E, cacchio, nonostante fosse ubriaca marcia, aveva il suo stile.

-Te l’avevo detto che non era finita qui, Paul. E che le nostre strade un giorno si sarebbero divise!-

La ragazza si gira di spalle facendo danzare i capelli nell’aria, l’uomo si avvicina e le mette una mano sulla spalla.

-E io te l’avevo detto che presto sarebbe arrivato questo momento, Sabri.-

La ragazza non accenna a voltarsi, ma persiste a guardare davanti a sé, intrecciando le braccia davanti al petto. Per un attimo barcolla (forse perché è sbronza, Nota del Regista), l’uomo le mette l’altra mano sull’altra spalla, avvicinandosi a lei ancora di più, sospirandole nell’orecchio.

-E sarebbe arrivato anche il momento di…definire…qualche particolare, della storia tra noi due…-

-Quale storia? È stata solo una notte, e poi quell’altra, e poi quell’altra ancora, con le tute da sci e gli scarponi, e infine stamattina, in treno, col controllore…-

-La storia, quella che è cominciata in quel bar di Dublino e che non è ancora finita, Sabri, amore mio…prendimi…le mani e andiamocene da qui…-

-Se solo…non facesse così freddo…e questa pioggia, che non accenna a smettere!-. Uno dei ragazzi della Troupe si sveglia e aziona la macchina della pioggia.

Sabri si volta finalmente per guardare il suo uomo, un tipo con i baffi e il nasone.

-Non avrei mai pensato di innamorarmi di te…-

Sabrina si gira nuovamente, questa volta per vomitare di nascosto dalle telecamere. Si ricompone in tutta fretta e, pulendosi le labbra, si avvicina per baciare il suo uomo, come da copione. L’uomo all’inizio stenta, poi rimane fedele alla sua parte e posa le labbra sulle sue. Poco dopo si contorce per la nausea, ma sembra che le sue sono pene d’amore.

“AAAAAHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHHGHHHHHHHHHHHHHHH!”

L’urlo agghiacciante devastò l’aria, mentre qualcosa di inumano percorse a grandi falcate lo spazio tra l’ingresso di un bar a 300 metri dal luogo delle riprese, raggiungendolo in pochi secondi. La Torpedine!

L’uomo col nasone riuscì finalmente a staccarsi, approfittando della situazione, e se la diede a gambe levate, rigettando qua e là. La ragazza rimase sul posto, come impietrita.

Silvano cambiò posizione, scarrellò la Beretta e ci infilò un proiettile di narcotico ad alto potenziale. Io diedi il segnale alla Troupe di levarsi dai coglioni. Braunbaer si pulì l’angolo della bocca con la superficie dell’avambraccio e si dette uno schiaffo in faccia. Pochi secondi dopo imbracciava la mazza da baseball e s’infilò il guantone. “Ed ora a noi, pisello moscio di una Torpedine!”.

Tutto girava come previsto, stranamente. Non ci avrei scommesso neanche un penny. La ragazza sembrò paralizzata. Finì tra le braccia della Torpedine senza dire un bah, e poi si afflosciò come una bambola di pezza.

“ORA SEI MIA, SABRINA!!! AHHHHHHHHHHHHH! UH-AHHHHHHHHHHHHHH!”. La Torpedine ululò di piacere. Un paio di tette pelose gli spuntarono sulla schiena per l’eccitazione, gonfie di latte o liquido seminale. Le sembianze del nostro amico erano nascoste da una spessa corazza di squame sottili di colore tendente al bianchiccio (la pigmentazione della pelle che dopo un po’ gli ingegneri assumono per le ore passate davanti al monitor in un oscuro box illuminato da led a risparmio energetico) e vestiti di dubbia scelta. In un momento determinato doveva essersi liberato della povera ragazza con cui conviveva per poter vivere quella sua vita fatta di scempio e deliberata e parossistica follia. Indossava degli stivali di pelle rossa e un paio di pantaloni di velluto verde spinaci. La camicia era spiegazzata e strappata in più punti. Il suo alito sapeva di frattaglie digerite e defecate. La ragazza svenne a causa dell’aspetto della Torpedine, ma arrivò vicino alla morte per il fiato corrotto della creatura.

L’Essere non si accorse del narcotico che riuscì a scalfire la spessa pelle di pesce e a liberare la sostanza nel suo sistema circolatorio. Tra pochi minuti avrebbe fatto il suo porco effetto, ma si doveva immobilizzare la creatura, prima che facesse scempio della povera ragazza (tra l’altro data inconsapevolmente in premio all’orso bruno bavarese). Braunbaer si avvicinò a grandi passi e fece per aprire la bocca, quando la Torpedine si voltò verso di lui, con la povera ragazza tra le braccia squamose. Per la prima volta vidi bene in volto l’Essere. Rimasi sconvolto dalla mutazione che la creatura aveva provocato nel mio amico. I suoi capelli – che non erano stati tantissimi per carità – erano stati rimpiazzati da peli pubici rossastri strappati chissà da quale povero diavolo, e la barba era posticcia, comprata probabilmente in un mercatino di carnevale nella periferia della capitale irlandese. Di un verde appariscente. Per non parlare del naso. Non era più un naso, ma una proboscide dalla testa a forma di glande, secernente qualcosa di indescrivibile.

Cosa strana, l’aspetto non colpì Braunbaer, che si preparò a sfoggiare il suo repertorio come se niente fosse.

DEH, COME QUAL PESCE CHE INDICA LA RETTA VIA, CHE PEL QUEL RETTO SI LASCIA INFILARE, E IL TEMPO SI AMBIGUA, LA FIGA SI ANNOIA E TUTTO SI PISCIA.

DEH, CHE COL CODESTO PALETTO, S’INFILA NEL RETTO, E TUTTO PARE PERETTO.

PAPETTI!

ESCI DA QUESTO CORPO, OH MALEDETTO! LASCIA CHE IL CESARE ARGENTINO VEDA LE STELLE E SI RINNOVI ALL’ARIA FRESCA DI QUESTO SECOLO! TI ORDINO! FAI CALARE LE OMBRE E CHE IL TUO CULO SI APRA AL CAMBIAR DEL TEMPO, TU MENTECATTO RAPINATORE DI FEMMINE TETTUTE! QUEI POSTER NON SONO MANCO DA CECCHETTO FIRMATI! TU FALSIFICATORE, MISTIFICATORE, SELFSPOMPINATION, PESTILENTO ESSERE SQUAMATO!

La Torpedine diventò tutta rossa in faccia e premette così tanto le fauci dalla rabbia da rompersi gli ultimi denti. “MO’ TI FACCIO IL CULO, STRONZO!”. L’aria crepitò, odore di ozono e capelli sulla nuca ritti (per chi aveva capelli naturalmente). La Torpedine si stava incazzando. La donna gli scivolò a terra esanime e con le braccia libere fece un cerchio all’altezza del tronco e del pube. Tra le dita baluginarono scariche elettrostatiche.

“L’hai mai vista così incazzata?” urlai a Silvano. Lui si limitò a negare col capo, concentrato.

Braunbaer rimase sul posto imperterrito. “Che cazzo ti credi di fare con la tipa? Pisello squamoso! Eh?”. Con il braccio destro levò la mazza in aria e si preparò ad afferrare la Torpedine con il guantone, quando si sarebbe lanciata contro di lui. All’Essere gli esplosero entrambe le tette, disseminando dappertutto liquido biancastro e gelatinoso. Un omino che era rimasto lì a guardare la scena ne fu completamente sommerso.

“Che dici, dovrebbe essere un buon segno?”, chiesi a Silvano. “Può essere.”, rispose sibillino.

“Erano finte di sicuro, quelle tette pelose!” rincarò la dose l’Orso Bruno Bavarese. “E adesso che mi mostrerai? Il tuo scroto fatto con pelle di pollo? Cosa ci hai messo dentro? Delle palle da biliardo? Eh?”. Il suo sorriso canzonatorio fece perdere completamente le staffe alla Torpedine, che si lanciò contro il Braunbaer con la velocità di una saetta.

La mazza roteò solo una volta, e ci fu un lampo, seguito da uno scoppio.

Il silenzio cadde su di noi, il crepitio cessò.

“Non ci avrei scommesso neanche un penny, lo sai?”

“Lo so,”, fece Silvano, “lo so. Neanche io se per questo.”

Non so come descrivere quel momento. All’improvviso successe, e all’improvviso finì. Come un incubo. Mesi di caccia alla Torpedine si erano dissolte con un paio di battutacce di dubbia qualità e una sola mazzata sulla capoccia gelatinosa. Silvano tirò fuori un coltellaccio da una tasca nascosta dei pantaloni e cominciò ad aprire la biotuta dell’Essere morto. Dentro, privo di sensi, rinvenimmo il nostro amico, gracile e ricoperto di gelatina biancastra. L’odore della sostanza era inequivocabile. Io e Silvano lo tirammo fuori e con la macchina della pioggia a tutta potenza lo ripulimmo. Era completamente nudo. Nel frattempo Braunbaer si era rimesso in piedi e andò a recuperare la ragazza. Se la mise in spalle come un sacco e si congedò. “Prima che si svegli me la porto dentro quel camper lì.”

“Fai con comodo”, risposi io assente.

“Dì, non volevi fare quella roba lì, la roba della Zeta?” mi ricordò con grande tempistica Silvano.

“Ah già…”. MI rinvenni come da un sogno. Silvano mi porse il coltellaccio e con la punta intagliai una Zeta sulla fronte dell’amico ancora incosciente. Finito il lavoro il nostro eroe si risvegliò vomitando liquido biancastro. Mi chiesi se quella roba della Zeta fosse stato inconsapevolmente un rituale fondamentale alla base del suo ritorno alla realtà. La bottiglia che avevo stretto fino a quel momento spasmodicamente gliela porsi davanti agli occhi. “Buon Compleanno!”.

Una lacrima scese sulle sue guance e sorrise.

“Che bello rivedervi, cretini!”, disse con voce roca e gorgogliante.

Silvano si avvicinò. “E bevi, così ti lavi la bocca da quella merda biancastra! Che schifo!”. Ma la sua voce tradì emozione. Non lontano, il Braunbaer festeggiò con la ragazza e una cassa di vino francese, in un camper dagli ammortizzatori cigolanti.

Qualche giorno dopo mi squillò il cellulare. Era l’Italo-franco-irlandese. “Senti maaa, c’ho una enorme Zeta sulla fronte? Che, ce l’hai messa tu per caso?”

“No, è stata quella merdosa Torpedine. L’abbiamo vista con i nostri occhi!”

“Occhi?”

La parentesi balcanica

aprile 15, 2015

“Quella del naso è una idea del cazzo, lo sai come la penso”, feci io. La luce di quel pazzo sole agostano si rifletteva potente sulle lenti a specchio dei suoi occhiali da sole. Ne rimasi per un momento abbagliato e feci sbandare l’auto verso il ciglio della strada.

“Naaa”, ebbe il coraggio di argomentare. La plastica a buon mercato del suo naso finto cominciò a deformarsi al sole. Ora sembrava più una strega dei fratelli Grimm piuttosto che un uomo dalle fattezze balcane. “Io direi invece, segui la strada fino a quella cittadina arroccata sulle montagne e poi ci affittiamo una camera. Sto morendo di fame, anche. L’hai messo nella ghiacciaia il salmone?”.

Non ricordai dove avevo messo il salmone, ma sicuramente mi ricordai del burro per le labbra. Me ne spalmai quantità generose sulle labbra riarse, mentre con l’altra mano dirigevo la Clio nera fine anni ’90 tra le colline bruciate. La noleggiammo presso un’ agenzia di Tirana. L’avemmo ad un buon prezzo.

“Ce lo arrostiamo nella stanza. Ho sentito che qui non sono molto elastici su queste cose.”

La Zeta Press Group conosceva pochi dettagli di questo viaggio nel cuore dei Balcani. Ce lo avrebbe vivamente sconsigliato altrimenti. E poi avevo rassegnato le mie dimissioni. Probabilmente a quest’ora se la rideranno, scuotendo la testa e dicendo che testa di cazzo mentecatta sono. Sicuramente non accetteranno le mie dimissioni e io dovrò fare comunque rapporto. Cheppalle. Spinsi un po’ di più sull’acceleratore, godendomi le curve e la manovrabilità della Clio a benzina con cerchi in lega e tettuccio apribile. Si viaggiava che era un piacere. Il tipo dell’Agenzia Noleggio Auto di Tirana era un italiano che si era fatto un nome nei Balcani per le sue auto. Rigorosamente di seconda o terza mano, con qualche ritocco, superava i controlli  di legge grazie a qualche bustarella allungata al tecnico. Quell’italiano viveva in una villa con cinque cani e un harem “etnicamente” variegato, nella provincia bucolica albanese.

“Come la vuole la tenuta di strada? Su quale tipo di percorso? E che guida preferisce soprattutto?”

“Beh, diciamo, per ogni evenienza daccela ben ammortizzata. Contiamo di farci le strade di montagna. E poi ci serve veloce ma non troppo pesante davanti, non so se rendo l’idea.”

“L’ha resa perfettamente”, fece secco. Si spinse gli occhiali da sole sul naso e fece una smorfia del tipo SO COSA AVETE IN MENTE. “Adan! Portami la Clio nera del ’98 che c’è nell’Hangar 18. Impianto stereo?”, chiese, voltandosi verso di noi. Vestivamo i nostri completi migliori. Ci avrebbe definito come persone rispettabili, o come sottilmente pericolose? Decidemmo per una potenza da parata techno. Questo lo rincuorò. Fece il sorriso più smagliante che la sua dentiera poteva permettere e si preparò a incassare la caparra. Da lì a qualche anno la Finanza albanese avrebbe raccolto abbastanza dati per inchiodarlo per traffico di auto usate dall’Italia in Albania e immatricolazione illecita a Tirana, traffico di stupefacenti e favoreggiamento alla prostituzione.

Parcheggiammo l’auto non lontano dal viale dell’Hotel. Era uno di quei crassi alberghi cinque stelle per papponi come il noleggiatore e italiani in vacanza. Proprio quello che ci voleva. Dopo Albisan avevamo tirato dritto verso Labinot e il parco naturale vicino. Se volevamo fare baldoria ci bastava infilare la statale e tornare in città. Non era male il nostro piano. Silvano si accontentò di procurarsi un buon credito presso la sua filiale della Zeta Press Group e intontirli con una marea di giustificazioni giornalisticamente parlando poco convincenti. Avevamo un piano B. “Se le cose dovessero piegare male”, mi spiegò Silvano durante un tratto tra Tirana e Albisan, “prendiamo la statale e usciamo dal Paese, attraverso la Macedonia, il Kosovo e dritti verso Timisoara in Romania. Lì conosco della gente che ci può ospitare.”

“Sarà un viaggio pazzescamente lungo” ipotizzai. Cominciai a sudare.

“Per quello il salmone e la ghiacciaia nel baule. Ce lo razioniamo per bene. Ah, e dobbiamo procurarci del sale marino grosso. Per conservare il pesce. Presto non troveremo più ghiaccio in questa landa desolata.” Doveva aver preso il suo acido già da un pezzo.

Il nostro arrivo all’Hotel fu accolto da una specie di comitato di marmittoni in giacca blu. Si affrettarono ad aprirci la portiera e a prendere i nostri bagagli. “Lasciateli stare lì. Ce ne occupiamo noi. È materiale delicato in dotazione alla nostra professione.” Disse Silvano in italiano. I marmittoni ammiccarono gentili e uno di loro allungò timidamente la mano. Silvano mi dette un’occhiata. Guardai nel mio portafoglio. Si presero una banconota da 50 da spartire. Per mantenere l’immagine, gli facemmo portare una valigia e un beauty, il resto ce lo caricammo sulle spalle. Zaini pieni di bottiglie e materiale esoterico, un salmone fresco di 10 kg almeno e un cesto di cibo-spazzatura.

Il pesce sotto la mia ascella puzzava orrendamente e scivolava ogni tre secondi dalla presa malferma. Per un paio di volte dovetti raccoglierlo dal pavimento in marmo bianco, scivolando sul sottile strato di bava, nel percorso tra l’ingresso e il bancone della Reception. Silvano era in uno stato di paranoia completa, per cui dovetti registrare personalmente la stanza, con una mano sola firmare mentre con l’altra impedire nuovamente al salmone di guizzare addosso all’addetto paonazzo. Un imbarazzato inserviente mi scongiurò di lasciargli il pesce, ma l’occhiata malevola di Silvano mi costrinse a seguire il copione. Glielo potevo leggere negli occhi. Avevano ricevuto precise istruzioni dal capo di non badare alle stranezze dei clienti, di qualunque natura potessero essere. Ma un uomo in camicia e occhiali da sole a specchio, naso finto e mezzo sciolto, pieno di acido e un tizio pelato con un salmone stretto sotto l’ascella, beh, era un insieme pittoresco che non potevano scordare facilmente. Finite finalmente le formalità ci condussero alla stanza, una Suite con l’aria condizionata e una Whirpool al piano attico, terrazza con vista sul parco e schermo 60 pollici. Materasso in schiuma e trecce di corteccia di eucalipto dall’Indonesia. Possibilità di party privati. Quest’ultima clausola non ci era stata spiegata a dovere, Silvano si ripromise di contattare il direttore dell’Hotel per precisazioni.

Malgrado le mie proteste, dovemmo prendere l’ascensore. Meglio non discutere con Silvano. I suoi braccioni fecero impressione. Tesi allo spasimo. Volto quasi “sciolto” ed espressione vaga. Il naso finto sembrava sul punto di staccarsi da un momento all’altro.

Il facchino non chiese neanche la mancia, si defilò appena le sue convenzioni professionali glielo permisero.

“Tira fuori la carbonella e la pietra ollare. Ho voglia di mangiare qualche fetta di salmone sul terrazzo prima che faccia buio”. Silvano tirò fuori dallo zaino un coltellaccio in ossidiana e cominciò ad affettare il salmone usando un tavolino in marmo come ceppo. “Devo riempire questo mio stomaco in trance”. Tirò un fendente da maestro decapitando il salmone. La testa di pesce finì dopo un salto di un metro sul divano in pelle di camoscio bianco. Gli occhi del mio amico spuntavano vivi e alienati dalla faccia scottata dal vento e dal sole. Inveterato, pensai. Inveterato.

Due mesi fa languivamo, io e l’Uomo Fegato, su un letto in un Hotel di Lione. Avevamo cominciato a secretare della gelatina, per cui ci trasformammo lentamente in un corpo gelatinoso, come una massa di spaghetti di soia raggomitolata intorno ad un salame umano. Per una settimana rimanemmo a fissare il vuoto. La richiesta di cibo da parte nostra cominciava a diventare assillante, avevamo bisogno di alcool. Fu lì, più per il senso bruciante di sconfitta e la depressione, che tagliai deciso con l’alcool. Una parte di quella massa gelatinosa divenne consapevolmente astemia. L’altra parte urlò di dolore e astinenza per una settimana, finché il proprietario dell’Hotel in persona non chiamò i pompieri, che sfondarono la porta e portarono via la massa gelatinosa urlante. Ci buttarono senza complimenti sotto un ponte, nonostante le critiche del mondo animalista. Lì venimmo abbandonati, tra le acque di scolo di Lione. Una sera fredda piovve e la gelatina venne sciolta del tutto.

“Che…che cazzo ci faccio qui?” fece una voce.

“Ehi…”. Mi scrollai le ultime tracce di gelatina dagli occhi e mi guardai attorno. Sperimentai uno strano sentimento, come quello di un neonato che apriva per la prima volta gli occhi sul mondo. O perlomeno così immaginai potesse essere. Al mio fianco giaceva un essere umano nudo e viscido di gelatina. Son cose che possono piacere solo ad una ristretta parte di umanità, ma sentii lo stesso un groppo allo stomaco. “A****a, sei tu?”

“Cazzo, anche tu sei tu!”

Un tuono rimbombò sopra di noi. La pioggia seguitò a scrosciare impetuosa. “Perché cazzo siamo nudi?”

“Non mi chiamare con il mio vero nome. Ricordati che siamo qui in missione per conto della Zeta Press Group” biascicò Silvano, la bocca che sputava spine di pesce. Tra un boccone e l’altro si scolava tre-quattro sorsi dalla bottiglia di vino bianco gelato. La luce del tramonto lo faceva sembrare un satiro con gli occhiali Ray Ban a specchio. “La tua decisione di diventare astemio ci ha salvato. L’Essere che ci aveva posseduto non è sopravvissuto alla carenza di alcool ed è morto, interrompendo di fatto la mitosi cellulare e la fusione delle nostre personalità”

“Dì, lo sai che si fermava con semaforo rosso?”

“Coglione depravato di un Essere.” Una fenice dai mille colori si levò in volo dall’ultimo raggio di sole e si incenerì a pochi metri dal volto stupefatto di Silvano. “Merda. Il tipo che me l’ha venduto non mi ha raccontato cazzate.”

“Che ci facciamo qui? Voglio dire, oltre ad eseguire il compito affidatoci dalla Zeta Press Group…la Torpedine è ancora a piede libero in una remota regione nel sud-est della Francia. Sta diffondendo il cancro dei Poster.”

“Rilassati. Penso a tutto io. Vedi di trovare del sale grosso però, il salmone comincia ad andare a male e abbiamo bisogno di scorte di cibo da qui a Timisoara.”

“Ma non doveva essere parte del piano B?”

“Mi sbagliavo. Uno di quei conoscenti che abitano in Romania sanno come prendere la Torpedine all’esca e arpionarla a bordo. Bisogna tramortirla poi con un colpo alla testa usando una mazza da baseball e un guantone, per via dell’elettricità.”

“Stai parlando della vera torpedine, il pesce.”

“Sto parlando della Torpedine, il nostro uomo. Metà ingegnere metà torpedine. Ho tutti i dati. Ora metti ancora un po’ di brace qui sotto la pietra ollare.”, disse, prendendo uno stuzzicadenti dal suo taschino. Prese a soffiare una fresca brezza proveniente dalle montagne. “Per questo ho deciso per questo posto. Qui ci si può concentrare.”. Il suo faccione dondolò leggermente, il naso finto finalmente si staccò e gli cadde in grembo. “Maledizione. Mi ci vorrà della loctite. Devo sembrare balcanico. A tutti i costi.”

“Stanza 1056. Sì, quelli del salmone. Portatemi per favore un…barattolo di loctite, del tipo industriale. Devo riattaccarmi il naso.”. Una mano inguantata riattaccò la cornetta. Si prevedevano guai con la Direzione dell’albergo.

La sera stessa sgommammo con la Clio a tutta potenza dal viale ghiaioso dell’Hotel Suvrana e scendemmo pericolosamente a valle. I fari illuminavano la strada di montagna tutte curve, verso il ventesimo chilometro Silvano rigettò parte del pesce mentre era esposto sul tettuccio. Il vomito dovetti eliminarlo con il tergicristallo e metà serbatoio di liquido, mentre ero ancora in corsa. Qualche pezzo di salmone rimase attaccato però tutt’intorno.

Il massimo vantaggio di viaggiare nei Paesi balcanici era sicuramente la possibilità di avere certe licenze nell’ambito del codice stradale. Ci capitò più volte di toccare i 100 Km/h su strade cittadine. Polizia non ne vedemmo in giro, perlomeno lungo quel che era stato il nostro percorso. Tantomeno autovelox, apparecchi troppo costosi per la gran parte delle casse delle province. Fu una delizia con il motore ritoccato della Clio 16 valvole.

In città c’era movimento, complice una festa di paese. Bande musicali e bevande spiritose albanesi ci spinsero ad esagerare ed esplodemmo qualche colpo a salve con la nostra Beretta. Un gruppo di idioti ci tirò una bottiglia addosso e una serie di improperi in albanese e dovemmo svignarcela. “Dobbiamo mantenere il controllo” fece Silvano, mentre il naso finto gli cascò per la seconda volta. Non lo ritrovò più per fortuna. Finimmo in un locale, un pub dall’arredamento d’avanguardia. Silvano si sedette su quello che sembrava un sedile di una Fiat Punto e io su una pila di pneumatici consumati. Dava l’idea di essere stata una officina. Una idea niente male. Ordinammo dei drink, tanto per scaldarci. Il mio socio era in piena giostra. “Sembrano tanti insetti famelici”, disse, riferito ai presenti nel locale. C’era un buffet al centro e si ammassavano lì tutti intorno. Quando cominciò una specie di dj con la canottiera e la panza di fuori a mettere dei pezzi a tutta cassa, la gente cominciò a bere forte e a ballare. Dopo poco ci ritrovammo in mezzo a quei corpi sudati a danzare come ossessi e a bere vodka da bottiglie passate di mano in mano. Silvano barcollò in mezzo ad una coppia di donne obese, piacevolmente sorprese da tanta attenzione da parte di un maschio latino più o meno dalla faccia pulita. Il corpulento dj gridò qualcosa nel bel mezzo di una canzone e la folla agitò di più i corpi. Mi ritrovai a strusciare il mio pacco su un culo, prima di accorgermi che era un primate maschio dalla faccia cavallina.

La folla formò un cerchio e ci mettemmo le braccia sulle spalle, a ballare tirando le gambe in alto, cantando a squarciagola, prima in senso orario e poi antiorario. Silvano era quello più scatenato, la vodka e l’acido avevano creato una miscela divertente. Dal canto mio avevo le mani su un paio di diverse misure di seni e il mio pensiero andò a Sabrina Salerno.

A pensarci col senno di poi, avremmo potuto seriamente divertirci, se non avessimo bevuto così troppo, e dovreste aver capito il senso. Diciamo che avevamo scaldato per bene i motori ma avevamo faticato a decollare, e le Hostess che accompagnavano i piloti erano di prima scelta. Una dai capelli rossi corti me la limonai in mezzo a dei vecchi serbatoi di carburante di camion Iveco, mentre un’altra premeva il suo bacino sul mio culo. Una specie di sandwich. Di Silvano persi le tracce. L’ultima volta che lo vidi stava in mezzo al cerchio paralizzato dal terrore mentre una decina di donne turbinavano intorno a lui. Non credo sia andato più avanti con la cosa.

“Non mi sento più le ossa. Non mi sento più le ossa. Merda. Che tu sia maledetto.”

“E io che c’entro?” biascicai io.

“Questa è l’ultima volta che mi faccio trascinare il culo da te in queste situazioni merdose. Merda. No mi sento più le ossa. Ho le palle ritirate. Ho avuto paura che mi fagocitassero, quelle vulve impazzite.”

“Sei solo un vigliacco. Un maledetto vigliacco.”

La Clio imboccò a settanta all’ora un vicolo in contromano. Erano le tre di notte. Una coppia per poco non la investimmo.

“Vedi di darti una calmata. Altrimenti ci ammazziamo.”

“Voglio qualcosa che mi calmi. Cerchiamo un pusher. Voglio comprare della droga.”

“Tu sei matto. Dovresti dormire un paio d’ore e mangiare del salmone fresco sulla pietra ollare. Facciamo una tirata e tra mezz’ora massimo quaranta minuti ci trituriamo quei 140 km sulle montagne e siamo nella nostra suite.”

“Non rompere. Voglio comprarmi della droga.”

“E va bene. Ma fammi un favore. Non fare lo splendido e cerca di non trattare sul prezzo o la quantità. Qui siamo nei Balcani, non in Costa Azzurra.”

“Certo.”

Quando diceva certo, voleva solo dire una cosa: terminare quei discorsi del cazzo e fare il cazzo che voleva. Quindi guai. Cavalcai l’onda. Che potevo fare? Ero ubriaco e avevo fatto un sandwich con due tipe. Se solo ci fosse la Torpedine.

Adocchiammo una coppia di tipi dall’aria di freaks. Accostammo e subito il Silvano volle partire esagerato. Con un albanese biascicato chiese ai due se volevano dell’eroina buona. Prima che tirò fuori il ferro, misi la prima e accelerai di brutto. Sentì che uno dei due era riuscito a rifilare un calcio alla carrozzeria.

“Uuuuuuuhhh, hanno dato un calcio alla Clioooo! Uuuuuhhhhh!” ululò Silvano pieno di ira. Fece partire un colpo dal ferro. “Dove abbiamo messo i proiettili veri?”

“Lascia stare”. Presi nuovamente un vicolo in contromano. La cittadina non dormiva, alcuni passanti riuscirono a rimanere in vita nonostante la nostra guida pericolosa e criminale. Sentì partire un nuovo colpo. Cercai di intimare a Silvano a darsi una calmata, ma sembrai gettare più benzina sul fuoco.

“Torniamo indietro e ammazziamoli di botte!”, schiumò Silvano. “Vi troveremo e vi segheremo via la testa con una lama sega-ossa! Brutti bastardi!

Accadeva veramente. Una volta superata una soglia, Silvano non era più recuperabile. E davanti a lui c’era una lunga notte, ancora 5 o 6 ore o giù di lì di allucinazioni e violenza di natura schizoparanoide. Accanto a me un nuovo Charles Manson, pronto a trucidare degli innocui freaks con le mani nude. Aveva tra l’altro ancora un guanto di pelle nera addosso alla mano che stringeva il ferro. Dovevo prepararmi al peggio, ad una notte passata in una stazione di poliziotti albanesi ed un socio completamente fuori per l’acido. Una brutta combinazione. Probabilmente il nome della Torpedine sarebbe saltato fuori, avrebbero fatto un sacco di domande a me, avrebbero chiesto di parlare con la nostra Agenzia, il castello di carte sarebbe crollato, lasciandoci in terra balcanica senza credito e un Silvano in crisi mistica. Il panico cominciò a serpeggiarmi insidioso nel cervello e nello stomaco. Feci un freno a mano in mezzo ad una piazza e nel contempo accelerai in prima, infilandomi in un altro vicolo. Le indicazioni che sfilavano al limite del mio campo visivo parlavano di un castello medievale, in cima a quella che doveva essere una collina in mezzo al centro storico. Presi un dosso a 90 all’ora in salita, ci sembrò di volare. Gli ammortizzatori funzionarono a meraviglia e atterrammo interi. Riprendemmo la corsa. Intanto Silvano si era chiuso nel silenzio. Nei pressi del castello c’era una piazzola con magnifica vista sulla città. All’interno della piazzola c’erano macchine parcheggiate e semoventi nel buio. Perfetto, eravamo finiti in una scopadromo. Spensi finalmente l’auto e rimanemmo in silenzio per un po’ a far riposare i sensi – almeno per quel che riguardava me – e a sentire il ticchettio del motore surriscaldato. Mi rilassò un pochino. Gettai un’occhiata a Silvano. Il suo primo esperimento con LSD sembrava volgere al peggio, verso una fase pericolosa. All’improvviso dei fari ci illuminarono da dietro. Ci clacsonarono insistentemente.

“Vedi di farli smettere altrimenti gli sparo!” brontolò con fatica Silvano dal profondo del suo malessere psicofisico. Mentre avviai il motore guardai dallo specchietto e riconobbi una faccia. Era uno dei freak. “Merda!”. Sgommai all’indietro per dare loro l’impressione di andargli addosso. Poi misi la prima e partì veloce nell’altra direzione. “Merda, ci hanno trovati. Non so come ma ci hanno trovati!”.

“Scappa Marty!”, citò ad un livello inconscio Silvano.

L’inseguimento poteva avere solo dei sicuri vincitori. La Clio ritoccata tenne fede alle promesse. Ma i nostri inseguitori non erano certo ossi morbidi. Ci stettero dietro per la bellezza di 40 km. Finché Silvano uscì dal coma lisergico e sparò qualche colpo verso i freaks, che si spaventarono e rallentarono visibilmente. “Froci!” urlò al vento. Dopodiché fu facile seminarli sulle strade statali, dove toccai i 200 sui rettilinei. Intanto Silvano era crollato. Arrivato all’Hotel mi feci aiutare dall’inserviente notturno nel trasportarlo su fino alla suite. Lì crollò come un peso morto sulla moquette e ci rimase per una decina di ore. Al risveglio gli cucinai del salmone. Un’ora dopo il direttore in persona ci portò una lettera dalla Zeta Press Group. Quei fessi avevano abboccato alle balle di Silvano e avevano emesso un assegno di cinquemila euro per le “spese di ricerca giornalistica”.  Più un biglietto aereo da Timisoara verso Lione. Quel furbone di Silvano infine li aveva convinti con le sue storie. Dio quanto invidiavo le sue capacità di persuasione.

Il mattino dopo demmo la notizia al direttore dell’albergo che stavamo per muoverci verso Timisoara in Romania. Dentro di lui era piuttosto sollevato, ma le sue qualità di attore erano da valutare per una parte di un film hollywoodiano. Silvano da parte sua se ne stava al suo fianco fingendo di mantenere il controllo della situazione, con i suoi occhiali a specchio e un naso finto fatto con un tappo di bottiglia e incollato con la loctite industriale. Nell’insieme una immagine distorta e malata del mio compagno di avventure, altrimenti pacata e rassicurante. Finimmo di effettuare le ultime pratiche e raccogliemmo le nostre cose. Il salmone mezzo mangiato lo mettemmo in un sacco pieno di sale e credo lo dimenticammo lì, perché nel frattempo sarebbero successe delle cose, tra le quali il dover sacrificare il sacco facendogli fare un volo carpiato attraverso la corsia di un’autostrada di Pristina. Dovevamo liberarci della zavorra, avrebbe detto Silvano.

Silvano. Naturalmente quel nome fittizio se l’era scelto lui, in ricordo di un tizio particolare che aveva un problema con le sue mutande.

Arrivati a Timisoara incontrammo il nostro uomo. Ci vedemmo in un locale, una vineria. C’era parecchia gente e parecchio rumore. Il tizio parlava un italiano corretto, ma per il rumore non riuscimmo a cogliere alcuni particolari importanti. Silvano sudava e si torceva le mani. Eravamo sulla traccia giusta.

L’idea era di fregare la Torpedine adescandola con un’esca. Il problema era procurarci l’esca, cosa non facile considerando che doveva essere in un qualche modo informata che il suo compito era: attirare un essere dalle movenze singolari e scattanti, pericoloso dal punto di vista sessuale e per di più ossessionato da Sabrina Salerno. Dato che la vera Sabrina aveva qualche problema a esporsi così tanto, come mi aveva già fatto capire più di una volta, bisognava ricorrere ad uno stratagemma.

Al casting vennero più di 30 ragazze,  di età compresa tra i 19 e i 25 anni, dalle sembianze simili alla Sabrina, come espressamente richiesto dall’Agenzia. Utilizzammo i soldi che la Zeta Press Group ci aveva spedito per allestire il tutto. Con cinquemila euro a Timisoara potevi affittare uno stadio e pagare un’agenzia di Catering per un buffet degno di Hollywood. Le tipe ci cascarono come pere marce. Io e il tizio ci occupammo della selezione delle ragazze, mentre Silvano correggeva il tiro con i capi della Zeta P.G.. Alla ragazza scelta raccontammo che le riprese sarebbero cominciate a Lione, in Francia. La vista del biglietto aereo fu decisiva. Silvano le si avvicinò e le sussurrò all’orecchio: “Quello che ti proponiamo è un incarico bieco. Riuscirai a esserne all’altezza?”. Fu sul punto di rovinare tutto. Per fortuna la ragazza si dimostrò entusiasta fino alla fine. “Ho grinta, signore, grinta da vendere!”, disse convinta, muovendo i fianchi e sfoggiando un sorriso paurosamente sexy. “Ne siamo convinti. Ne siamo convinti.”, terminò Silvano teatralmente, chiudendosi in un silenzio che sarebbe durato fino al nostro sbarco in terra francese. Sull’aereo ordinammo da bere a spese dell’Agenzia e gozzovigliammo insieme alla ragazza, che sorrideva come se dovesse fare un film con Justin Bieber in persona. Silvano stendeva la mascella nervosamente. Il momento si stava avvicinando. Forse quella sera stessa avremmo deciso finalmente le sorti dell’umanità e fatto cessare lo scempio.  La Torpedine avrebbe abbandonato il corpo dell’italo-franco-irlandese per sempre e tornato negli Inferi.

L’organizzazione del Cast non era necessaria. Contavamo sul fatto che della ragazza la Torpedine avrebbe fatto scempio, quindi ci saremmo potuti risparmiare lo sforzo dell’allestimento. Sarebbe stata – purtroppo per la ragazza – una cosa rapida, questione di minuti. Una volta preso contatto visivo con la vittima, le sarebbe balzata addosso in un batter d’occhio. E sarebbe stata nostra la Torpedine. Il destino della ragazza passava in secondo piano.

Facemmo scalo a Roma. Qui il tizio di Timisoara mi si avvicinò e abbozzò una espressione da uomo saputo. “Ehi, ma è proprio imprendibile questa Torpedine?”

“Non puoi immaginare. L’ultima volta ci è scappato in sella ad una bici senza sellino.”

“Cacchio, è un osso duro.”

“Puoi dirlo forte.”. Mi rimisi le cuffie del lettore mp3 e sorrisi rassicurante alla ragazza. Mi sentii un nazista, ma ogni tanto è moralmente accettabile rompere qualche uovo per fare una frittata.

Scendemmo a Lione alle undici di sera. Io e Silvano ci concedemmo una notte di riposo in albergo. Passammo la notte a guardare gli annunci pubblicitari della Egorex. Andrea Roncato aveva conquistato l’Europa. Nella camera accanto il tizio di Timisoara si pompava energicamente la ragazza.

“Tu pensavi che il pene enorme della Cosa apparteneva al pornoattore in pensione assimilato dall’Uomo Fegato, vero?”, domandò, rompendo il lungo silenzio.

“Certo A****a, sennò a chi?”

Silvano sorrise misterioso e ritornò a guardare la pubblicità della Egorex.

Nel frattempo a Roma venne montato il clip con la ragazza per la promozione del “film”: 

Are you ready?

Chi aveva avuto la stronza idea di prenotarci una stanza in un albergo frequentato da prostitute? E chi aveva scelto quella determinata stanza, la quale si trovava a poche centinaia di metri in linea d’aria dal campanile della chiesa di paese? Difficile dirlo. Forse io stesso. Il telefono della Z Press Group risultava muto, o forse la compagnia telefonica aveva ritenuto necessario mandarci un messaggio chiaro sulla posizione che mantenevano nei confronti di chi non pagava le bollette da svariati mesi.

Il mutante in forma umanoide che gorgogliava e russava sul letto accanto non si faceva troppe domande. Era arrivato ad uno stadio in cui le forme di pensiero erano ad un livello di sopravvivenza basale, paragonabili a quelle dei funghi ibernati. D’altronde era anche vero che da giorni non aveva trovato che di cibarsi, a parte qualche animale disabile, troppo lenti per scappare. Cibarsi poi non era la parola esatta per descrivere il modo in cui si nutriva. Succhiare poteva dare meglio l’idea di come assimilava le sue vittime, ma sono sicuro che generebbe un sacco di pensieri maliziosi nelle vostre menti malate.

Insomma stavamo in questa stanza d’albergo, quando il telefono cellulare suonò.

“Sì? Sì. D’accordo. Come li vuoi? Va bene, sono d’accordo. No. Assolutamente no. L’uomo Fegato lasciamolo dov’è. Dammi le coordinate. Va bene, ci sarò.”. Riattaccai. Avevo le mani fredde e sudate. Raccolsi da sotto il cuscino la Beretta semiautomatica e me la infilai sotto la cintura. Era maledettamente fredda. L’uomo Fegato dormiva il suo sonno senza sogni. Dopo la ventina di bomboloni che gli avevo rifilato i corpi multicellulari come lui piombavano nel coma profondo. Era ancora vivo? Se quella forma gelatinosa poteva essere definita vita, io potevo essere la regina d’Inghilterra. Forse 20 bomboloni possono causare la morte in un essere così. Ma no, mi dissi. Dio non voglia. Ad un certo livello gli volevo bene. Tolto il fatto che partiva come un cane da caccia sulla preda quando sentiva odore di alcool etilico, era un buon Essere, comprensivo e di buona compagnia. Durante il viaggio con la decapottabile attraverso il Tunnel della Manica diretti in terra francese – lo lasciai guidare per un 300 km circa prima di riprendere le redini e stupirlo con la mia guida sportiva – si aprì un pochino e mi svelò alcune cose relative il suo vivere e il suo sentire. “È fondamentale avere sempre con sé una raccolta di cd di musica classica.”, soleva dire. “Raccogli prima di seminare.”, diceva ancora convinto. “Uno per te e cinque per la tua mano.”. Quest’ultima frase sibillina aveva qualcosa a che fare con i rapporti intimi con l’altro sesso, voleva essere una specie di raccomandazione, perché secondo lui mi ritiro dalle potenziali occasioni sessuali che la vita mi mette in mano. Per paura. Cazzate. Io non ho paura della vagina. “Facile fare il frocio con il culo degli altri.”, sparò secco, con la sua voce gorgogliante. “Con questo che vuoi dire?”, chiesi guardingo. “Uomo avvertito, mezzo spanato.”. Ormai riusciva a comunicare solo per aforismi complicati.

Mi misi un caricatore pieno in tasca e uscii dalla stanza d’albergo. Mi scordai di mettere il cartello NON DISTURBARE, e quello fu il primo errore. Il secondo lo compii al momento di incontrare il mio uomo. Lo salutai con la mano sinistra, e quello la prese sul personale. “Ti ho già detto che quella è la mano che si usa per pulirsi il culo.”, fece risentito. “Sì, ma viviamo in tempi in cui è facile trovare della carta igienica in bagno, sai? Dovresti tenerti aggiornati sugli ultimi sviluppi tecnologici.”. La mia risposta dovette bastare, ma per sicurezza mi sbottonai con fare casuale la giacca, per fargli vedere che portavo il ferro, teste calde sette millimetri. “Di questi tempi” aggiunse lui con fare casuale “chiunque può sbottonarsi la patta e mostrarlo, ma rischia di farsi una figura di merda.”. Il suo ferro era grosso e luccicante. E doveva avere anche una erezione, oppure un grosso caricatore nella tasca dei pantaloni. Entrambi.

“Hai il grano con te?”

“E tu hai le informazioni?”

“Certo. Che ti credi?”

Ci fu un casuale scambio di buste, poi ognuno guardò nella sua. Non mi accorsi che mi puntava la sua pistola addosso finché si schiarì educatamente la voce. “Ehi, che vuol dire questo? Avevamo un patto!”. In quel momento pensai che stavo per essere ammazzato, però non avevo paura. Ero solo stupito e imbarazzato. Non mi capitava spesso di commettere tali errori. Ah sì, ecco il terzo errore. “Voglio sapere come hai fatto a trovare il contatto si Sabrina Salerni.”

“Si chiama Salerno di cognome.”

“Frega niente. Dove l’hai avuto il contatto? Voglio il suo indirizzo!”. La sua fronte era imperlata di sudore e si guardava nervosamente intorno, per vedere se arrivava gente. Non sembrava un professionista, ma solo uno di quegli attori porno diventati vecchi che finiscono per avere parti in film dove fanno solo i guardoni. Pelato, con codino, baffetti unti e orologio d’oro. No, non era un professionista.

“Ehi!”, feci, come per attirare l’attenzione di qualcuno. Mi mossi, non troppo rapidamente, ma bastò per mettere un po’ di metri dal suo pistolone. In un libro avevo letto che anche un dilettante può avere la meglio su un professionista, se ha una pistola, ma che l’unica possibilità che ha il professionista è di distrarre il cretino e correre a zig-zag verso un posto meglio protetto. Sentì partire due colpi e come in un incubo mi sentì bruciare la schiena. Riuscii a infilarmi in un vicolo. Ci eravamo dati appuntamento in una piazzola dietro un’area di servizio in costruzione, di domenica. Non c’era un’anima viva intorno. La macchina l’avevo parcheggiata in fondo al vicolo. Sentii passi veloci dietro di me, poi un rimbombo. La terza pallottolona mi portò via un pezzo di maniglia dell’amore. Ma le altre mi avevano centrato? mi chiesi ancora. Ero totalmente sotto shock. Doveva andare così? Non potevo dargli quel maledetto contatto? Di una cosa potevo essere fiero. Nella tasca avevo le informazioni che mi servivano e mi bastava, fanculo le pallottole e quel attore porno in pensione con quel taglio di capelli imbarazzante. Poi crollai a terra, bianco come un cencio. Persi conoscenza.

Mi aveva preso tutte e tre le volte, il bastardo, prima di venir assimilato dall’Uomo Fegato, accorso in mio aiuto in bicicletta. Lo adoro, lo amo, l’Uomo Fegato. Mi raccolse da terra, finalmente rinvigorito dal suo ultimo pasto, e mi portò fino all’albergo tenendomi in equilibrio precario sulla canna della bici. Non mi portò in ospedale, aveva piani migliori.

“Ehi amico, ma sei sicuro?” feci, non del tutto d’accordo con i suoi piani.

“Stai perdendo sangue, e non puoi essere ricoverato.”

“Perché? Non ho niente da nascondere!”

“Non sei assicurato, non ricordi? Inoltre gli ultimi soldi li hai dati a quel bastardo.”

“Li aveva con sé! Non li hai trovati?”

“Credo di averli digeriti.”

“Merd…”

“Non sentirai dolore.”

“Si ma…”

“La vita sta lasciando il tuo corpo. Presto perderai i sensi e sarà l’ultima volta.”

“Cazzo. Però tu…tu hai anche i tuoi interessi.”

“Naturale. Sono l’Uomo Fegato. E nel tuo sangue ci sono ancora tracce di alcool.”

“Lo so. Ho notato che non ti sei perso una sola goccia.”

Rimanemmo in silenzio per un po’, poi presi la mia decisione. “Fa male?”

“Per niente. Senti solo un risucchio potente.”

“Ah…come un succhiotto?”

“Più come un pompino. Ti senti bagnato e avvolto in una calda mucosa.”

“Beh…non suona male. Perché non me lo sono fatto fare prima, mi chiedo…”

“Me lo chiedo anche io.”

“Beh, procedi. Fai solo in fretta.”

All’inizio fu strano, il dolore e tutto. Poi quella lancinante stretta alla schiena sparì piano piano per lasciare spazio ad una meravigliosa sensazione di unione e di caldo avvolgimento. Verso la fine fu come un orgasmo e un sipario si chiuse sulla mia coscienza.

Ora posso dire che mi sento da Dio. Sono io e l’Uomo Fegato. È una sensazione fighissima. Per la prima volta mi sentivo snodato come Bruce Lee e rapido, fottutamente rapido. Ma anche rilassato e sicuro di me. Temetti di perdere la mia individualità, ma l’Essere aveva fatto in modo di mantenere intatta la mia personalità. Mi sistemai il ferro del pelato nella tasca di destra e la mia Beretta nella sinistra. Poi indossai il mio vestito migliore. Mi guardai allo specchio. I lineamenti dell’Essere non erano quelli di prima, era un misto delle parti migliori prese dagli esseri umani assimilati nelle ultime 48 ore. Mi calai i pantaloni. Ecco cosa avevamo preso dal pelato bastardo. E poi avevo (avevamo) il volto più affascinante che avessi visto in un uomo. Eravamo una macchina da guerra. E presto sarebbe toccato alla Torpedine, che in questo momento viveva la sua vita a poche miglia da Noi inconsapevole che eravamo sulle sue tracce e che avevamo fiutato il suo odore, un misto di pollo fritto e camionista sudato.

Intanto le notizie che arrivavano parlavano di una specie di epidemia di influenza nel Regno Unito e nel nord della Francia. La gente aveva l’eclisse negli occhi. Nel Regno Unito compravano tanta frutta e roba sana. In Francia la gente parlava fluentemente inglese. Assurdo. Era ora di fermare la Torpedine e la sua azione contronatura. Avevo l’indirizzo. Ah. Gli occhiali. Li gettai per terra e li pestai ripetutamente con il tacco della scarpa. Non ero più un maledetto miope, avevo gli occhi di un’aquila.

La Torpedine, come ogni mattina, si alzò di buon’ora e si recò dal panettiere. “ ‘na baguette sivvupplè!”. Il panettiere fece finta di capirlo e prese uno sfilatino da quelli del giorno prima. “Tiè, prendi, italoirlandese del cazzo!”, dovette pensare ogni giorno alle 10 del mattino il panettiere. Sulla parete di dietro capeggiava il profilo migliore di Sabrina. Un sorrisetto solcò il volto della Torpedine. Svelto come un furetto si infilò la baguette sotto l’ascella come si conviene e rilasciò una puzzetta.

L’aria era primaverile, la gente lo salutava per strada. Inforcò la bici e canticchiò Boys Boys Boys felice e empatico. La vit sè fantastic! Prese un buco con la ruota e la baguette gli cadde per terra. Nel raccoglierla evitò la prima freccetta narcotizzante sparata dall’Essere appostato a pochi metri da lui, tra un gruppo di cespugli di un ristorante. La Torpedine si voltò in quella direzione. “Ah maledetti, infine mi avete trovato. Tu, essere immondo!”. Il suo volto era pressappoco come quello di un ingegnere che scopre un sistema per inculare tutti con un virus simpatico che fa tintinnare contemporaneamente tutti i computer infettati come bicchieri di applemartini in un party di nerd omofobi. Insomma, contraddistinto da un’espressione folle. Non sapeva se sorridere o urlare. Inforcò la bici e la seconda freccetta sibilò a due centimetri dal suo orecchio. Il sellino si staccò e si fece così poco comodamente dieci metri di strada acciottolata francese prima di urlare: “MALEDETTE STRADE FRANCESI!!”. Il suo retto fece un sordo rumore come di una salsiccia che esplode nel forno microonde. Prese la baguette e ce la gettò addosso. Me la ingoiai in un sol colpo. Per un attimo rimase a guardare affascinato. I passanti osservarono la scena incuriositi, qualcuno faceva un video con lo smartphone. L’inseguimento andò avanti, lungo le strade di Lyon. “Vedi di smetterla con quella storia dei poster!” gli gridammo dietro, in francese.

“Non posso! Ormai ho cominciato!”. La sua sembrava una dichiarazione di colpevolezza, in un disperato tentativo di farci pena. Aumentai l’ampiezza delle mie falcate. L’avevo quasi raggiunto. S’infilò in una vineria e lì non potei resistere. Assimilai tutti i presenti e bevvi tutto come un porco. La Torpedine mi sfuggì nuovamente.

Rintanato della mia stanza d’albergo sentì il rintocco della mezzanotte. Mi svegliai sudato – ci svegliammo sudati – e non potei fare a meno che ripensare alle ultime ore. La Torpedine sembrava una anguilla, talmente ci sfuggiva in ogni frangente in cui sembrava fatta, sembrava in trappola. Poi trovava sempre una via di fuga e lo perdevamo. Questa volta fui vittima della mia stessa fame e voracità. Forse la caccia non aveva senso. Forse l’umanità doveva finire così, a sbavare sui capezzoli stregati di Sabrina. La stessa Sabrina sembrava essersi stregata da sola. L’ultima volta che l’avevo sentita sembrava così lontana, così persa. O forse era il suo stato normale. Mi vedesse ora, verrebbe subito a letto con me. Con Noi. Oh come sarebbe bello. Noi tre. Noi quattro, volendo considerare il pornoattore in pensione. Forse dovrei chiamarla. Dopo aver fatto l’amore avremmo guardato il sole tramontare sul campanile e contato le cornacchie che volavano in cerchio attorno alla croce.  Avremmo guardato l’umanità tramontare per sempre.

Una cosa per volta, pensammo, prima di riaddormetarci.